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Parte I LE RAGIONI DELLA RICERCA ED I PROCESSI CONOSCITIVICapitolo 1 A COSA SERVE LA RICERCA? La riflessione sulla società, su come è costruita e come funziona, è "antica come le montagne", si potrebbe dire parafrasando una frase di Gandhi. Se si pensa, ad esempio alla "Repubblica" di Platone troviamo in essa tutti gli elementi di una teoria sociale compiuta. Le scienze sociali nascono però quando si è voluto mettere alla prova questo tipo di riflessione attraverso la ricerca, cercando cioè di dimostrare, o meno, la validità delle asserzioni che componevano una teoria del genere. E questo non solo attraverso la coerenza "logica" di una costruzione del genere, ma ricercando prove "empiriche" su di essa. E' quindi la ricerca il fulcro principale delle scienze sociali. Ma quali le funzioni principali della ricerca? O, in termini più correnti, a cosa serve? Personalmente ritengo che le funzioni principali siano: 1) La ricerca per conoscere; 2) La ricerca per formare; 3) La ricerca per decidere. 4) la ricerca valutativa 5) la ricerca-intervento per la pace Esaminiamo, una per una, queste funzioni. 1) La ricerca per conoscere Spesso si ritiene inutile ricercare per conoscere. Si è convinti che un pò di buon senso, un pò di intuito, permettano di capire i problemi senza bisogno di perdere troppo tempo a verificare la validità o meno di quanto si ritiene vero. Ma questa conoscenza intuitiva spesso si rivela fallace ed ha portato, e porta, a prendere decisioni controproducenti rispetto a quanto si desiderava ottenere. Boudon, un sociologo-metodologo francese, di cui avremo occasione di parlare anche in seguito, cita il caso dell'integrazione di immigrati polacchi nella società francese. A "lume di naso", come si dice volgarmente, e cioè in base al buon senso, si era ritenuto che più gli immigrati erano attaccati alle tradizioni culturali polacche, meno essi erano integrati nella società francese. E cioè che ci fosse un contrasto tra l'integrazione con il gruppo di origine e quella con la società ospitante. La ricerca ha dimostrato esattamente il contrario, e cioè che gli immigrati più legati alle proprie tradizioni ed al proprio gruppo di origine erano anche quelli che erano riusciti ad integrarsi meglio nella società francese (Boudon, 1984). Boudon lega questo fatto alla funzione di appoggio che la famiglia, gli amici, il vicinato in genere, ha nei riguardi dell'integrazione sociale nella società ospitante. Quando questo appoggio non c'è, perchè la famiglia ed il gruppo sono disgregati, l'immigrato si trova a dover affrontare da solo i grossi problemi di adattamento ad una cultura ed una società diversa da quella da cui proviene, e questo lo mette in situazioni di stress che spesso lo portano ad agire aggressivamente, o verso sè stesso o verso gli altri. Eppure la politica verso gli immigrati portata avanti per moltissimi anni, ed in alcuni paesi tuttora, sia in Francia che in Italia ed Israele, è stata basata su quella conoscenza di "buon senso" di cui si è parlato prima. Si è creduto che per integrarli meglio si dovessero disperdere, evitando assolutamente la creazione di quelle "isole etniche" che invece gli immigrati, spontaneamente, tendevano a creare. Così nei quartieri di case popolari in molte città d’Italia si è cercato di integrare gli immigrati dalle varie zone del mezzogiorno, con gli autoctoni, mescolandoli nel quartiere, ed una politica simile è stata portata avanti anche in Israele. Ma i risultati di tale politica sono stati disastrosi. Delinquenza minorile, malattie mentali, conflittualità perenne, ecc., sono stati i risultati ottenuti, e non l'integrazione ricercata. Questo ha portato alcuni studiosi israeliani, preoccupati dall'enorme aumento di malattie mentali soprattutto tra gli immigrati ebrei dal terzo mondo, con più basso livello culturale e minori capacità di adattamento dei primi immigrati dai paesi ricchi, ad approfondire il fenomeno ed a proporre come soluzione una organizzazione urbanistica completamente diversa. Accettare cioè la creazione di isole etniche di primo livello, lavorando però affinchè queste non fossero isolate l'una dall'altra, ma avessero scambi reciproci frequenti e momenti comuni, attraverso cooperative, supermarkets, scuole a livello più elevato. Questo avrebbe evitato lo shock dell'immigrato, ma avrebbe permesso di equilibrare l'integrazione con il proprio gruppo etnico con quella verso la società più larga. Ma quest'ultima forma di integrazione si cercava di acquisire, non di colpo o forzosamente, ma attraverso un processo graduale di collaborazione reciproca per funzioni importanti di interesse comune (Weimberg, 1961). Non so se una politica del genere sia stata realmente implementata. E' certo però che essa è in accordo con tutte le ricerche svolte in questo campo e questo mi sembra dimostrare egregiamente i limiti della conoscenza di "buon senso", ed i rischi che possono derivare dal prendere decisioni senza una necessaria conoscenza di base sul problema. 2) La ricerca per formare Una seconda funzione della ricerca è quella della formazione ed educazione. In un convegno internazionale sull’educazione alla pace tenuto alcuni anni fa a Bologna (Catti, 1988) emerse l’importanza di utilizzare le “domande legittime”, che sono quelle cui gli insegnanti non sanno ancora rispondere, e per le quali si cerca una risposta lavorando insieme agli allievi stessi. Queste infatti stimolano nell’allievo la capacità critica, l’innovazione e la creatività, tutte doti fondamentali per lavorare per la pace. Il convegno mise in luce, invece, che sia nel nostro che negli altri paesi europei rappresentati, l’insegnamento tradizionale era fatto con le “domande illegittime”, quelle di cui gli insegnanti conoscono già le risposte. E queste tendono invece a stimolare negli allievi il nozionismo, la passività e l’incapacità critica, che servono molto poco alla costruzione della pace, ma che, al contrario, sono molto valide per i governanti per manovrare i propri sudditi, anche portandoli in guerre spesso assurde e crudeli. Il relatore italiano che ha fatto presente questa distinzione, prendendola dagli studi di Von Foster, uno dei grandi studiosi della scienza informatica, concludeva che la nostra scuola, quella italiana, si basa sulle domande illegittime, e che una valida educazione alla pace richiedeva invece un insegnamento basato su quelle legittime. Dal convegno emerse inoltre l’importanza dell’utilizzo, nell’insegnamento alla pace, di quella che è state definita la “ricerca con”, ed anche la “ricerca per l’azione”, di cui parleremo in seguito. E le molte esperienze di educazione alternativa che si sono tenute in Italia (si pensi alla scuola di Pietralata, Bernardini, 1972, ai lavori di M. Lodi, 1970, ed al testo di De Bartolomeis, 1972) si sono basate tutte sull'inserimento della ricerca nel processo educativo. Invece di insegnare excatedra si impostava un problema, e si cercavano verifiche empiriche, andando, insieme, maestri ed allievi, a conoscere la realtà esterna, intervistando gli anziani, o gli artigiani della zona, e così via, a seconda dei problemi che si volevano mettere a fuoco. Questo