Soldatesse del battaglione della morte di guardia al palazzo dinverno nel novembre 1917.

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07 novembre 2017

 

1917, cent’anni di nodi ancora da sciogliere

di Maurizio Zuccari

 

Il 7 novembre 1917 l’assalto al Palazzo d’inverno da il là alla rivoluzione russa. Paradossi e questioni aperte

Cent’anni fa, nella notte appena trascorsa, il mondo conobbe la maggiore e più imperitura rivoluzione di sempre: quella che portò all’instaurazione del comunismo in Russia. Anche se questo, formalmente, sarebbe stato proclamato solo dopo molti anni e un’altra guerra vinta. Non fu, come molte che l’avevano preceduta e l’avrebbero seguita, una notte di sangue. Anzi, soldati e operai nella fredda oscurità novembrina occuparono i punti nevralgici di Pietrogrado sparacchiando appena un po’. All’alba del 7 novembre (25 ottobre, secondo il calendario Giuliano presto abolito dagli insorti) erano di fatto padroni della città. Qualche resistenza in più s’ebbe al Palazzo d’inverno, preso d’assalto in serata, dove s’erano asserragliati i ministri del governo provvisorio – il premier Kerenskij no, se l’era già data a gambe come un Puigdemont qualsiasi – e più d’altri resistettero le volontarie del battaglione della morte sopravvissute all’ultima fallimentare offensiva contro i tedeschi, nell’estate, ma nel complesso fu poca cosa.

Quando, alle dieci, Lenin proclamava la fine del governo e l’inizio d’una nuova era, il palazzo doveva ancora cadere ma l’ora della storia era già suonata. Ancora meno d’un mese prima, persino nel ristrettissimo comitato centrale uscito dal VI congresso del partito bolscevico due dei 10 membri, Kamenev e Zinovev, avevano votato contro la rivolta in armi, considerandola prematura. Ma Lenin, supportato in quell’occasione da Trotsky, aveva avuto ragione nel voler rischiare tutto, imponendo di fatto la rivoluzione ai suoi recalcitranti compagni. Freschi rimpatriati dall’esilio grazie ai traffici dei servizi delle maestà imperiali tedesca e britannica, da emigrati agiati sarebbero divenuti leader d’una rivoluzione che avrebbe esaltato l’uno e rimosso l’altro a vantaggio d’un terzo, Stalin – rimasto in patria ad autofinanziare la rivoluzione con metodi spicci – più mediocre d’entrambi e perciò vincente.

A cent’anni da allora l’impatto emotivo di quei fatti resta enorme e forse per questo il bilancio storiografico è lungi dal chiudersi, nonostante l’immensa mole di materiali disponibili e la fine di quell’esperienza storica – inattesa e sostanzialmente incruenta come la sua nascita – da oltre un venticinquennio. Molti aspetti restano da chiarire, e aperte le questioni di fondo.

Senza l’intervento armato esterno e la guerra civile che fece tre milioni di morti tra i militari e tre volte tanti fra la popolazione – 4 furono i milioni di soldati dello zar deceduti durante la guerra “imperialista”, per dire – la rivoluzione sarebbe stata meno dura? La caratura dei suoi leader più in vista, la loro natura e teoria unita alla prassi, portava in nuce la degenerazione che sarebbe apparsa in tutta evidenza con l’affermarsi dello stalinismo? Insomma, la via della libertà è per forza di cose lastricata di sangue e porta al suo contrario? Su tutti, un nodo resta da sciogliere. Mentre gli eserciti in armi d’Occidente e d’Oriente davano manforte alla controrivoluzione, affamando il paese e tentando di schiacciare i rossi, i bei nomi della finanza internazionale – Morgan, Rothschild, Rockefeller, Crane, Warburg, Schiff – versavano fior di denari per quella rivoluzione che pure avrebbe dovuto terrorizzarli. Un po’ come quei banchieri ebrei che rimpinguavano le tasche del fuhrer.

Di questi paradossi, o bizzarrìe della storia, le vicende umane sono pregne ma archivi ed esegeti restano muti. Resta l’idea, e quella fa fumo quanto basta per coprire di un mitico velo ogni fatto della storia. Resta l’idea di un mondo di uguali, o anche solo diverso e migliore, che quella notte di novembre di cent’anni fa parve reificarsi, un po’ per caso e molto per la ferrea volontà degli uomini (e delle donne) che l’attuarono.

 

 

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