Centro Studi Sereno Regis
19 luglio 2011

Quando il vento della libertà soffia sulla Siria
di Jean-Marie Muller
Jean-Marie Muller è il portavoce del Mouvement pour une Alternative non-violente
(MAN: www.nonviolence.fr).
Traduzione di Enrico Peyretti

Ognuna delle «rivoluzioni arabe» ha la sua specificità. La rivoluzione siriana, cominciata il 20 marzo 2011, si allarga ogni giorno e mobilita sempre più Siriani che vogliono la caduta del regime per esercitare il loro potere di cittadini. È difficile rendere conto dei molti eventi che hanno segnato la storia di questi ultimi mesi tanto sono frammentarie le informazioni che ci arrivano. Tuttavia, grazie alle testimonianze raccolte dalle organizzazioni per i diritti umani e dalle agenzie di stampa, è possibile punteggiare gli aspetti rilevanti che indicano la specificità di questa rivoluzione.

«Sebbene la repressione sia costata la vita, da marzo, a 1.400 civili, centinaia di migliaia di manifestanti sono scesi nelle strade di molte città della Siria in occasione di una nuova giornata di manifestazione. Una trentina di manifestanti sono stati uccisi dalle forze di sicurezza». Così le agenzie di stampa hanno riferito sulla giornata del 16 luglio. Quel giorno la Siria è stata il teatro delle più importanti manifestazioni dall’inizio del sollevamento contro il regime dittatoriale del partito Bass che, secondo la Costituzione del 1963, è «il dirigente dello Stato e della società». «È una sfida alle autorità, specialmente guardando alla forte affluenza registrata per la prima volta a Damasco», ha dichiarato Rabi Abdel-Rahmane, direttore della ONG Osservatorio siriano dei diritti umani.

Ecco l’avvenimento maggiore della «rivoluzione siriana»: centinaia di migliaia di Siriani disarmati scendono ogni venerdì nelle strade sapendo che rischiano di essere uccisi dalle pallottole delle forze di sicurezza. Ecco il fatto straordinario: malgrado il pericolo estremo, centinaia di migliaia di Siriani sfidano il regime totalitario che li opprime da decenni affrontando deliberatamente la morte per difendere la loro dignità e libertà. Non è che non abbiano paura – ognuno di noi sa per esperienza che, davanti al pericolo, la paura resta sempre accovacciata nel profondo – ma hanno deciso di non cedere più alla loro paura. Ecco precisamente ciò che costituisce la loro magnifica audacia: malgrado la loro paura e con la loro paura, sfidano la morte. Senza aver bisogno per questo di qualche ideologia, hanno scelto di non sottomettersi più alle costrizioni che la dittatura imponeva loro. Hanno deciso di infischiarsi della loro paura e di esercitare sulla piazza i loro diritti di cittadini e cittadine. Questi uomini e queste donne hanno il formidabile coraggio di preferire la morte alla servitù.

L’analisi che ci propone lo scrittore Faez Sara, membro dell’opposizione, carcerato dal 2007 al 2010, poi dal 10 aprile al 12 maggio 2011, è particolarmente chiarificatrice (L’Humanité, 18 luglio 2011). «Ciò che è straordinario non è solo il fatto che delle persone scendano in strada. È soprattutto la capacità di proseguire malgrado gli arresti, malgrado il sangue che corre. Io sono stato arrestato con dei manifestanti. Molti ritornavano in prigione. Se alzavano gli abiti si vedevano i segni dei colpi, della tortura. Ma come uscivano di prigione tornavano a manifestare. C’è una specificità siriana in questa rivolta. C’è una grandissima consapevolezza nei Siriani. Si sono viste persone poco istruite, che venivano da zone rurali, dare prova di grande maturità politica rifiutando la violenza. La loro richiesta centrale è precisamente libertà e dignità. Hanno esigenze che riguardano la dignità e i valori umani. Si sono avvicinati a grandi ideali nazionali. Ciò è eccezionale, soprattutto in un paese multiconfessionale, mentre si poteva temere una scivolata e lo scatenamento di un conflitto interreligioso». Si sente da queste parole il coraggio ammirevole – non è esagerato dire che confina con l’eroismo – testimoniato ogni giorno da queste donne e questi uomini che accettano su di sé i più grandi rischi per rivendicare la loro dignità e libertà di fronte alla tirannia.

