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lunedì 02 ottobre 2017
Catalogna tra franchismo e indipendenza
di Michele Paris
La risposta del governo di Madrid al referendum di domenica per l’indipendenza della Catalogna ha suscitato l’orrore tra l’opinione pubblica internazionale, aggravando nel contempo una crisi politica e costituzionale in Spagna che sarà ora difficile da risolvere in maniera pacifica e condivisa.
Durante l’intera giornata dedicata alla consultazione, si sono susseguite notizie e immagini delle violenze della polizia spagnola per impedire il voto, con gli agenti che si sono spesso accaniti contro donne e anziani recatisi ai seggi. Alla fine, il numero dei feriti è stato di oltre 800, mentre le operazioni di voto sono state ostacolate sia fisicamente sia sul fronte informatico.
Per le autorità locali catalane, l’affluenza è stata comunque del 42% e i favorevoli alla secessione avrebbero prevalso con circa il 90% dei consensi. Decine o forse centinaia di migliaia di schede sono in ogni caso rimaste escluse dai conteggi, a causa dell’intervento delle forze di polizia, e la gran parte dei contrari all’indipendenza ha evitato di recarsi alle urne, visto il clima di intimidazione promosso da Madrid.
Gli equilibri effettivi delle opinioni sulla secessione in Catalogna sono con ogni probabilità diversi da quelli usciti dal referendum, ma è fuori discussione che la repressione decisa dal governo conservatore di Mariano Rajoy si sia risolta in un clamoroso autogol. I sondaggi fino a qualche settimana fa indicavano una leggera maggioranza contraria all’indipendenza, ma la determinazione, degna di un regime fascista, con cui Madrid nelle ultime settimane ha cercato di fermare il referendum ha finito per radicalizzare moltissimi catalani.
Allo stesso tempo, il comportamento del governo centrale rende ora complicata l’apertura di una qualche trattativa con i leader indipendentisti catalani. La frattura, giunta al culmine domenica, è apparsa evidente anche da vari episodi registrati in Catalogna, come la disobbedienza agli ordini provenienti da Madrid e la resistenza aperta opposta alla “Guardia Civil” in difesa degli elettori da parte, ad esempio, della polizia locale (“Mossos d’Esquadra”) o dei vigili del fuoco.
Dopo la diffusione dei risultati, inoltre, il premier catalano, Carles Puigdemont, ha lasciato pochi dubbi sui prossimi passi, parlando del “diritto conquistato a una repubblica indipendente” e della sua intenzione di chiedere al parlamento regionale una dichiarazione unilaterale di indipendenza già “nei prossimi giorni”
Sul precipitare degli eventi in Catalogna ha influito in primo luogo l’atteggiamento del premier Rajoy. Ancora domenica, quest’ultimo non ha mostrato nessun accenno di cedimento, a riprova che i poteri a cui fanno riferimento il suo governo e il suo partito continuano a sostenere la linea dura nei confronti degli indipendentisti catalani.
Rajoy, com’è noto, ha difeso le iniziative della polizia, descritte come necessarie per un governo che ha il compito di adempiere alle proprie responsabilità. Singolarmente, il primo ministro del Partito Popolare (PP) ha anche affermato che il referendum per l’indipendenza della Catalogna non avrebbe nemmeno avuto luogo nella giornata di domenica perché non previsto dalla Costituzione spagnola e giudicato illegale dalla Corte Costituzionale.
Il primo ministro ha poi convocato una riunione tra i principali partiti politici nazionali a Madrid per discutere degli eventi in Catalogna. Che la situazione rischi però di sfuggire di mano al governo centrale è confermato anche dalla proclamazione di uno sciopero generale nella regione nord-orientale della Spagna per la giornata di martedì.