modello educativo è servito: a) a riequilibrare il rapporto tra docenti ed allievi (su molti problemi l'allievo è più esperto del suo insegnante che magari proviene da una realtà esterna a quella in cui insegna); b) ad aprire la scuola verso il mondo esterno (evitando il grosso rischio di una "chiusura" che faccia sembrare quello che si impara a scuola come "inutile", "astratto", del tutto staccato dalla realtà in cui si vive); c) ad aprire la scuola verso problematiche contemporanee (ad esempio, la disoccupazione, la miseria, le condizioni di vita di certe categorie come gli anziani, certi lavoratori di settori in via di estinsione, o gli immigrati, ecc.) stimolando l'impegno dei ragazzi non solo sul piano "cognitivo", ma anche su quello emotivo e comportamentale. Ma questo modello formativo si è dimostrato ancora più valido quando lo abbiamo trasferito nella formazione sul lavoro, in particolare nel settore dei servizi sociali e sanitari, in cui ho lavorato per molti anni. Aiutare gli assistenti sociali, ad esempio, a fare ricerca sulla realtà in cui essi operavano, e sugli utenti dei servizi che a loro si rivolgevano, ha permesso loro di comprendere meglio i limiti del proprio lavoro, chi erano coloro che, pur avendo bisogno di aiuto, non si rivolgevano al loro servizio, e come dar vita ad un sistema informativo (detto a rischio) che permettesse di tradurre ogni intervento fatto in un elemento di conoscenza utile a valutare gli aspetti positivi e negativi della propria attività. E questo è servito anche nello sforzo di passare dal ruolo di "rammendatrici dal dialogo facile", come si sono soprannominate esse stesse, o, per usare un altro termine, di tappabuchi del sistema, ad un ruolo diverso, di stimolo ad una "prevenzione" dei problemi su cui si trovavano ad intervenire. Lo stesso è avvenuto quando abbiamo utilizzato questo modello nel settore della salute mentale con il mio assistente a Ferrara che era uno psichiatra (Wienand). E questo sottolinea l'importanza di utilizzare la ricerca nei processi educativi e formativi, sia nelle scuole di ogni ordine e grado, sia nel campo della formazione sul lavoro. 3) La ricerca per decidere E' questo il settore più problematico di questi analizzati. Da una parte, infatti, si è molto parlato del "modello razionale" di decisione. Nelle parole di uno dei fondatori della sociologia A. Comte, del "conoscere per operare". Secondo questo modello per prendere una decisione bisogna studiare a fondo il problema, vedere le possibili soluzioni ad esso, i costi ed i vantaggi di ognuna di queste, ed infine decidere quali di queste fosse la più valida. Dall'altra parte, invece, si è sostenuto che non era possibile chiarire tutti gli aspetti che una decisione comporta (sia,spesso, per mancanza di tempo, sia per i costi eccessivi che questo avrebbe comportato, sia infine per le difficoltà tecniche a prendere in considerazione tutte le variabili implicate in un processo decisionale)e che il modello migliore era quello "democratico", o meglio, nella definizione dello studioso che sostiene la validità di questo modello (Lindblom, 1959, 1965), del "rimescolamento". E cioè che tutte le persone ed i gruppi interessati ad una decisione dovevano poter partecipare a discuterla, a chiarirne gli aspetti e le conseguenze, ed a prendere le decisioni finali. E che la decisione presa a maggioranza era la migliore perchè rispondeva alle esigenze dei più. Ambedue i modelli, sia quello "razionale", sia quello "democratico", hanno dei grossi limiti. Il modello razionale ha, nel nostro sistema, quella che Habermas ha definito la "crisi di competenza": in sistemi rigidi come il nostro e quello tedesco, in cui tutto tende ad essere regolato attraverso leggi formali, per cambiare qualcosa, almeno in modo incisivo, c'è spesso bisogno di una approvazione di una legge, il che richiede molto tempo e molti appoggi. Ma una volta cambiata è difficile tornare indietro. Non c'è invece spazio, e da qui la crisi di competenza, per una sperimentazione di modelli operativi alternativi, che permetta di comprendere quali di questi sia migliore, più rispondente agli obiettivi che ci poniamo, e meno "costoso" sia dal punto di vista economico che sociale. E quale perciò convenga perseguire e generalizzare (Habermas, 1979). L'esempio più chiaro, nel nostro paese, di questa crisi, è la riforma psichiatrica. C'è stata una certa sperimentazione, si pensi alle esperienze di Gorizia, Parma, Ferrara, Perugia, Venezia ecc., sperimentazione però del tipo che definirei "selvaggio", non per la volontà di chi l’ha portata avanti, ma per le condizioni in cui è avvenuta. Infatti è mancato un lavoro di ricerca sistematica per analizzare la situazione prima dell'intervento, e dopo di esso, ed è mancato soprattutto il riconoscimento del valore della sperimentazione stessa, e la possibilità di portarla avanti nel modo migliore. Si pensi agli svariati processi in cui si sono trovati impegnati gli psichiatri innovatori considerati responsabili di atti compiuti da persone che essi avevano ritenuto di non tenere "rinchiuse", ma di rimandare alla collettività. Era cioè una sperimentazione non accettata nè riconosciuta, ma portata avanti dagli innovatori a loro rischio e pericolo. Ma anche la decisione di generalizzare l'esperienza anti-psichiatrica, come è stata definita, a tutto il territorio nazionale, non è venuta da una analisi reale ed approfondita dei risultati e dei vantaggi ottenuti dal nuovo modello operativo, come richiederebbe un corretto approccio sperimentale. Si è infatti approvata la legge di riforma per evitare di arrivare ad un referendum che ponesse in discussione la persistenza o meno della legge del 1904 allora vigente. I grossi tentativi tuttora in corso per ripristinare gli ospedali psichiatrici (magari sotto falso nome), o per ritornare indietro alla situazione pre-riforma, sono sicuramente legati alla crisi di competenza ed alla mancanza di una sperimentazione corretta. Ma un limite ancora più grosso del modello razionale è quello del rischio di "tecnocraticismo". Questo eccessivo peso dato alla conoscenza razionale rischia infatti di dividere le persone in due categorie: gli "esperti", che sanno e che possono decidere, e gli altri, che non conoscono e non comprendono, e che non possono perciò decidere razionalmente. E questo è un grosso rischio che minaccia la stessa persistenza del sistema democratico. Ma anche il modello "democratico" ha dei grossi limiti. In particolare il fatto, dimostrato ampiamente da ricerche in tutto il mondo, che di solito, o per impedimenti fisici (si pensi ai sistemi di "apartheid"), o per impedimenti culturali (si pensi agli elevati livelli di evasione elettorale proprio tra le categorie più interessate al cambiamento) i gruppi che partecipano di più, con maggiore impegno, e con maggiori risorse economiche, sociali e culturali, sono quelli che sono i più interessati al mantenimento dello "status quo". E questo limita notevolmente il modello tanto da renderlo del tutto inadeguato soprattutto quando i problemi sono così grandi da richiedere, per la loro soluzione, decisioni di fondo che comportino modifiche anche sostanziali della situazione