Secondo molte agenzie di stampa, tra cui la AFP, il 18 aprile a Homs, città del centro della Siria, circa 20.000 persone si radunano sulla piazza di Al-Saa (dell’Orologio), ribattezzata piazza Al-Tahir, dal nome della piazza del Cairo epicentro del movimento di contestazione in Egitto, e organizzano un gigantesco sit-in. I manifestanti scandiscono «libertà, libertà». Alzano delle tende, preparano del cibo e annunciano che il sit-in proseguirà fino alla caduta del regime di Bachar al-Assad. Ma, nella notte, le forze di sicurezza intervengono e disperdono la folla pacifica con ripetuti tiri. Non si conosce esattamente il numero dei feriti e dei morti.

Il 25 aprile l’esercito assedia la città di Deraa, culla della rivolta. La città manca di acqua, elettricità, viveri e medicine. Poi la città è invasa: i militari e le forze di sicurezza, appoggiati da carri armati e blindati, vanno da un quartiere all’altro, entrano nelle case e arrestano ogni volta una o due persone. Dei cecchini appostati sui tetti tirano su ogni persona che si azzarda nelle strade. Il 30 aprile l’esercito si impadronisce della moschea Omari, occupata da degli abitanti e uccide molti di loro, tra cui l’imam. «Deraa è una zona militare, la situazione locale è tragica, ma il nostro morale è alto», ha dichiarato Abdallah Abazid, militante dei diritti umani nella città. «Nonostante questo terrore inimmaginabile – scrive la ONG americana Avaaz – i Siriani rifiutano di essere ridotti al silenzio e si sono impegnati su una via nonviolenta per uscire da questo incubo».

Il primo giugno, Human Rights Watch (HRW) parla di «crimini contro l’umanità commessi nella regione di Deraa». Dei testimoni descrivono «uccisioni sistematiche, percosse, imprigionamenti e torture con l’elettrochoc». «Le autorità siriane hanno accusato sistematicamente i manifestanti di Deraa di essere responsabili di violenza e di attaccare le forze di sicurezza. Ma tutte le testimonianze raccolte da HRW indicano che i manifestanti erano, nella gran parte dei casi, pacifici» (L’Orient le Jour, giorrnale di Beyrouth, 2 giugno 2011).

L’esercito non esita a sparare sugli abitanti dei villaggi attorno a Deraa, venuti a tentare, a rischio della vita, di far finire l’assedio della città portando cibo e acqua. Si conteranno decine di morti. L’espressione tante volte sprecata prende ora tutto il suo significato: «No sono morti per niente».

Sabato 30 aprile gli abitanti di Deraa scendono di nuovo nelle strade per i funerali dei manifestanti uccisi la vigilia. Il 3 giugno sessanta persone sono uccise e l’indomani, secondo un comunicato di M. Abdel-Rahmane, «gli abitanti hanno fatto uno sciopero generale in segno di lutto». Tutti i negozi furono chiusi. (L’Orient le Jour, 6 giugno 2011).

Il mattino del 5 giugno, l’esercito comincia a ritirarsi dalla città martire. «Abbiamo iniziato la nostra partenza dopo aver compiuto la nostra missione – ha affermato il generale Haddad, direttore del dipartimento politico dell’esercito – L’esercito si sarà completamente ritirato da Deraa entro la fine della giornata. Noi non abbiamo affrontato i manifestanti, noi perseguiamo delle bande terroristiche nascoste in molti luoghi». A ciascuno le sue menzogne.

Secondo L’0rient le Jour (7 giugno 2011), dei militanti siriani di Nocisia hanno parlato di un ammutinamento delle forze di sicurezza della città. Uno di questi militanti precisa che il 5 giugno sono stati uditi degli spari all’interno del loro quartiere generale: «Io penso – dice – che siano stati giustiziati dei poliziotti che si sono rifiutati di sparare sui manifestanti». In altre città, molti testimoni riferiscono di militari giustiziati dalle forze di sicurezza. Béchir racconta di avere visto coi propri occhi dei corpi con una pallottola nella nuca. «Non volevano obbedire agli ordini, che erano di sparare sulla folla. Dopo averli uccisi li hanno gettati in fosse comuni. Non avevo mai visto una cosa simile». Karim conferma questa versione. «Anch’io ho visto il corpo di un soldato ucciso da una pallottola nella nuca. I militari arrivano generalmente per primi in un villaggio, seguiti dai mukhabarat, che li sorvegliano. Quelli che disobbediscono sono uccisi». Un blogger dice di avere raccolto la testimonianza di un padre di famiglia di Hama: «Mio figlio mi ha telefonato da Deraa e mi ha detto che era stato ordinato ai soldati di uccidere dei civili. Gli ho detto che preferivo rivederlo morto piuttosto che assassino. Mio figlio è arrivato due giorni dopo in una bara. Ho rifiutato i funerali militari e l’ho sepolto privatamente». Chi troverà le parole per dire la saggezza di questo padre che ha preferito vedere il figlio ucciso piuttosto che uccisore? Senza dubbio il popolo siriano conserverà memoria di questi veri martiri, che onorano la nostra comune umanità. Non abbiamo dubbi: questi uomini sono morti per l’onore dell’Uomo.

