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13-11-17 - n. 650
Rivoluzione d'ottobre: mito e realtà
di Antonio Catalfamo
Intervento al Convegno tenuto a Barcellona P.G. (Me), il 7 novembre 2017, sul centenario della Rivoluzione d'Ottobre, per conto del Centro Studi "Nino Pino Balotta"
07/11/2017
Cent'anni fa si concludeva vittoriosa, con l'assalto al Palazzo d'inverno, la Rivoluzione bolscevica in Russia. Nel momento in cui noi siamo qui riuniti per ricordare questa svolta poderosa nella storia dell'umanità intera, in tutto il mondo migliaia e migliaia di altri uomini e di donne sono riuniti anch'essi, con l'intento non solo di rievocare il fatto in sé, nel suo isolamento all'interno del flusso degli eventi che costituiscono il processo storico, ma anche di dare ad esso una continuità nel presente e nel futuro. Questo sforzo comune, alle varie latitudini del pianeta, dimostra che la Rivoluzione d'Ottobre è tutt'altro che morta.
Si è cercato, nel corso dei decenni, di sminuirne o falsarne il significato e la portata. Si è tentato persino di smitizzare l'assalto al Palazzo d'inverno, così come viene descritto, nella sua suggestività, da Eisenstein, nel suo film Ottobre, e, dopo di lui, da Bondarchuk. Si è detto che, in realtà, a difendere la sede degli zar c'era solo un drappello di cadette dell'accademia militare. Volendo, potremmo anche rinunciare alla suggestività dell'assalto. Il carattere poderoso della Rivoluzione d'Ottobre non consiste solo in quelle immagini cinematografiche. Lo ha chiarito in termini inequivocabili, con acutezza d'analisi, Antonio Gramsci, in un articolo giovanile intitolato La rivoluzione contro il «Capitale», pubblicato su «Il Grido del Popolo» il 5 gennaio 1918. Egli ha evidenziato come il popolo russo, grazie alla sapiente azione di propaganda di Lenin e degli altri capi bolscevichi, non si nutrì di quella visione dogmatica del marxismo che fa dipendere tutto, in termini meccanicistici, dal fattore economico. Il suo pensiero marxista, scrive Gramsci, «pone sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici, bruti, ma l'uomo, ma le società degli uomini, degli uomini che si accostano tra di loro, sviluppano attraverso questi contatti (civiltà) una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici, e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell'economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebollizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace».
La grandezza della Rivoluzione d'Ottobre, nel suo slancio vittorioso, consiste, per l'appunto, in questo moto volontaristico, che coinvolge milioni di persone, che si uniscono, si organizzano e lottano per cambiare il mondo. Mai nulla di simile era successo nella storia dell'umanità. Piero Gobetti ha azzardato addirittura l'ipotesi che la Rivoluzione bolscevica sia stata una rivoluzione «liberale», cioè «liberatrice», in quanto, attraverso lo scontro tra passioni, forze sociali diverse e contrapposte, attraverso, cioè, la lotta di classe, si sprigionano grandi energie vitali, si realizza un moto tellurico, che sospinge in avanti la società, rimasta per secoli immobile, come lo è stato quella russa sotto il dominio degli zar.
Questo enorme sforzo volontaristico ha permesso, poi, la difesa della rivoluzione dai tentativi di ritorno al potere compiuti dalle forze reazionarie interne, con l'appoggio di 14 nazioni capitalistiche, e la costruzione del socialismo in Urss. Tra gli anni Venti e gli anni Trenta del secolo scorso, fu varato nel Paese dei soviet uno dei più grandi programmi di sviluppo dell'agricoltura che si ricordi nella storia umana. Fu avviato un grandioso progetto di reperimento, in tutto il mondo, di milioni di specie di piante, di messa a dimora delle stesse nei vari territori dell'Urss, di sperimentazione della loro adattabilità ai vari ambienti climatici. I risultati furono enormi, nonostante i limiti di ogni operazione pionieristica e sperimentale, specie se su vastissima scala. E' vero, Lysenko era uno studioso "empirico", andò contro le leggi di Mendel, ma, per mezzo di una sperimentazione di massa, che coinvolse milioni di contadini, riuscì a dar vita ad una specie di grano, che, seminato in primavera, maturava in autunno, in anticipo rispetto alle gelate dell'inverno rigido russo, che soleva rovinare il raccolto. Ciò gli permise di sottrarre alla morte per fame le grandi masse contadine e cittadine.
Ma l'Unione Sovietica non voleva rimanere un Paese essenzialmente agricolo. Aspirava a diventare un moderno Paese industriale. Perciò, a partire dal 1928, vennero gettate le basi del primo piano quinquennale, che tendeva proprio a cambiare la struttura interna del Paese, creando le premesse per la costruzione del socialismo, che non sarebbe stata possibile nelle condizioni di arretratezza tecnica ed industriale esistenti sino ad allora.