attuale. Il modello che sta emergendo, come superamento dei limiti dei due su citati, cui ha lavorato soprattutto H. Simon (1984) , è quello della "razionalità limitata". Secondo questo modello la ricerca è importante, e la conoscenza è fondamentale per una corretta presa di decisione, ma questa comporta anche, sempre, una scelta tra valori diversi, e comporta, nel caso di problemi controversi, l'assunzione del rischio da parte di tutte le persone, senza delegare le decisioni agli "esperti". Perciò, scrive H. Simon: "Quando su un problema si accende una furiosa polemica, quando cioè il problema è circondato da incertezze e da valori in conflitto, allora è molto difficile ottenere un parere tanto competente quanto spassionato....Nella migliore delle ipotesi possiamo trasformare la polemica in un procedimento per contraddittorio, in cui noi - i "laici" - ascoltiamo quanto gli esperti sostengono ma riservandoci la facoltà di emettere il giudizio finale". (ibid. p…?) Questo significa che la ricerca è importante per una corretta presa di decisioni, ma che non va nemmeno sopravvalutata nella sua portata reale, e che la decisione finale non può venire soltanto dal momento conoscitivo dato che la scelta tra valori diversi, e degli obiettivi da perseguire, non può essere delegata a chi "ricerca", ma riservata alla collettività. 4) La ricerca per valutare La pratica valutativa, in particolare quella applicata alla formazione e più in generale ai processi educativi, si è andata lentamente affermando, a partire dagli anni ’50, in concomitanza sia con il rinnovamento delle politiche educative, attraverso l’elaborazione e l’utilizzazione di tecniche capaci di osservare il funzionamento dei sistemi scolastici; sia nelle imprese, come conseguenza dell’innovazione nelle modalità di gestione del personale, sia infine nel vasto campo delle politiche di “formazione continua”. In effetti la rilevanza della valutazione è ormai ben percepita non solo dagli operatori della formazione, ma anche da una pluralità di soggetti (ministeri, regioni, imprese private, sindacati, organizzazioni di volontariato,…). Tutti, anche se in misura diversa e per ragioni diverse, avvertono con crescente consapevolezza l’importanza della valutazione: per cogliere gli effetti generati da macrointerventi, per conoscere ed apprezzare l’effettiva rilevanza delle esperienze fatte e trarre indicazioni e stimoli di riflessione utili per migliorare le proprie capacità d’azione (G. Bertin, 1997). Quindi la valutazione sta acquistando sempre più importanza anche nelle attività legate all’elaborazione e alla gestione di azioni di vario tipo di dimensioni più circoscritte e limitate. Valutare consiste nel comprendere l’azione in tutte le sue sfumature possibili tra quelle che essa manifesta; è un’attività esplorativa ed è opportuno evitare di considerarla come un dispositivo di indagine concettualmente e tecnicamente autonomo: essa infatti non può essere separata dai processi ideativi e decisionali che hanno generato il programma di ricerca e dalle azioni concrete che l’hanno portato a compimento. “Ogni tipo di atto valutativo trova una specifica caratterizzazione, il cui senso distintivo è dato dagli “oggetti” su cui si concentra l’attenzione valutativa, ma anche dalla sua “finalità”, dai “metodi” utilizzati per realizzarla e, soprattutto dai “soggetti” che la realizzano… La valutazione risulta essere parte integrante della maggior parte delle nostre azioni, di modo che la si può considerare come un atto inseparabile da ogni comportamento sociale “In ogni momento e in ogni nostro atto, valutiamo e siamo valutati” (Lipari, 1999). La valutazione è quindi uno strumento valido per l’apprendimento ed il conseguente cambiamento, in quanto lo scopo è di favorire l’arricchimento cognitivo ed esperienziale derivante dalla riflessione critica condotta sull’intero processo. Ma, come è stato ripetutamente sottolineato dalle ricerche fatte in questo settore, la ricerca valutativa nel nostro paese è stata notevolmente sottovalutata e trascurata. Secondo Altieri (L. Altieri, 1991) questa trascuratezza, almeno nel campo dei servizi sociali e sanitari, è stata causata dalla “assenza di una adeguata volontà politica, come pure in una prassi lungamente consolidata nei modi di agire pubblici che ha sempre accuratamente escluso il momento della verifica”. Un’altra causa, secondo lo stesso autore, è nella prevalenza di impostazioni “ideologiche” che non necessitano di “sottoporre a verifica quanto viene messo in atto”. Ma se questo è vero per il campo socio-assistenziale, crediamo si possa dire che in campo educativo la situazione non è sicuramente migliore. Si dà per scontato che il lavoro pedagogico porti necessariamente a risultati positivi, senza porsi assolutamente il problema di valutare se questo è vero o meno. Eppure, segnali che non sempre l’educazione porta ai risultati che si sperava ottenere, non mancano. Alcuni anni fa, una studiosa inglese (in Catti, 1988) ha dichiarato che le attività per il superamento dei pregiudizi razziali, messe in atto da certe scuole di quel paese, invece di portare alla loro diminuzione, li aveva accresciuti. È noto inoltre come gli studi di Allport (1976), su questi stessi temi, abbiano dimostrato come la crescita dell’istruzione delle persone porti ad una riduzione del livello dei pregiudizi, ma anche come questa diminuzione non sia proporzionale all’aumento del livello di studi : risulta quindi che la correlazione inversa tra aumento dell’istruzione e diminuzione dei pregiudizi, pur esistendo, non è elevatissima. Secondo gli studiosi che hanno analizzato questo settore (Bertin, 1997; L.Altieri, 1991) esistono due forme di valutazione: a) valutazione del processo, detta anche valutazione delle attività (del modo di intervento, delle caratteristiche del programma, dei destinatari, delle condizioni di attuazione); questa viene anche chiamata valutazione di efficienza data l’importanza in questa fase di arrivare a certi obiettivi con il minimo di impiego di risorse b) valutazione del prodotto, detta anche valutazione dei risultati (in questo campo l’interrogativo di base riguarda il raggiungimento o meno dei risultati attesi, e cioè degli obiettivi prefissati); questa viene invece chiamata normalmente valutazione di efficacia. Un autore che ha trattato a lungo della valutazione applicata all’educazione, e che riporta i risultati di molte ricerche estere in questo campo, è G. De Landsheere che nel suo “Introduzione alla ricerca in educazione” (1976) dedica a questo problema ben cinque capitoli. Uno di questi analizza i metodi di valutazione del significato e dell’efficacia dell’intervento educativo. È questo argomento, secondo noi, ad essere centrale per l’attività di un progetto di ricerca che volesse verificare se “l’educazione alla pace è efficace” (se riesce cioè a modificare gli atteggiamenti ed i comportamenti degli studenti in questo contesto), in riferimento all’ipotesi accennata dall’autore citato, secondo cui “il miglior educatore [è] colui che riesce a produrre il maggior numero di cambiamenti positivi nei suoi allievi”. De Landsheere distingue tre tipi diversi di criteri per la valutazione degli