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giovedì 9 novembre 2017
I nostri conti con Lenin
di Aldo Giannuli
Capirete che il 7 novembre ho un tema obbligato: la Rivoluzione Russa. Ed ho scelto di scrivere sul suo principale artefice. In questo quasi trentennio post Urss, Lenin è stato sottoposto ad un’ autentica criminalizzazione, sostenendo che sia stato lui chi ha edificato il totalitarismo sovietico, che Stalin ne ha solo proseguito l’opera e lo si è accusato d’ogni nefandezza.
Certamente, Lenin fece molti errori che hanno spianato la strada alla successiva involuzione totalitaria: nella convinzione di una immediata rivoluzione europea, costruì il sistema di potere sovietico come una dittatura, ma (conviene recuperare le categorie schimittiane) la sua non era la dittatura sovrana che sarebbe emersa dopo, ma una dittatura “commissaria”, cioè un regime straordinario, destinato a cessare in breve, quando la rivoluzione avesse vinto in Europa e non ci fosse stato più bisogno di un regime di quel genere.
Personalmente non apprezzo alcun tipo di dittatura e ritengo che la probabilità del passaggio dalla dittatura commissaria a quella sovrana sia ben più alta della cessazione della dittatura e del passaggio indilore alla democrazia.
Ma questo è ragionare con la logica del poi, di chi ha visto tutta la parabola delle dittature novecentesche: anche il regime portoghese doveva essere temporaneo e poi, con la riforma dell’Estado Novo, divenne una spietata dittatura sovrana. Persino il nazismo, sulla carta, nacque sulla base dell’art 48 della Costituzione che parlava di uno stato di eccezione temporaneo, salvo diventare rapidamente definitivo. La dittatura totalitaria è un fenomeno proprio del Novecento, prima abbiamo avuto esempi molto più brevi o con diverse caratteristiche (si pensi a Robespierre o Cromwell), mentre nell’ottocento ci furono diversi casi di dittature realmente commissarie, spontaneamente cessate dopo l’emergenza (si pensi a Garibaldi o Bolivar).
Dunque, Lenin è parzialmente giustificato (solo parzialmente) da questa mancata conoscenza delle dittature in epoca novecentesca. Un errore, certamente, ma non un crimine in sé, anche se quell’errore portò ad una serie di conseguenze catastrofiche (scioglimento degli altri partiti, subordinazione di sindacati e soviet al partito, scioglimento delle correnti interne, soppressione delle libertà di stampa, di sciopero ecc.), tutte pensate in termini di misure eccezionali e destinate a durar poco. Si pensi alla proibizione delle correnti interne al partito (prima sempre consentite in fase congressuale) decisa nel X congresso (1922): già nel tardo 1923 Lenin proponeva a Trotskji una piattaforma comune per il successivo congresso, segno che pensava al ripristino della dialettica interna che era durata sino al congresso precedente. Dunque, accusare Lenin di aver voluto coscientemente edificare un sistema di potere totalitario non ha fondamento storico.
D’altra parte, la situazione eccezionale era nei fatti, perché le rivoluzioni sono sempre un fatto eccezionale che, piaccia o no, comportano un certo grado di restrizione delle libertà, più o meno esteso, più o meno limitato nel tempo, anche se non c’è dubbio che nel caso russo le scelte furono fuori misura ed ebbero conseguenze perniciose.
Ad esempio, si può anche ammettere che, in una situazione di guerra civile interna e di aggressione esterna, un governo rivoluzionario si doti di una polizia speciale come la Ceka (che poi diverrà la Gpu), mentre resta inammissibile l’uso che poi se ne è fatto.
La verità è che la vera colpa che viene addebitata a Lenin non è la sua presunta volontà totalitaria, ma il fatto stesso di aver promosso e realizzato una rivoluzione,fatto di per sé inammissibile per certi storici, perché, mettendo in discussione il principio di autorità, pongono le premesse di ogni tragedia. Non si tratta altro che della vecchia posizione degli antirivoluzionari dell’ottocento (De Maistre, De Chateaubriand, Tocqueville, Taine, Constant), in tempi più vicini a noi ripresa dallo storico tradizionalista Augustin Cochin (anni cinquanta) poi riabilitato una ventina di anni dopo da François Furet e, soprattutto da Daniel Pipes.
Quello che accomuna i diversi autori di questo filone è il carattere anti egualitario ed anti democratico: il deragliamento della rivoluzione (il derapage secondo l’espressione di Furet) fu in prodotto inevitabile dell’irruzione delle masse nel processo. Irruzione sopportabile sinché essa resta sotto una guida riformista o socialdemocratica e non è un caso che, spesso questi storici più recenti, approvino la rivoluzione di febbraio, mentre condannano quella di ottobre, a proposito della quale ripetono le solite critiche mensceviche (Plechanov in testa) sull’immaturità della rivoluzione socialista in Russia, dove sarebbe stato il turno di una rivoluzione borghese.
E’ quello che dice anche Graziosi nella sua storia dell’Urss, ripetendo piattamente che la maggior colpa dei bolscevichi fu quella di prendere il potere quando non dovevano, giungendo anche ad inventarsi un improbabile riformismo che germinava sin nelle viscere del regime zarista dagli anni novanta del secolo precedente.
Queste critiche a Lenin sono il prodotto di una vulgata storiografica che ha fuso il classico pensiero antirivoluzionario con autori come Carl Schimitt e con la socialdemocrazia più anticomunista (si badi: anticomunista, non antistalinista). Il risultato, al di là del suo impianto discutibile per più versi, è una sorta di negazione della radice rivoluzionaria della modernità e la ricerca di una poco credibile modernità liberale ma non democratica, basata sulla libertà ma non sull’eguaglianza. E con ciò stesso lo scioglimento dell’idea stessa di modernità: questi cantori del capitalismo, che cercando di ridurre la modernità solo ad esso e senza altro residuo, non si accorgono di segare il ramo su cui sono seduti. Quando ci si meraviglia dell’attacco jihadista alla modernità, si dimentica che il processo ad essa è iniziato in casa nostra.