La giornalista Anna Louise Strong, in alcuni reportages dall'Urss, dà conto del grande slancio con cui fu attuato questo primo piano quinquennale, delle grandi opere che furono realizzate, dei grandi sacrifici umani che furono necessari. Leggiamo in uno di questi reportages: «A migliaia di chilometri verso occidente si stava ultimando sul Dniepr la più grande diga del mondo con le sue centrali elettriche. Nell'estremo nord nasceva aspramente Kuzbas, la città dell'acciaio. A Stalingrado, la più grande fabbrica di trattori del mondo avrebbe cominciato a funzionare a giorni, mentre la più grande officina del mondo per la costruzione di macchinario pesante era in costruzione a Sverdolovsk». Conclude la giornalista: «L'intero paese, da Leningrado a Vladivostok, s'era trasformato in un immenso cantiere». Sottolinea che «in America per realizzare la produzione in serie c'era voluta un'intera generazione», mentre la prima catena di montaggio nell'Urss, quella della fabbrica di trattori di Stalingrado, era stata realizzata nell'ambito di quella mitica impresa del 1931. La Strong rivela un altro particolare: «Dodici anni più tardi, gli uomini della fabbrica trattori di Stalingrado, a bordo dei carri armati usciti dalla loro officina, snidavano i soldati di Hitler dalle rovine della fabbrica».
La giornalista così chiude il suo reportage: «Nel gennaio 1933, Stalin, nel suo rapporto al Comitato centrale comunicò che la retrograda Russia contadina era diventata il secondo paese industriale del mondo. Il primo piano quinquennale era stato portato essenzialmente a termine in un tempo minore del previsto: quattro anni e tre mesi dall'ottobre 1928 al dicembre 1932. Il numero degli operai impiegati nell'industria era passato da 11 a 22 milioni; anche la produzione era raddoppiata».
Senza questo sforzo sovrumano, senza questa industrializzazione massiccia del Paese e il conseguente potenziamento del settore agricolo, non sarebbe stata possibile la resistenza e la vittoria contro le armate nazi-fasciste, nella seconda guerra mondiale, allorquando l'apparato produttivo e bellico fu trasferito al di là degli Urali e rifornì costantemente l'esercito e l'intera popolazione di tutto ciò che necessitava. Il 7 novembre 1941, nell'anniversario della Rivoluzione d'Ottobre, Stalin parlò nella Piazza Rossa alle truppe pronte a partire per difendere Mosca dall'assedio nazista. I cannoni dell'esercito nemico si vedevano dal Cremlino. Stalin comunicò che metà del Paese era stato occupato dagli invasori, ma che esso aveva risorse belliche, alimentari, di ogni altro genere, sufficienti per resistere e contrattaccare. Previde che la Germania, invece, avrebbe potuto reggere allo sforzo bellico non più di un anno. Chiamò l'Armata Rossa, i partigiani, l'intero popolo russo, alla lotta senza quartiere. Gridò «morte ai barbari invasori!», in mezzo a un coro di migliaia di voci che rispondevano «urrà». L'esercito partì fortemente motivato per il fronte. All'ultimo momento arrivarono dalla Siberia le truppe scelte del generale Zhukov, combatterono e vinsero a sessanta gradi sotto zero. Von Paulus, comandante in capo delle truppe tedesche di occupazione, si arrese ai sovietici il 2 febbraio 1943. Immagini di repertorio, ora riproposte pure su Internet, lo raffigurano, assieme ai suoi ufficiali, mentre si presenta, malmesso anche negli abiti militari, ai generali sovietici, per ufficializzare la resa. Gli eventi che cambiarono il corso della seconda guerra mondiale a danno dei nazi-fascisti furono, innanzitutto, le battaglie di Leningrado, di Stalingrado, di Mosca, vinte dall'Armata Rossa e dai partigiani sovietici qualche anno prima del "mitico" sbarco anglo-americano in Normandia, avvenuto il 6 giugno 1944.
La marcia trionfale dell'esercito sovietico fino a Berlino fu inarrestabile. La bandiera dell'Urss, con falce, martello e stella, appesa sul tetto del Reichstag, sancì la vittoria definitiva. L'Unione Sovietica ha dato il più grande tributo di sangue alla seconda guerra mondiale: più di 20 milioni di morti.
Le forze armate dell'Urss hanno esercitato un ruolo decisivo nella distruzione della macchina bellica nazi-fascista. Lo sforzo più massiccio della Germania, lo Stato più possente del blocco fascista, fu diretto contro l'Urss. L'attacco contro questo Paese venne sferrato da un esercito forte di 190 divisioni e quattro battaglioni dell'aviazione militare, vale a dire 5 milioni e mezzo di uomini, di oltre 47.000 cannoni e mortai, 43.000 carri armati e mezzi d'assalto e circa 5.000 aerei da guerra.