interventi educativi: criteri basati sui risultati (con cui si misurano le capacità dell’insegnante facendo riferimento ai frutti ottenuti mediante il suo intervento educativo); criteri di previsione (secondo cui si ritiene, sulla base di ricerche precedenti, che l’esistenza di certi fattori o di certe tendenze possa preannunciare un intervento educativo efficace); criteri basati su processi e funzioni (per i quali si studiano gli aspetti del comportamento dell’insegnante e dell’allievo che possono avere a che fare con il conseguimento di un buon risultato finale). Sulla base di queste indicazioni il fulcro delle ricerche da noi svolte nel campo dell'educazione (L’Abate, 2001) è stato sia il processo che il prodotto, cercando di studiare i rapporti tra questi due aspetti dell’intervento pedagogico, e cioè come attraverso certi processi, o metodi di intervento o stili educativi (corsi tradizionali, training, stili educativi autorevoli, ecc.), si ottengano risultati validi dal punto di vista degli obiettivi prefissi, come l’educazione alla pace ed all’interculturalità nel nostro caso, vista nel senso della modifica sia di atteggiamenti che di comportamenti; risultati da verificare sul piano delle attività di formazione fatta da parte dei docenti, al centro del processo pedagogico, sia sul piano dell’allievo, prodotto finale del processo educativo. Sarebbe importante fare una rassegna delle ricerche svolte in questo campo nel nostro o in altri paesi. Per il momento però ci limitiamo a segnalare i risultati di alcune ricerche che abbiamo avuto occasione di analizzare e che ci sono sembrati utili ai fini sia dell’impostazione che dell’analisi dei nostri lavori. Hare (1968a, 1968b, 1972, 1977; vedi anche L’Abate, 1990, p. 245), uno psicosociologo americano, che lavora ora in Israele, e che è stato molto attivo anche nel campo dell’intervento nonviolento come direttore dell’esperienza delle “Brigate Mondiali della Pace” nell’isola di Creta, ha svolto una ricerca su 700 giovani (una parte dei quali era impegnato nei movimenti nord americani per la giustizia razziale, ed aveva anche partecipato a training specifici sull’azione nonviolenta) cercando di analizzare le principali differenze tra gli impegnati ed i non impegnati, sulla base di test applicati su quattro dimensioni: dominante/sottomesso; positivo/negativo; serio/espressivo; conformista/non conformista. Ulteriori domande del questionario utilizzato tendevano a rilevare altri aspetti dell’atteggiamento e del comportamento dei giovani ed il loro livello di ansietà nei riguardi del proprio futuro. Rispetto a questa ultima dimensione l’autore non ha trovato alcuna differenza tra i due gruppi. Differenze significative sono invece state trovate in relazione ad altri aspetti: in particolare i giovani impegnati sono risultati meno aggressivi, meno conformisti e più estroversi degli altri. Interessanti sono anche i risultati delle ricerche della Fiske (1987, anche in Ponzo, Tanucci,1992), psicologa anche lei nord americana, la quale, confrontando un gruppo di studenti attivi nel campo della pace e dei diritti umani con altri estranei a questo ambiente, ha trovato, nei primi, un maggior senso di efficacia politica, ossia la percezione più forte del fatto che la loro azione potesse servire a cambiare qualcosa intorno a loro. Ma in questa, come in quella precedente, gli effetti studiati derivano principalmente da un impegno concreto più che da una eventuale formazione; inoltre non viene tenuto sotto controllo l’atteggiamento degli studenti precedentemente alla scelta di impegnarsi in prima persona in queste attività. Comunque la ricerca ci è sembrata interessante in quanto conferma i risultati delle nostre ricerche precedenti (L’Abate 1989, 1991) che hanno riscontrato che una delle cause principali del grosso distacco riscontrato tra i giovani delle scuole medie superiori, tra atteggiamenti pacifisti dichiarati e comportamenti coerenti, fosse un enorme senso di impotenza, la sensazione dei giovani che non serva a nulla darsi da fare perché le decisioni spettano comunque ad altri. Il sottoscritto, con i suoi studenti, ha portato avanti ricerche in questo settore fin dal 1984, quando insegnava all’Università di Ferrara. Da allora ricerche simili sono state condotte tra studenti di scuole medie superiori della provincia di Lecco; Casalecchio sul Reno (BO); Castel Fiorentino (in provincia di Firenze, ma con campioni di controllo a Prato e Pistoia); Firenze città ed Empoli. Da tutte queste è stata confermata l’importanza, per i giovani, del senso di isolamento e di impotenza, connessi al loro sentire di vivere in una societrà individualista che tende ad emarginarli dai processi decisionali. Come scrivono gli studenti di Ferrara, nell’anno scolastico 1989, in un loro testo di scrittura collettiva: “ci sembra che isolamento, individualismo, e alienazione…. siano tre aspetti chiaramente correlati e rinforzanti l’uno con l’altro. Non si agisce perché ci si sente soli e, per questa stessa ragione, si ha l’impressione che non serva a nulla muoversi, lottare, darsi da fare” (Seminario di ricerca per la pace, 1989, pp.167). In queste ricerche, tra l’altro, abbiamo sperimentato e valutato l’introduzione di giochi cooperativi in classi materne ed elementari, utilizzando un modello sperimentale classico: in alcune classi è stato inserito lo stimolo, in altre invece, di controllo, non lo è stato. In tutte, prima e dopo, sono stati applicati vari tests e questionari di valutazione, ma il lavoro si è sviluppato anche con una attenta osservazione del processo educativo, per valutare il progetto e per confermare la sua efficacia ai fini del cambiamento di atteggiamento e comportamento, con l‘obbettivo della crescita del comportamento e dell’atteggiamento assertivi e la diminuzione di quelli aggressivi e passivi. Altre ricerche, come le precedenti, hanno invece studiato, sperimentalmente, l’educazione alla responsabilità. Gli studiosi che hanno sviluppato questo approccio centrano la loro attenzione sul problema dell’agire irresponsabile dell’uomo, con le sue evidenti conseguenze negative e distruttive sia della dignità che dell’esistenza umana (Bertin, Contini, 1983; Bertin, 1984; Contini, 1988; Orsi,1998). Oggetto della ricerca, portata avanti in vari anni da due studentesse della Facoltà di Scienze della Formazione (Navarrini, Leonessi, a.a. 2000/1), sono stati non solo gli allievi ma anche gli insegnanti delle classi sperimentali e di quelle di controllo. In questo secondo caso lo stimolo era un particolare approccio educativo che tendeva a far partecipare ai processi educativi ed a considerare attori, e non agiti, oltre che gli insegnanti anche gli allievi e le loro famiglie. I risultati sono stati molto positivi da tutti i punti di vista sia per gli insegnanti che per gli allievi coinvolti nella sperimentazione. Gli insegnanti hanno infatti trovato in un questo modo di insegnare una rivitalizzazione del proprio ruolo di «educatori», con il superamento di una pedagogia puramente «trasmissiva» e «nozionistica», e l’acquisizione di un ruolo «autorevole», invece di quello autoritario, o lassista, che tendevano ad avere in precedenza. Gli allievi delle