Se la ferocia con cui il governo di Madrid ha agito in Catalogna ha sconvolto milioni di persone in tutto il mondo, la vicenda del referendum ha in definitiva portato all’attenzione generale le tendenze autoritarie della classe dirigente spagnola, soprattutto di destra, già evidenti da tempo. Il pugno di ferro di Rajoy è assieme la dimostrazione della deriva anti-democratica prodotta dalla crisi economica, che in Spagna ha avuto e continua ad avere effetti devastanti, e la persistenza di elementi riconducibili al franchismo.
All’interno delle strutture dello stato spagnolo non ha d’altra parte mai avuto luogo una vera e propria epurazione di personalità e strutture compromesse con il precedente regime. Ciò è vero per quanto riguarda la magistratura e, ancor più, i vertici militari e della polizia, mentre lo stesso Partito Popolare, che oggi guida un governo di minoranza a Madrid, discende direttamente dagli ambienti sui cui si appoggiava il franchismo.
Il movimento indipendentista catalano, da parte sua, affonda le radici in parte proprio nel risentimento verso lo stato centrale risalente alla Guerra Civile spagnola e al franchismo. Esso è stato però alimentato negli ultimi anni anche dai riflessi della crisi economica e dalle frustrazioni crescenti nei confronti di governi, come quelli guidati da Rajoy e in buona parte anche quelli socialisti che li hanno preceduti, responsabili di rovinose politiche anti-sociali e coinvolti in clamorosi scandali di corruzione.
Per quanto riguarda la classe dirigente catalana che punta alla secessione dalla Spagna, peraltro, le ragioni del referendum sono solo in parte da collegare alla democrazia e all’autodeterminazione. In Catalogna come altrove, la classe politica locale e gli interessi economici a cui fa riferimento puntano in realtà a svincolarsi dalle autorità centrali per gestire autonomamente, da un lato, le proprie finanze e, dall’altro, i processi di integrazione nel capitalismo internazionale.
In ogni caso, la guerra di Madrid al referendum catalano e, soprattutto, la violenza che ha colpito migliaia di cittadini innocenti e inermi sono anche responsabilità della classe politica europea, schierata quasi unanimemente a sostegno del governo Rajoy, anche se talvolta debolmente criticato per avere contribuito a far degenerare la situazione. Ad eccezione di qualche voce isolata che si è limitata a condannare le violenze, come quella del premier belga Charles Michel o del capo negoziatore UE per la “Brexit” Guy Verhofstadt, i leader europei sono rimasti in silenzio nella giornata di domenica o hanno confermato il loro appoggio alle iniziative prese da Madrid.
La sensibilità democratica altamente selettiva dei governi occidentali e dei vertici UE nell’approccio alle crisi “interne” che hanno luogo nei vari paesi rivela, a parte un livello di ipocrisia difficilmente quantificabile, ansie più che giustificate per un possibile contagio di tensioni sociali esplosive che, almeno in parte, hanno assunto in Spagna la forma dell’indipendentismo.
La sola repressione dal sapore franchista di Rajoy, per non parlare di un eventuale successo del progetto secessionista catalano, rischia di destabilizzare la Spagna e di riaccendere altrove focolai di protesta e spinte centrifughe che potrebbero saldarsi con le profondissime frustrazioni nei confronti di governi e istituzioni giustamente percepiti come strumenti dei grandi interessi economici e finanziari. Per tutto ciò, in sostanza, la classe dirigente europea non dispone di risposte né di soluzioni democratiche percorribili.
I prossimi sviluppi della situazione in Catalogna saranno ora da seguire con estrema attenzione, visto che lo scontro tra Madrid e Barcellona sembra avere raggiunto un punto di non ritorno. Per il momento, con un modesto segnale di apertura, lunedì il presidente catalano Puigdemont ha detto di non volere una separazione “traumatica” dalla Spagna. In precedenza aveva invece fatto appello alla Commissione europea, invitandola a intervenire nella crisi in funzione di mediatrice, dopo che nelle scorse ore essa aveva di fatto declinato di prendere una posizione ufficiale sui gravissimi fatti del fine settimana.