Il «secondo fronte» occidentale nacque con notevole ritardo rispetto al fronte orientale, vale a dire quello russo, quando ormai le forze della Germania nazista erano molto logorate. Gli eserciti anglo-americani poterono così contare su una supremazia nettissima nei confronti del nemico. Essi si trovarono di fronte ad un numero di divisioni tedesche variante da 56 a 75, ormai dotate di un grado di combattività di molto attenuato rispetto a quello manifestato sul fronte russo. Una notevole parte delle truppe tedesche preferirono, infatti, darsi prigioniere.
Questo elenco di cifre non è ozioso, perché serve a ristabilire la verità storica, contro il revisionismo dei giorni nostri.
Perché vinse l'esercito sovietico? Mario Rigoni Stern, che partecipò alla campagna di Russia come sergente degli alpini, racconta nel libro autobiografico, Il sergente nella neve, che, durante la battaglia di Nikolajewka, egli, affamato, entrò in un'isba. C'era una famiglia che stava pranzando e, con essa, alcuni soldati dell'Armata Rossa. Nessuno accennò a prendere le armi. Fu consentito all'ospite di sedersi a tavola e di mangiare zuppa di miglio assieme agli altri. Alla fine la padrona di casa lo accompagnò alla porta e gli diede un favo di miele per i suoi compagni. Rigoni Stern commenta questo episodio dicendo che non si trattò del semplice rispetto degli animali verso gli altri animali: quegli uomini, nonostante la guerra, non erano regrediti al livello belluino, avevano conservata intatta la loro umanità. Rigoni Stern capì allora che avrebbero vinto loro, perché superiori non solo dal punto di vista militare, ma anche da quello morale.
Il poeta Pablo Neruda racconta che nel 1949 fu invitato in Urss per un anniversario di Puškin. Migliaia di contadini, in un bosco, ascoltavano la recita di poesie, il grano germogliava, la natura esplodeva in tutta la sua fecondità, la poesia nasceva nel cuore degli uomini. In Urss Neruda incontrò il grande poeta comunista turco Nazim Hikmet, che lì si trovava in esilio e che gli disse che quello era il Paese in cui la poesia è «l'esigenza più indispensabile dell'anima».
Perché l'Urss, questa prodigiosa costruzione umana, unica nella storia, è crollata? Il grande latinista Concetto Marchesi ci invita a riflettere sulla dialettica della vita, sulla compresenza e lo scontro perenne, in essa, tra bene e male. Anche quando il bene prevale, il male non scompare, è sempre lì in agguato, pronto a riemergere e ad affermarsi vittorioso. Luciano Canfora ha evidenziato che la tensione rivoluzionaria dura, al massimo, per due generazioni. Così è stato per la Rivoluzione francese. Lo stesso è accaduto alla Rivoluzione bolscevica. Luca Canali ricorda che, in occasione del XX Congresso del Pcus, nel 1956, in Italia grandi studiosi del mondo classico espressero molte perplessità sul rapporto di Krusciov che denunciava i presunti «crimini» di Stalin. Egli fa i nomi di Concetto Marchesi, il più autorevole studioso della latinità a livello mondiale, Ambrogio Donini, storico delle religioni, Santo Mazzarino, il nostro più illustre storico del mondo classico, Ranuccio Bianchi Bandinelli, archeologo, Roberto Longhi, storico dell'arte. Mazzarino paragonò Stalin a Giustiniano: un grande despota e, nel contempo, un grande costruttore. Marchesi disse che Tiberio ebbe la sfortuna di trovare come storico Tacito, ma Stalin fu ancora più sfortunato, perché ebbe uno storico ancor più modesto, Nikita Krusciov. Secondo Canali, c'è una ragione di queste riserve, legate intimamente alla personalità di coloro che le hanno espresse. Infatti, gli studiosi della classicità sono abituati a camminare nei millenni, sanno che i giudizi storici si possono esprimere a distanza di molti anni, talvolta di secoli. La vittoria di Krusciov rappresentò la rivincita dell'apparato burocratico, che era restio ad accettare il modello di società assolutamente egualitaria creata da Lenin e, sulla sua scia, da Stalin. Rivendicava privilegi per sé e li ottenne. Il germe dell'egoismo lavorò in maniera sotterranea per tanti anni nella Russia sovietica, che resistette a lungo, perché il comunismo aveva disseminato validi anticorpi. Alla fine, però, il male è riemerso, ha ripreso il sopravvento sul bene, e l'Unione Sovietica è crollata. I burocrati si sono impadroniti delle risorse del Paese, che prima gestivano in nome del popolo, e, sfruttandole, nell'ambito di un sistema ormai capitalistico, si sono arricchiti a scapito della società, ridotta in miseria. Tutto questo è ben visibile oggi, nell'era di Putin, come lo era ieri, in quella di Eltsin. Gli storici, in occasione del centenario della Rivoluzione d'Ottobre, elaboreranno analisi molto sofisticate. Ma, a nostro avviso, i principi della dialettica, così bene esposti da Concetto Marchesi, sono più che sufficienti a spiegare il crollo dell'Urss e dei regimi comunisti dell'Est europeo.