classi sperimentali hanno notevolmente aumentato la loro capacità di essere «assertivi», sia a livello degli atteggiamenti che dei comportamenti, ed hanno acquisito capacità di ascolto, di partecipazione, di cooperazione, ed il rifiuto della violenza e della passività (L’Abate, Tesi, in Sapio, 2004). Il gruppo di ricerca per la valutazione degli interventi fatti nelle scuole per l’educazione alla pace, da me diretto (vedi Del Lungo, L’Abate, Tesi, inedito; L’Abate, 2001) ha messo anche a punto una particolare metodologia di analisi del contenuto di temi in classe di studenti di scuole di vari ordini e gradi. L’obiettivo, che ha condotto all’utilizzo di questa tecnica, è stato quello della verifica dei risultati prodotti da un lavoro di educazione interculturale condotto nelle classi; e anche quello della valutazione della possibilità di una conseguente diminuzione dei pregiudizi nei confronti degli immigrati. Questa analisi è stata fatta inizialmente su circa 130 temi di studenti di alcune scuole di Firenze che avevano, in varia misura, lavorato sul tema dell’interculturalità e del pregiudizio. L’unità di analisi prescelta è stata la singola proposizione del tema, attraverso la distinzione fra “descrittive”, “esplicative”, “valutative” e “propositive”. Il lavoro ha permesso di vedere come i giovani tendono ad utilizzare, in generale, nei loro temi, le categorie descrittive e valutative. Ma nei temi di quegli studenti i cui insegnanti avevano effettuato percorsi didattici riguardanti l’immigrazione e l’educazione interculturale, le categorie esplicative e propositive sono risultate molto più presenti rispetto agli elaborati del restante campione. Tutto ciò ci è sembrato importante per vedere i limiti dell’educazione tradizionale, e gli effetti degli interventi svolti. Il fatto che i giovani, di questo campione, che non avevano avuto una educazione specifica su questi temi, fossero passati direttamente dalla descrizione alla valutazione, senza essere in grado di spiegare le cause del fenomeno di cui trattano, né di comprenderne eventuali soluzioni, ci è sembrato importante per elaborare delle ipotesi credibili sia sul perché del pregiudizio, sia su cosa può essere fatto affinché lo si possa superare, o per lo meno ridurre (L’Abate, 2001, pp. 153-180). Queste ipotesi sono state riprese in una ricerca di tipo semisperimentale, nell’anno scolastico 1996-97, che prendeva in analisi alcune classi di due scuole diverse a seconda che avessero, o meno, approfondito il problema del’immigrazione. Anche se con risultati meno chiari delle ricerche sperimentali precedenti, le differenze più significative emerse sono quelle a proposito degli atteggiamenti risultanti dalla lettura degli elaborati: i temi dei ragazzi che non hanno partecipato ad attività specifiche sono connotati in maggiore misura da atteggiamenti quali pregiudizio e intolleranza, quelli degli studenti dell’altra scuola presentano situazioni più varie che vedono come base, in misura significativamente maggiore, empatia, ospitalità, speranza. Per ciò che attiene alle proposizioni utilizzate ed alla capacità argomentativa ed esplicativa, l’istituto, i cui insegnanti hanno dichiarato di aver svolto attività interculturale, è risultato, anche se con poco scarto, avvantaggiato rispetto all’altro. Gli studenti che non hanno partecipato ad attività mirate hanno dimostrato più attenzione ai disagi che possono riguardare gli immigrati e la loro presenza, mentre gli altri hanno dedicato molto più spazio alla descrizione delle possibilità favorevoli che possono essere conseguenza di una società multiculturale, mostrandosi molto più accoglienti nelle prospettive per il futuro e nelle proposte di integrazione. Anche rispetto agli atteggiamenti emersi dalla lettura critica delle proposizioni risulta una maggiore polarizzazione di posizioni negative in quegli studenti che non sono stati formati attraverso progetti di educazione interculturale, a fronte di una maggiore dimostrazione di empatia, eguaglianza e tolleranza nei loro coetanei dell’altra scuola. Come ultimo dato abbiamo rilevato anche l’influenza dei metodi educativi familiari nella strutturazione di atteggiamenti volti al pregiudizio: in concomitanza con modelli educativi tolleranti si sono riscontrati livelli di pregiudizio più bassi di quanto non sia emerso in presenza di stili educativi improntati all’autoritarismo. Un’altra variabile confermata dalla ricerca è quella del rapporto con il livello di comunicazione all’interno della famiglia. Più elevata la comunicazione tra genitori e figli, maggiore accordo si trova sulla percezione che gli immigrati siano fonte di arricchimento culturale per il nostro paese, anche in questo caso, come per quelli precedenti, confermando le ipotesi di Borghi, Carbonaro e loro collaboratori. (Borghi, 1964; 1967; 1968, 1970; per una ulteriore conferma vedi anche Baracani, Porta, 1999). A livello scolastico dalla nostra ricerca emerge anche che in concomitanza con modelli educativi più democratici, con una comunicazione anche qui non autoritaria tra insegnanti ed allievi, si hanno livelli più bassi di pregiudizio negli allievi. E dalla ricerca sulle scuole secondarie superiori emerge che la scuola che aveva praticato attività educativa in ottica interculturale è risultata più disponibile al confronto con l’alterità. Da questo possiamo dedurre che interventi meno sporadici di educazione della persona ai rapporti con gli altri possano essere di grande vantaggio nel momento dell’incontro con l’altro, con il cosiddetto diverso. 5) La ricercaintervento per la pace Ed è a questo argomento che vorrei dedicare l’ultima parte di questo capitolo argomento che, d’altra parte, si collega al costruttivismo, che sarà sviluppato nel cap. 1 della terza parte. Com’è noto i primi a parlare di un tipo di ricerca-intervento sono stati gli studiosi appartenenti a quella scuola di pensiero che è stata definita dell’ ”apprendimento sociale” (J. Friedmann, 1993). Questa, influenzata dal pragmatismo di Dewey, riteneva che la conoscenza derivasse dall’esperienza, e che perciò l’azione precedesse l’atto del conoscere. Secondo Dewey, infatti, “attraverso l’esperienza noi giungiamo non solo a comprendere il mondo, ma anche a trasformarlo: come in un movimento a spirale, dalla pratica al piano [di azione] e di nuovo indietro alla pratica. E’ questo il modo con cui impariamo” (in Friedmann, op.cit. p. 251, vedi anche J. Friedmann, 2004, pp.170-172). Ma l’autore che ha molto contribuito allo sviluppo di questa metodologia è stato sicuramente Lewin, nei suoi studi sulla dinamica di gruppo. Infatti egli, per studiare i gruppi, stimolava in loro dei cambiamenti di comportamento dando perciò vita a forme di “ricerca azione” in cui la teoria si legava alla pratica di trasformazione della realtà. Da allora questo tipo di ricerca è stata molto utilizzata in campo psicologico e pedagogico, molto meno in quello sociologico e politologico, dove questa introduzione della pratica viene talvolta vista come una uscita dalla scienza ed una commistione con l‘ideologia. Tanto che in molti manuali o dizionari di sociologia lo spazio dedicato a questa metodologia di ricerca, pur menzionata