Ma bisogna anche pensare a tutti quei soldati sunniti che non hanno disobbedito, a questi giovani coscritti a volte di soli 17 anni che hanno ucciso i loro fratelli e che per tutta la vita si sentiranno morti per avere dato la morte. (L’esercito è costituito principalmente da soldati sunniti, mentre gli alti ufficiali appartengono alla minoranza alawita, come il presidente Assad e tutti i dignitari del regime. La grande maggioranza dei manifestanti è sunnita).

Il 4 giugno 2011 ho incontrato a Beirut lo sceicco Jawdat Saïd1, che avevo conosciuto a Damasco nel 2008. Egli è uno dei maggiori pensatori musulmani che si è sforzato di introdurre la nozione di nonviolenza nel mondo islamico. Da molti anni egli lavora per la democrazia ed è totalmente impegnato nella rivoluzione siriana. Secondo lui la questione confessionale è marginale e l’80% della popolazione si riconosce nel chiedere la libertà senza essere tentata dalla violenza. Jawdat Saïd è andato nella moschea di Deraa per esprimere la sua solidarietà ai parenti degli uccisi. Insiste presso di loro perché siano fermi nel seguire la via della nonviolenza. Cita ad essi quel versetto del Corano (5,28) che fa dire al «primo figlio di Adamo» in risposta a suo fratello che ha minacciato di ucciderlo: «Se tu alzi la mano su di me per uccidermi, io non alzerò la mano su di te per ucciderti, perché temo Dio, il Signore dei mondi». Questo versetto sarà scritto su uno striscione appeso nella moschea.

Jawdat Saïd ha fatto lo stesso in altre città, ma specialmente a Deraa. Qui sono stati restituiti ai genitori i cadaveri dei loro figli obbligandoli a firmare una carta attestante che erano morti in un incidente automobilistico. Hanno firmato, ma tutti sanno la verità. Jawdat Saïd è andato a Deraa per presentare le sue condoglianze alle famiglie, che l’hanno accolto come l’uomo della nonviolenza. Mi confida che, ogni volta che parte, non sa se potrà tornare.

Un emissario di Bachar al-Assad ha contattato Jawdat Saïd per proporgli di dialogare con lui. Gli ha risposto che non era disposto a negoziare, ma che era disposto ad andare in prigione. Egli non pensa che il presidente siriano possa restare al potere. Non si negozia la democrazia con un dittatore che uccide il suo popolo. Egli ha fiducia nell’avvenire e pensa che la democrazia finirà per prevalere e si dice pronto a morire per la libertà.

Il 6 giugno sei organizzazioni per i diritti umani denunciano «il ricorso eccessivo alla forza per disperdere le riunioni pacifiche di cittadini senza armi» e «domandano al governo di fermare la spirale di violenza e di assassinii nelle strade siriane». Esigono «una commissione d’inchiesta indipendente e trasparente per scoprire i responsabili della violenza» (L’Orient le Jour, 7 giugno 2011).

Il 14 luglio le forze di sicurezza hanno sparato su dei manifestanti a Deir Ezzor. Due civili sono stati uccisi. Gli abitanti hanno fatto uno sciopero generale e hanno chiamato tutte le città siriane a fare lo stesso.

Il 16 luglio si è tenuta a Istanbul una conferenza detta di «salvezza nazionale», mirante a unificare l’opposizione democratica. Uno degli esponenti di questa opposizione, Wael al Hafez, ha dichiarato: «Intendiamo intensificare le manifestazioni pacifiche dandoci ad atti di disobbedienza civile, ma anche unificando economicamente il paese, paralizzandolo, ma causando il minimo di danni» (Reuters).