E, dunque, Lenin, pur con i suoi indiscutibili errori, è interno ai processi della modernità, rispetto ai quali i suoi critici si pongono al di fuori. Piaccia o no, è Lenin che ha spinto la Russia verso la modernità, pur con limiti ed errori.
D’altro canto, che lo zarismo avrebbe potuto avviare un processo riformista, sino a trasformare la Russia in un paese a livello della modernità europea, è una ipotesi tanto azzardata da non poter essere sostenuta, ma neppure negata: quando ci si trova di fronte ad ipotesi tanto fantasiose, non ha senso cercarne conferme o smentite. Forse esse potrebbero realizzarsi come qualsiasi altra ipotesi imprevedibile, ma si può discutere seriamente dell’imponderabile? E su che basi?
Di fatto, notiamo che ancora nel 1905, la risposta zarista alla domanda di riforme fu la più bieca repressione. Né sembra che la partecipazione alla guerra abbia posto le premesse per un diverso andamento delle cose. Soprattutto: il governo zarista sarebbe riuscito a trarre il suo paese fuori della guerra? Ci sono storici che rimproverano a Lenin la pace separata di Brest Litowsk, ma a quale prezzo la Russia avrebbe potuto resistere altre sei mesi, in attesa della vittoria degli alleati (di cui, peraltro, nessuno poteva realisticamente esser certo nel marzo di quell’anno)? Di fatto, Lenin ebbe il merito di aver tirato fuori il suo paese dal massacro, anche se questo non rese più facile il compito ad Italiani, Francesi e Inglesi. La vittoria bolscevica fu in buona parte dovuta proprio all’impegno della pace subito.
Quanto all’accusa di aver preparato la successiva involuzione autoritaria con il modello organizzativo del partito, con il suo centralismo ed i suoi “rivoluzionari di professione”, osserviamo che, soprattutto dopo gli anni venti, tutti i partito moderni hanno adottato modelli centralistici con vertice nazionale e ne fa fede la stessa nomenclatura (il capo del partito è il “segretario”, l’organo dirigente è spesso denominato “comitato centrale”, gli attivisti di partito sono spesso designati come “quadri” ecc.) e, tutti si dotarono per tempo di robusti apparati di politici di professione , anche se non rivoluzionari.
Il tempo di Lenin fu quello di Taylor e di Ford e ci sono evidenti analogie fra il suo modello di partito e quello dell’organizzazione del lavoro fordista o di quello militare dai primi del secolo in poi. E tutti i partiti ne risentirono in varia misura, e, anche se quasi tutti mantennero il costume delle correnti, va detto che esse spesso furono partiti nel partito che ne ripetevano verticismi e intollerante disciplina centralistica al loro interno. D’altra parte, i recenti partiti-farfalla a struttura leggera ed –apparentemente- privi di apparato, basati sulla figura del leader condottiero, non sono affatto più democratici del precedenti, neppure quando hanno una torsione spontaneista, perché il peggior burocrate è il burocrate spontaneista che non risponde mai a nessuno del suo operato. Il problema della burocrazia politica nell’epoca contemporanea resta uno dei grandi nodi da sciogliere per realizzare una vera democrazia che metta insieme principio di organizzazione, libertà e partecipazione dal basso.
In ombra resta, invece, il motivo che fa di Lenin un grande classico del pensiero politico al quale hanno attinto molti altri: la concezione della politica come strategia. Intendiamoci: il pensiero strategico applicato alla politica non è di per sé una invenzione di Lenin e premesse ne troviamo in personaggi come Cavour, Bismarck, Gladstone o nello stesso Napoleone I (che, non a caso, era un militare). Ma ciò si è dato il più delle volte in termini di lungimiranza personale del personaggio, senza mai considerare –o considerando assai poco, il nesso politica/economia e senza mai tener presente il ruolo politico delle masse.
Tutto questo è, invece, ben presente in Lenin che fonda scientificamente la sua visione di strategia (anche se poi, occorre andare con piedi di piombo con l’idea di politica scienza che apre la strada a molti terribili equivoci). Per Lenin questo è legato all’idea di rivoluzione e presa del potere che immagina in un quadro insurrezionale, ed è questo il retaggio che è rimasto alla sinistra (e non è un caso che nel 1928, l’Internazionale Comunista editò un manuale dell’insurrezione curato da Radek, Pjatakov e Togliatti), che poi ci aggiunse il modello della guerriglia tanto rurale quanto urbana. E questo schema fu fatto proprio anche dai fascisti, peronisti e regimi castrensi, anche se con la variante della “marcia sulla capitale o del colpo di Stato. Ma questa sessa idea di strategia fu assunta anche da molti altri per nulla orientati in senso rivoluzionario. In qualche modo, fu questa visione a fondare l’indirizzo strategico dello Stato maggiore francese nei tardi cinquanta ed oggi è, di fatto, un pezzo importante della geopolitica.
Ovviamente si può dissentire in tutto o in parte da queste visioni della politica, quello che non si può fare è ignorare questa parabola del pensiero politico e, pertanto, ignorare che Lenin è stato uno dei grandi del secolo scorso e fra i primi. La sua criminalizzazione non dice nulla sul reale giudizio che possiamo avere su Lenin, quanto piuttosto sulla miseria intellettuale dei suoi piccoli detrattori.
Aldo Giannuli
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