come “ricerca attiva” (action research), è quasi nullo. Ad esempio nel dizionario di G e. A. Theodorson, (1975, p. 366) si dice semplicemente, a questa voce: ”ricerca che mira principalmente alla scoperta dei mezzi più efficaci a provocare un mutamento sociale auspicato. Nella ricerca attiva la scoperta di principi scientifici è di interesse secondario o incidentale”. E nel volume di Sociologia curato da R. König, per l’Enciclopedia Feltrinelli Fisher (3° ediz. 1967,p. 232) si dice: “nella ricerca attiva si tende ad analizzare, e in pari tempo a mutare, certe situazioni indesiderabili, usando i metodi più diversi”. Ma non tutti i sociologi sono d’accordo con la marginalizzazione di questa metodologia, Friedrics (1972), in omaggio al paradigma profetico della sociologia da lui preferito, e di cui parleremo in seguito, propone, come modello, una ricerca-intervento per lo studio e la lotta contro il razzismo in crescita nel suo paese. Inoltre, come avremo occasione di vedere meglio in seguito, questa metodologia si attaglia molto bene al costruttivismo di Galtung (1977d). Infatti per dare vita ad una società possibile-desiderabile, come quella individuata da Galtung tra la realtà così come è attualmente e l’irrealtà, bisogna cercare di modificare sperimentalmente la realtà, per poi verificare se questo è realmente avvenuto, e se è avvenuto questo è andato nel senso desiderato, oppure no. E questo porta a confermare le teorie e le tesi di partenza oppure a modificarle sostanzialmente contribuendo perciò, in modo notevole, allo sviluppo di quella scienza che Galtung definisce “triangolare” (gli angoli del triangolo essendo quello dei “dati”, delle “teorie”, e dei “valori” - vedi il cap. 1 della parte tre di questo volume). E’ questo approccio che anche noi abbiamo seguito nelle nostre ricerche, sia quando abbiamo studiato i pregiudizi antisemitici (vedi N. Baracani, L. Porta, 1999), sia quando abbiamo sperimentato, come già accennato prima, nelle scuole materne ed elementari, i giochi cooperativi, oppure l’educazione alla responsabilità, per vedere se, attraverso l’introduzione di questi stimoli in classi normali, e non in laboratorio (ma seguendo le regole classiche del metodo sperimentale con gruppo di controllo), si riuscisse a modificare l’atteggiamento ed il comportamento dei bambini, aiutandoli ad essere meno aggressivi o passivi, ed essere invece più assertivi (intendendo con questo un atteggiamento e un comportamento di rispetto di sé ma anche degli altri) (J. Lecocq,1980, L’Abate, 2001, 2008, pp. 48-50). Ma se si viene a parlare specificamente della ricerca per la pace una sociologa israeliana, Simona Sharoni, che insegna studi per la pace e la risoluzione dei conflitti in una Università di Washington, USA, ha approfondito molto l’importanza, per questo tipo di ricerca di utilizzare l’approccio della ricerca-azione, o ricerca-intervento (S. Sharoni, 1997). Secondo questa studiosa finora la ricerca per la pace è stata troppo staccata dalla pratica, ed ha avuto una impostazione prevalentemente positivista, e legata al mantenimento dello status-quo. Oltre a questo ha privilegiato la dimensione universale o globale, e non i contesti specifici in cui i conflitti si sviluppano. Per questo lei ritiene che si stia positivamente sviluppando un nuovo approccio, basato: 1) sulla maieutica (coinvolgendo perciò, nella ricerca, la stessa popolazione dello specifico contesto in cui si sviluppa il conflitto, ed attivando un dialogo critico tra questa e le altre persone coinvolte nel conflitto); 2) sul costruttivismo, di cui abbiamo già parlato; 3) sull’orientamento al cambiamento sociale. Come scrive Lederah, anche lui sostenitore ed ispiratore di un approccio di questo tipo: “All’interno dell’approccio maieutico….. si vede la formazione e l’addestramento come una opportunità ed un’occasione, per coloro che vi partecipano, di incontrarsi al fine di scoprire e di creare moduli di risoluzione del conflitto applicabili nel contesto della loro realtà” (J.P.Lederah, 1998). Sulla base di queste indicazioni la Sharoni, piuttosto degli approcci tradizionali di ricerca sulla pace, spesso commissionati dai gestori del potere, e che tendono perciò a perpetuarlo, ritiene importante usare la ricerca per l’azione. “ L’ “action research” scrive la Sharoni - esige che siano le stesse persone coinvolte nel conflitto a determinare quali siano i cambiamenti sociali desiderabili…. L’action research non è soltanto ricerca per la gente, ma anche con la gente” (op cit., p. 40). In questo senso la ricerca per la pace, che dovrebbe avere uno spazio specifico all’interno degli studi e delle accademie per la pace, può essere “uno strumento per l’emancipazione, un campo di lotta, finalizzato a promuovere cambiamenti politici alla base dei principi di uguaglianza e di giustizia economica e sociale” (ibid. p. 45). Ma come abbiamo visto nel paragrafo precedente quasi tutte le ricerche da noi svolte e di cui abbiamo riferito, erano ricercheintervento per la pace che, come previsto nel modello operativo del costruttivismo, implicano, oltre all’inserimento della variabile di intervento specifica (giochi cooperativi, forme di educazione interculturale, o alla responsabilità, training specifici, ecc.) anche la valutazione dei risultati che, come abbiamo potuto vedere, sono stati molto validi riuscendo ad accrescere, nei giovani studenti coinvolti, ed anche negli insegnanti, atteggiamenti e comportamenti assertivi più congruenti con la ricerca attiva della pace. Capitolo 2 COS'E' LA SCIENZA ? DAL MITO DELLA CERTEZZA ALL'INCERTEZZA CREATIVA Nella tradizione classica e nell'immagine popolare la scienza è il regno del sicuro, del dimostrato, del certo, dello scientifico per antonomasia. La scienza è diventata un nuovo credo (una specie di nuova religione). Si è sviluppato quello che è stato giustamente definito il "mito" della scienza: secondo Commoner (1972), cioè, la credenza (fede) che anche se attualmente non ci sono risposte valide ad alcuni problemi fondamentali (ad esempio lo smaltimento delle scorie radioattive) la scienza necessariamente li risolverà. Questo concetto di scienza è in crisi, in parte per una critica serrata all'interno del mondo della scienza stessa (soprattutto da parte dei filosofi della scienza), in parte per ragioni esterne, la presa di coscienza sempre più generalizzata dei limiti della scienza stessa, e dei rischi cui può portarci una "scienza senza coscienza". 