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07 Febbraio 2017

 

Jurij Bondi. L'agitator

di Gian Piero Piretto

 

Cent'anni sono passati dall'ottobre 1917, anniversario dei fatidici giorni che "sconvolsero il mondo" e non soltanto la Russia: la Rivoluzione Socialista d'ottobre. Il suo effetto, tra splendori e miserie, si è protratto per una settantina d'anni nel corso dei quali molteplici testi culturali, a fianco di eventi politici e rivolgimenti sociali, sono stati prodotti. Esamineremo ogni mese un'immagine particolarmente significativa per quel percorso commentandola, analizzandola, sistemandola nel tempo e nel discorso da cui era emersa. Questo sarà il nostro omaggio ai cent'anni di una delle utopie più grandi della terra e, inevitabilmente, al suo crollo. 

 

La prima immagine della serie dedicata alla rivoluzione d’ottobre del 1917, la Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre, per dirla con la retorica sovietica, è un manifesto che appartiene alla categoria dell’agitazione sociale. L’agitator era una figura diversa da quella del propagandist. Propagandare all’epoca significava diffondere, divulgare, portare a conoscenza ed era assente la connotazione negativa di lavaggio del cervello o ossessivo proselitismo. Agitare significava invece coinvolgere, entusiasmare, rendere partecipe, instradare verso la giusta via. Dall’azione congiunta e coordinata delle due attività sarebbe nato il settore detto agit-prop, vero e proprio organo del Comitato Centrale del Partito Comunista preposto alla divulgazione e alla promozione di idee e principi.

Di conseguenza il compito dei manifesti d’agitazione consisteva nel far leva sulle impressioni, sulle reazioni emotive e ideologiche, più che nell’asserire verità o concetti ideali e assoluti, responsabilità specifica della propaganda.

 

Jurij Bondi fu un artista teatrale, scenografo, organizzatore di spettacoli. Collaborò a svariate messe in scena di Mejerchol’d e dal 1920 iniziò la collaborazione con la sezione di Kostroma dell’agenzia telegrafica Rosta, quella che sarebbe passata alla storia per le sue ben note “finestre” (Okna Rosta), tabelloni illustrati (vicini all’idea di strisce a fumetti), inizialmente esposti nelle vetrine dei negozi tragicamente vuote durante gli anni della guerra civile, che affrontavano in chiave anche satirica problemi correnti socio-politico-ideologici. 

Il suo lavoro che oggi prendo in considerazione risale proprio al 1920 e affronta una tematica di pressante attualità all’epoca: la collaborazione e l’intesa tra operai e contadini, metafora di una problematica più ampia e scottante che da quell’anno si sarebbe sviluppata fino ai primi anni Trenta non senza contrasti anche violenti, i rapporti intercorrenti tra città e campagna. In russo tanto rilevante da avere un nome proprio, smy?ka.

Per il manifesto qui analizzato fondamentale era trasmettere un segnale coinvolgente e potente, utopistico ma concreto: la stretta di mano tra le due figure era la base su cui edificare una collaborazione, un’intesa, un progetto che staccandosi dalla tragica condizione della guerra civile ancora in atto portasse verso quel “mondo nuovo e nostro” di cui si cantava nell’Internazionale, nel quale “chi era stato niente sarebbe diventato tutto”. 

 

I convenzionali tipi di operaio e contadino andavano confluendo nel concetto innovativo di proletario, ma all’epoca ancora dovevano mantenere tratti iconograficamente riconoscibili viste le scarse istruzione e preparazione dei nuovi fruitori della cultura. Se non mancavano illustratori e pittori che investivano nelle soluzioni della più pura avanguardia, affidando a sintetici tratti simbolici la responsabilità di rappresentare e rendere identificabile un certo tipo sociale, nella maggior parte dei manifesti l’operaio aveva ancora connotazioni che si rifacevano alla tradizione folcloristica. L’operaio era stato fabbro per antonomasia, con tanto di grembiule di pelle e martello levato in aria pronto a colpire l’incudine, a forgiare e plasmare, concetti a cui non sarebbe stata indifferente neppure l’iconografia rivoluzionaria. Qui ci troviamo di fronte a una figura abbastanza stilizzata e per nulla banale; il protagonista è giovane, forte, possente, con il rosso delle gote che dialoga con l’iperbolico nero delle braccia, simbolo di inusitate operosità e dinamismo, in netta opposizione con gli stereotipi che avevano caratterizzato l’indolenza e l’arretratezza della Russia pre-sovietica e della sua cultura. Il contadino, per contro, è più anziano e veste alla vecchia maniera: camicia kosovorotka (tradizionale russa con allacciatura laterale), legata ai fianchi da una cintura, lapti (sandali di fibre di tiglio o betulla intrecciate) e barba lunga.

 

Caratteristiche che il futuro colcosiano politicamente corretto avrebbe disdegnato ma che all’epoca stavano per la posizione ancora arretrata della campagna, per la mentalità sorpassata degli agricoltori. Questo contadino in particolare, nonostante le apparenze, stringe però vigorosamente la mano al suo compagno manovale, ha la barba simbolicamente rossa e il suo sguardo è tutt’altro che sottomesso e intimidito. Il bastone che regge la sua falce si rapporta simbolicamente con l’arnese che l’altro impugna nella mano sinistra e promette azione e responsabilità. I colori sono pochi, mancavano i fondi per abbondare in cromatismi, ma sapientemente accostati e gestiti per ottenere contrasti e far risaltare figure e gesti. In primo piano, come se venisse proiettato all’esterno dello spazio scenico, il trittico di simboli sovietici: stella rossa, falce e martello. Anche in questo caso non convenzionali, la falce in particolare con la sua seghettatura che rimanda al primitivismo e al cubo futurismo e trova riscontro nelle sagome geometriche di ciò che si potrebbe interpretare come uno stilizzato paesaggio tra i piedi del contadino. 

A tutto questo fa da riscontro la scritta, lo slogan, il concetto semplice ed emotivamente fondamentale che riprendesse teorizzazioni complesse, traducesse concetti astrusi ma politicamente irrinunciabili in un linguaggio più comprensibile e condivisibile, ma senza rinunciare alla profondità del messaggio.

 

I caratteri tipografici sono volutamente caotici, caratteristica del periodo che sarebbe progressivamente venuta meno con il passaggio alla cultura staliniana, di non facile decifrazione, realizzati con tratti che combinano linee sottili e massicce a comporre il pensiero che avrebbe dovuto convincere e appassionare i fruitori: “Ci credo, celebreremo il centesimo anniversario”. Unica proiezione temporale di un testo artistico che si connota come immanente e fermo nella sua monumentalità. Non trascurabile è l’incipit: “Ja verju” (io credo), non già “v Boga, Otca vsemoguš?ego” (in Dio, Padre onnipotente), ma nel futuro della rivoluzione, nella sua bontà.

 

Di chi è stata la colpa se questo auspicio è andato in frantumi? Senza pretendere di dare risposte inequivocabili cercheremo, nelle analisi dei testi iconografici successivi, di identificare strategie e meccanismi che abbiano trasformato, nell’ambito della cultura visuale, l’utopia iniziale in altro, ribaltandola, mistificandola, facendola performare nel percorso che per circa settant’anni si è chiamato rivoluzione d’ottobre. 

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