Tuttavia sarebbe troppo pretendere che la rivoluzione siriana si svolga in modo strettamente conforme ai principi dell’azione nonviolenta. La realtà è molto più complessa e io eviterei di parlare di «rivoluzione nonviolenta», anche se la sua dimensione non violenta (due parole staccate), o a-violenta, è essenziale. Senza dubbio, alcuni atti di violenza sono stati commessi senza che si possa misurarne né l’importanza né la portata. Degli edifici pubblici sono stati saccheggiati e, se i manifestanti sono disarmati, non sembrano esserci molti dubbi che certi insorti hanno usato delle armi per tentare di difendere i loro villaggi accerchiati dall’esercito. Non c’è da meravigliarsi. Però, ogni atto di violenza rischia molto di essere controproducente, di indebolire la resistenza più che rafforzarla. L’analisi di Saul Alinski si applica perfettamente alla situazione siriana: «È politicamente insensato dire che il potere sta sulla canna dei fucili quando sono gli avversari che possiedono tutti i fucili». Il ricorso alla violenza non potrebbe che ritorcersi contro i rivoltosi, che dovrebbero subire un supplemento di repressione.

Gli insorti devono ricordarsi di ciò che Étienne de La Boétie scriveva nel 1549 nel suo testo Tirannia, servitù volontaria: «I tiranni non sono grandi se non perché noi siamo inginocchiati. Tanti uomini, tanti villaggi, tante città, tante nazioni sopportano talvolta un solo tiranno, che non ha altra potenza che quella che essi gli danno. Siate decisi a non servire più, ed eccovi liberi. Non vi chiedo di scacciarlo, di scrollarlo, ma solo di non sostenerlo più, e lo vedrete, come un colosso di cui si sia sbriciolata la base, crollare sotto il suo peso e rompersi».

Certo, la decostruzione della dittatura non è condizione sufficiente per la costruzione della democrazia. Ma è una condizione previa. Toccherà ai Siriani ricostruire ciò che il regime, organizzando una repressione terribilmente brutale, ha distrutto. Le ferite subite avranno bisogno di molto tempo per cicatrizzare. Gli ostacoli da superare saranno molti. Bisognerà dare tempo al tempo.

Una delle sfide maggiori a cui dovranno far fronte il nuovo potere e i nuovi cittadini siriani sarà costruire una unità nazionale che rispetti i diritti di ogni minoranza, e in modo tutto particolare dei cristiani (che sono due milioni, il 12% della popolazione). In grande maggioranza, essi si sono adattati al regime occupato dalla minoranza alawita, nel timore di subire il potere della maggioranza sunnita. La stessa famiglia Assad ha sfruttato questa situazione, vantandosi come garanti della sicurezza dei cristiani, calcolando di averne vantaggi presso gli Occidentali. Per questo i cristiani si sono generalmente tenuti fuori dal movimento di rivolta, per timore di perdere i vantaggi acquisiti. Il 26 aprile, monsignor Giuseppe Nazzaro, vicario apostolico di Aleppo, ha dichiarato di temere «la destabilizzazione della Siria», che potrebbe «compromettere i rapporti tra le comunità religiose interne e mettere in pericolo i due milioni di cristiani che vivono nel paese». E ha auspicato che si lasci del tempo a Assad per correggere gli errori del regime. Certo, ma qui s’impone una domanda: la sicurezza dei cristiani non è pagata troppo cara se il prezzo è la dittatura? Mettere fine alla dittatura necessariamente «destabilizza» l’ordine che essa ha imposto all’intera società. L’unica riforma possibile di una dittatura è la sua scomparsa.

Tuttavia, il rispetto scrupoloso dei diritti di ogni minoranza religiosa – dunque della minoranza cristiana – sarà il test della determinazione del nuovo regime a stabilire un ordine giusto per tutti. Per questo, esso dovrà onorare i valori universali della democrazia, che sono gli stessi della civiltà. Non ci nascondiamo che la sfida è gigantesca. Facciamo notare che, nella riunione del 16 luglio a Istanbul, gli oppositori hanno trovato le parole giuste nel testo adottato, in cui fanno appello «all’unità nazionale, all’unità degli oppositori» e insistono sulla necessità di «un governo democratico e pluralista a cui tutti i Siriani possano partecipare come cittadini responsabili». Rimane il fatto che dall’intenzione alla realtà c’è una distanza.