1) Le critiche interne I pensatori che hanno contribuito a mettere in crisi maggiormente l'immagine classica sono Popper, Kuhn e Feyerabend. Popper (1970) ha rovesciato, si può dire, la logica tradizionale ponendo al centro del progresso scientifico non la verifica della validità di una ipotesi, ma la sua falsificazione, e cioè la dimostrazione che essa non è valida. Secondo questo studioso non si può mai sapere se una ipotesi, od un fatto è vero, finchè non si sono provate tutte le variabili che possono agire su di essa, o analizzate tutte le situazioni in cui esso può esistere. Il che, naturalmente, è impossibile. E' quindi più valido procedere al contrario, e cercare gli elementi che la invalidano. Ne basta infatti uno solo per invalidarla (es. tutti i cavalli sono bianchi). L'immagine di scienza che emerge dalla riflessione di Popper è quella di una scienza provvisoria, con risultati ed ipotesi da sottoporre sempre ad ulteriori falsificazioni. Scrive B. Magee (1979), uno dei più noti studiosi di Popper: "In nessuna fase siamo in grado di provare che ciò che "conosciamo" è vero, ed è sempre possibile che possa risultare falso. In realtà è un dato di fatto che, nella storia intellettuale dell'umanità, la maggior parte di quanto è stato considerato valido in un periodo, è risultato in un'altro non essere vero" (p.26). Kuhn, dal canto suo, nel suo notissimo libro "La struttura delle rivoluzioni scientifiche" (1978), ha dato un ulteriore contributo a questa modifica dell'immagine della scienza mettendo al centro della scoperta scientifica non tanto l'accordo tra gli scienziati, quanto il disaccordo tra di loro. In particolare, per Kuhn, il progresso scientifico non arriverebbe attraverso un processo di accumulazione (il nano sulle spalle del gigante), ma piuttosto attraverso un processo di rivoluzione . La "scienza normale" continua ad essere considerata valida, anche se ci sono aspetti oscuri non spiegati da essa, le cosiddette anomalie, fino a quando queste ultime sono troppe, ma soprattutto fino a quando si presenta una nuova scuola, basata su un diverso paradigma, che risulta più valida anche perchè riesce ad interpretare i punti oscuri lasciati dalla prima, ed ad ottenere più appoggi nella comunità degli scienziati. Questa perciò sostituisce la prima, diventando essa stessa la "scienza normale", finchè il ciclo non ricomincia. Oltre alla provvisorietà del sapere scientifico, messo a fuoco da Popper, Kuhn sottolinea l'importanza della visione del mondo complessiva dei ricercatori, e dei valori su cui essi si basano, considerando anche questi elementi come fondamentali nel processo di rivoluzione scientifica. Ma Feyerabend ci stimola a fare un ulteriore passo in avanti mettendo in crisi non solo tutto il nostro sapere precedente, le nostre ideologie, il nostro modo di pensare usuale, ma anche la metodologia o le metodologie di ricerca che la scienza ha dato finora per scontate, chiedendo di fare un passo verso quello che lui definisce come anarchismo metodologico. E cioè di non ritenere che esista un unico metodo, che sarebbe quello valido, per approfondire la nostra conoscenza sui fenomeni allo studio, nè una ideologia, o visione del mondo, che possa inglobare tutto il sapere esistente e possa spiegare tutto, ma mettere invece tutte le ideologie, e le metodologie possibili, in confronto l'una con l'altra, considerarle tutte false e tutte vere, e prenderle solo come spunto per fare emergere ipotesi da sottoporre alla verifica. E' dal confronto delle varie visioni del mondo, e delle varie metodologie, che, per Feyerabend, nasce e si sviluppa il sapere scientifico, e non dalla fede, o dall'attaccamento, ad una particolare di esse. Come si vede la scienza come mito della certezza si sfalda sempre più, e tutte le nostre idee tradizionali, specie se chiuse, dogmatiche, precostituite, sono messe al bando. E la scienza diventa invece aperta al nuovo, all'incerto, a ciò che è ancora da dimostrare, invece che a quanto si considera già dimostrato. Questo accenno ai filosofi della scienza su citati non significa, comunque, da parte mia, completa accettazione delle loro tesi, molte delle quali, invece, sarò costretto a mettere in dubbio e criticare, ma solo il riconoscimento del loro notevole contributo alla rottura della vecchia immagine di scienza, ed alla messa in vita di una nuova immagine molto più valida della precedente. 2) Le critiche esterne La disgrazia di Cernobil, che ha fatto rendere conto a tutto il mondo dell'insicurezza di centrali che i sostenitori del nucleare sostenevano "sicure", il perfezionamento e l'aumento delle testate nucleari che rischiano di trasformare una possibile terza guerra mondiale in una ecatombe generale, ed altri fenomeni derivati dal cosiddetto progresso tecnico-scientifico, (ad es. l'effetto serra), hanno contribuito notevolmente a rompere, nell'immagine pubblica, il concetto di scienza come regno della certezza e della sicurezza. E, di fronte ai dibattiti su questi temi che vedono contrapposti esperti e scienziati di opinioni diverse, si è cominciata a configurare l'idea che la scienza fosse invece basata sull'incertezza e l'insicurezza. Queste critiche, interne ed esterne, hanno fatto crollare quella che è stata definita da un sociologo italiano la certezza infondata (Cassano, 1983), ed hanno messo al centro della riflessione scientifica i problemi controversi. "Gran parte dei problemi di maggiore rilevanza sociale - scrive Salio, uno studioso italiano dei problemi della guerra e della pace in una sua importante riflessione epistemologica- sembrano senza soluzione. I dibattiti su tali questioni danno sovente l'impressione di essere inconcludenti e senza fine. Questa situazione, che spesso genera sconforto e frustrazione, è caratteristica di quel tipo di problemi che chiameremo questioni controverse, e che possiamo caratterizzare come problemi di natura complessa, globale e del tipo scienza-società" (p.9). Secondo Salio (1988, vedi anche il suo libro, del 1995) la crescita dell'anitride carbonica e l'effetto serra, il buco d'ozono nella stratosfera, ed altri simili, sono caratterizzati da una profonda incertezza conoscitiva e dalla presenza di scuole che sostengono tesi contrapposte. Ed infine dall'estrema difficoltà a fare previsioni rispetto al futuro. E la sempre maggiore complessità della vita sociale, sottolineata da molti sociologi e da studiosi di altre discipline, con l'esistenza di un gran numero di variabili che interagiscono contemporaneamente e di cui è difficile conoscere con sufficiente precisione le modalità di interazione, tende a fare aumentare notevolmente le questioni controverse. Anche E. Morin (1974), di cui avremo occasione di parlare più a lungo nel capitolo sui paradigmi, sostiene una tesi simile e richiede un modo di ragionare molto diverso da quello precedente: "Il metodo della complessità - scrive Morin - ci richiede di pensare senza chiudere i concetti, di spezzare le sfere chiuse, di ristabilire le articolazioni tra ciò che è disgiunto, di sforzarci di comprendere la multidimensionalità, di pensare con la singolarità, di non dimenticare mai le totalità integratrici....La totalità è nello stesso tempo verità e non verità, e la complessità sta proprio in questo, nella congiunzione di concetti che si combattono reciprocamente" (pp.59-60). Ma vediamo meglio che cosa siano queste questioni o problemi controversi. Secondo Zorzoli (1975) le controversie si possono sviluppare secondo cinque livelli differenti: 1) Sui dati, le statistiche, o fatti; 2) sulle stime, le probabilità; 3) sulle ipotesi, le definizioni; 4) sul rapporto rischi/benefici; 5) sulla gerarchia dei valori sociali ed individuali (problemi etici). Ma le singole controversie possono riguardare uno solo di questi livelli, oppure svariati di loro. In quest'ultimo caso il problema diventa sempre più complesso, il che rende più difficile il superamento delle contrapposizioni