Oggi i suoi nemici ci dicono che il comunismo è finito per sempre, che siamo giunti alla «fine della storia», nel senso che il capitalismo si è affermato definitivamente ed è eterno. Ci presentano come nuovo un principio che è vecchissimo. Risale esattamente a prima del 600 a.C. Santo Mazzarino, nel Pensiero storico classico, sostiene che l'idea secondo cui la storiografia greca era volta esclusivamente verso il passato e il presente è un abbaglio del positivismo. Nel 600 a. C., per l'appunto, Epimenide ha «profetato sul passato», ha proiettato verso il futuro il pensiero storico greco, ma lo ha fatto in termini essenzialmente religiosi. Due secoli dopo di lui, Tucidide lo ha fatto, invece, in termini laici, cioè razionali. La dialettica della storia non si può, dunque, fermare, finché ci sono degli uomini che, come scrive Gramsci in una lettera dal carcere al figlio Delio, si riuniscono, soffrono e lottano per cambiare il mondo. Da loro dipende il corso della storia e, quindi, anche la rinascita o meno del comunismo.
Hegel ci ha insegnato che, quando una filosofia si afferma, in un dato momento storico, le altre non scompaiono, scavano sotto terra, come le talpe, per riemergere ad un certo punto. Il grande pensatore tedesco ha aggiunto che il filosofo è come la nottola di Minerva, che si leva in volo al crepuscolo. Egli può esprimere un giudizio sugli avvenimenti storici con il distacco consentito dal passare del tempo.
In questo centesimo anniversario della Rivoluzione d'Ottobre è necessario, allora, rifuggire dai giudizi affrettati, liquidatori, dissacratori. Non lasciarsi ingannare e scoraggiare dalla sconfitta momentaneamente subita dal movimento operaio e comunista a livello internazionale e nazionale. Nel momento in cui noi parliamo, migliaia e migliaia di comunisti, in ogni parte del mondo, dai Paesi dell'ex Jugoslavia, ai Paesi baltici, all'Ungheria, alla Polonia, all'America Latina, ai grandi continenti asiatico e africano, sono imprigionati, torturati, uccisi, perché lottano per il comunismo. A loro va il mio pensiero. Durante la dittatura fascista in Grecia, si diffuse la voce che il grande poeta comunista Ghiannis Ritsos era morto al confino di Samo. Fu mandato un giovane, bussò alla porta e gli apparve la figura di Ritsos in tutta la sua immensità. Quando le sue poesie giunsero clandestinamente in Francia, Louis Aragon, che per primo le lesse e le tradusse, disse che, dopo tanti decenni da quand'era bambino, era scoppiato in lacrime: i suoi occhi prima si erano inariditi, come fiori schiacciati tra le pagine di un libro. Quando queste poesie giunsero in Italia e furono pubblicate, anche noi piangemmo, di dolore, ma anche di gioia, perché apprendemmo che i nostri compagni erano ancora vivi. Nelle isole greche del «non ritorno» (Makronisson, Ghiaros, Leros) erano stati sottoposti a torture immani, fisiche e psicologiche. Un altoparlante, dall'alba al tramonto, ripeteva ossessivamente: «Morti o pazzi, firmerete la dichiarazione di lealtà». Alcuni uscirono davvero pazzi. Venivano liberati nella notte e fatti girare tra le baracche, per intimorire i compagni e convincerli alla resa. Ma nessuno firmò la «dichiarazione di lealtà» alla dittatura fascista e al capitalismo.
Ezio Taddei, amico di Nino Pino, conclude il suo romanzo, Rotaia, con l'immagine di Beppino Colantuoni, il protagonista, prigioniero nelle carceri fasciste. La madre, divenuta quasi cieca per il dolore, va a trovarlo. E' il 7 novembre, l'anniversario della Rivoluzione d'Ottobre. A un certo punto, si sente un canto, dapprima solitario, poi corale, accompagnato dal battito delle gavette sulle sbarre delle celle. Sono i comunisti incarcerati che cantano ritmicamente Bandiera Rossa.
Compagni e compagne, sparsi per le carceri del mondo, io sento in questa stanza il vostro canto, il vostro battito ritmato delle gavette. E ne ricevo conforto e speranza. Finché voi ci sarete, finché noi ci saremo, il sogno del comunismo non sarà finito.