I ribelli di Siria hanno già ottenuto che il regime riprenda per conto suo il loro linguaggio. Farouk Al Chareh, il vice presidente, ha dichiarato il 15 luglio: «Senza un sistema politico multipartitico democratico, la nostra società non arriverà alla libertà e alla pace civile». Certo, sono parole, ma queste parole hanno un senso e danno ragione agli insorti. Però, è inimmaginabile che il regime possa esso stesso avviare un processo che porti alla democrazia. Il Presidente e i suoi affiliati dovranno rispondere delle loro azioni davanti alla Corte penale internazionale, dove dovranno essere giudicati per crimini contro l’umanità.

Bisogna dire che il regime di Bachar al-Assad ha ormai perduto ogni legittimità? In realtà, non l’ha mai avuta. Ciò che oggi è decisivo è che il popolo siriano è venuto sulla pubblica piazza a proclamare alto e forte che esso solo è il depositario della sovranità nazionale e che su questo non si lascerà ingannare. Nessuno può predire oggi quale sarà l’esito di questo movimento di rivolta e quando arriverà, ma il vento di libertà è soffiato sulla Siria e nessun tiranno potrà più ridurre il popolo in servitù.

La responsabilità della comunità internazionale è particolarmente grave nella situazione prevalsa fino a oggi nei paesi arabi. Per decenni gli Stati occidentali sono stati largamente complici delle dittature, di cui non potevano non sapere che negavano con determinazione i diritti dell’uomo e del cittadino. Con pusillanimità preferivano conservare un certo ordine che pensavano avrebbe preservato meglio i loro interessi. Questo tempo è finito, e non per opera loro. Gli occidentali pensavano pure che quei regimi erano il migliore bastione contro la minaccia dell’islamismo radicale. Ma è ingannarsi totalmente credere che la deriva islamista possa combattersi con la dittatura. Nicolas Sarkozy, creando nel 2008 l’Unione del Mediterraneo, aveva manifestamente scelto di essere complice delle dittature piuttosto che solidale coi popoli. Ci ricordiamo che quell’anno Hosni Mubarak e Bachar al-Assad troneggiavano con lui sulla tribuna ufficiale della parata militare del 14 luglio.

Gli Stati occidentali fino a oggi hanno dato prova di grande avarizia nell’esprimere solidarietà al popolo siriano. Gli Stati sanno molto bene fare la guerra e sono attrezzati per questo, ma non hanno imparato a fare la pace, tanto è vero che «è più facile realizzare la guerra che la pace» (Bernanos). Del resto, non può essere questione di un nuovo intervento militare, che gli oppositori non chiedono affatto. Con urgenza si impongono interventi diplomatici forti. Sfortunatamente, la comunità internazionale non sembra pronta. Il 16 luglio Hillary Clinton, la Segretaria di Stato americana, ha detto di sperare in «una cooperazione pacifica col governo in vista di un avvenire migliore». Come può osare di parlare di «cooperazione pacifica» mentre i cittadini siriani sono uccisi nelle strade? Le sanzioni finanziarie ed economiche sono necessarie, ma non basterebbero a cambiare il corso delle cose sul terreno. Perché è sul terreno che si gioca l’avvenire del movimento.

S’impone l’ingerenza politica. È urgente ripensare l’azione della comunità internazionale in materia di prevenzione e gestione dei conflitti, e sperimentare i metodi di intervento civile nonviolento aprendo uno spazio politico in cui possano esprimersi le iniziative di pace delle società civili. Questo tipo di intervento certo non è possibile nell’immediato, ma potrebbe rivelarsi decisivo in Siria dopo la caduta del regime.

Tocca ormai ai cittadini che siamo noi esercitare una vigilanza che pure è stata colta in fallo. Abbiamo uno stretto dovere di solidarietà verso queste donne e questi uomini che hanno assunto e assumono tuttora dei rischi che noi non assumiamo. Non possiamo accontentarci di ammirarli e applaudirli. Dobbiamo esigere dai nostri governi che definiscano una politica all’altezza della sfida che i popoli arabi hanno lanciato al mondo intero. Ciò esige da noi che abbiamo l’audacia di reinventare le nostre democrazie.

 

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