e l'uso della conoscenza a fini decisionali, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente. Utile a chiarire i rapporti tra conoscenza e decisione è la classificazione di D. Collingridge (1986) secondo il quale esistono quattro condizioni decisionali: 1) Decisioni in condizioni deterministiche, quando siamo in grado di prevedere e calcolare con certezza gli esiti di ciascuna scelta; 2) Decisioni in condizioni di rischio, quando, per almeno una delle scelte, non siamo in grado di fare previsioni certe; 3) Decisioni in condizioni di incertezza, quando sono definibili tutti gli esiti relativi a ciascuna decisione, ma si possono fare solo stime probabilistiche rispetto al verificarsi o meno di tali esiti; 4) Decisioni in condizioni di ignoranza, quando non siamo in grado di individuare con certezza non solo le probabilità, ma neppure tutti gli esiti possibili. Man mano che si passa da una classe di decisione a quella successiva ci si trova in condizioni di decisione sempre più complesse e difficili. Secondo Salio la quasi totalità dei problemi di natura controversa rientra nell'ultima classe di decisione, quella cioè in condizioni di ignoranza. Ma questo comporta che si deve prendere in considerazione sia la possibilità di sbagliare, e gli "effetti perversi" dell'azione umana (Boudon, 1981) dovuti appunto alla limitatezza della razionalità umana, sia i costi sociali che un eventuale errore può portare. E Salio conclude sostenendo l'opportunità di quella che è stata definita una "strategia razionale di scelta in condizioni di ignoranza". "Poichè l'unica cosa certa è che possiamo sbagliare -scrive Salio - e che con molta probabilità sbaglieremo, dobbiamo premunirci rispetto ai nostri stessi errori scegliendo soluzioni che siano il più facilmente correggibili agli errori, o insensibili agli errori, o ancora "errorfriendliness", ovvero tali da tollerare errori" (1988, p.16). Ma questo comporta una strategia di apprendimento dai propri errori che implica: 1) che l'errore possa essere diagnosticato prima possibile; 2) che il sistema messo in atto sia il più possibile flessibile; 3) che le decisioni di fondo sui problemi controversi vengano prese - come sostiene anche il già citato H. Simon - dalle stesse persone che corrono il rischio, ad esempio quello dello scoppio di una guerra nucleare, o di una catastrofe ecologica), attraverso una loro valutazione soggettiva e collettiva dei rischi e dei benefici della scelta, senza delegare la scelta ad esperti che non sono mai sufficentemente tali da poter prendere loro una tale decisione. Il che mostra appunto, come dicevo nel titolo, il passaggio da una scienza che pretende di essere basata sulla certezza, ad una scienza invece che riconosce l'incertezza, e ci aiuta a prendere le decisioni più valide in tali condizioni. D'altra parte E. Morin, nel suo libro "Scienza con coscienza" (1984) sostiene che più grande è la luce, più grande è anche l'ombra. E' perciò naturale che l'aumento delle conoscenze, invece di eliminare le ombre, e cioè i dubbi e le incertezze, li aumentino progressivamente. E' quindi fondamentale, ai fini conoscitivi, utilizzare positivamente la stessa incertezza trasformandola in quella che si potrebbe definire l'"incertezza creativa". Mettere al centro del procedimento scientifico l'incertezza, invece della certezza, il dubbio invece del "dato per scontato", o del "risaputo", l'ombra invece della luce, stimola infatti notevolmente la ricerca. Questo costringe infatti lo studioso a non prendere per buono niente, a mettere in pratica il motto baconiano del "dubito erga sum", a non accontentarsi mai delle facili, e magari gratificanti, risposte, ma a mettere a fuoco invece gli aspetti problematici, i dubbi non risolti, tutto quanto vi è di più discusso ed incerto in una determinata spiegazione del fenomeno che si vuole studiare, e stimola a vedere come centro della scienza non quanto già si conosce, e si reputa scontato, ma quanto invece è sospetto di incertezza edi dubbio, e perciò richiede ulteriori approfondimenti. Il fulcro della scienza diventa perciò il procedimento per approfondire la conoscenza, e cioè la ricerca stessa, con tutti i problemi di impostazione, svolgimento, completamento, e rimessa in gioco delle ipotesi di partenza, che ne sono il fulcro, e che metteremo a fuoco nel proseguo di questo libro. Capitolo 3 METODO SCIENTIFICO E CICLO CONOSCITIVO Abbiamo visto come il "metodo scientifico" sia stato sottoposto a forte critica da parte di uno dei filosofi della scienza analizzati, il Feyerabend. Fino a che punto sono fondate queste critiche? E se si, quali insegnamenti possiamo trarre dalla presa di coscienza di questi limiti? Per poter rispondere a questa domanda per prima cosa dobbiamo vedere che cosa è, in realtà, quel metodo scientifico tanto criticato. Lo faremo sulla base degli insegnamenti di tre studiosi di metodologia delle scienze sociali, Hoover, Bailey e Phillips. Per Hoover (1980, pp 35), in un testo molto fortunato, le cui edizioni successive sono state riviste con la collaborazione di Dodovan, utilizzato in molte università da circa una trentina di anni, ed ora alla nona edizione, il metodo scientifico è composto da cinque principali elementi o attività: 1) L'identificazione delle variabili da studiare; 2) Una ipotesi sulla relazione tra una variabile ed un'altra (ad esempio: il rapporto tra attaccamento alle proprie tradizioni da parte degli immigrati ed integrazione nella società ospitante, di cui abbiamo parlato nel primo capitolo), o tra una variabile ed una situazione (nello stesso esempio, il rapporto tra integrazione sociale e la presenza o meno di isole etniche di immigrati); 3) Un test di realtà , o strumento di verifica (tra questi avremo occasione di distinguere tra metodi qualitativi e quantitativi, e tra varie forme di osservazione: documentaria, del comportamento, attraverso interviste o inchieste, o sperimentale) attraverso il quale il rapporto ipotetico da cui siamo partiti è messo a confronto con i risultati della ricerca; 4) Una valutazione nella quale il rapporto misurato viene confrontato con l'ipotesi iniziale, e da questo confronto se ne traggono delle generalizzazioni, (cioè delle indicazioni su andamenti trovati come costanti); 5) Dei suggerimenti sul significato teorico di quanto si è trovato, dei fattori coinvolti nel test che possono aver distorto il risultato, ed altre ipotesi che la ricerca può suggerire. Ho sottolineato le parole chiavi del testo di Hoover che avremo occasione di chiarire meglio e specificare nei capitoli successivi, e che sono alla base del processo di ricerca. Ma per Bailey (1985) bisogna parlare di un "processo di ricerca" che si divide in cinque fasi principali:Le parole usate non sono le stesse, e le fasi sottolineate sono più precise e più rispondenti al normale svolgimento di una ricerca, rispetto a quelle di Hoover, ma la sostanza è la stessa. Non si parla di variabili ma di problema, le ipotesi sono viste come punto di partenza di tutto il procedimento, il test di realtà viene visto, come di solito avviene, interno alla fase della "formulazione del disegno della ricerca", che deve appunto decidere e mettere a punto gli strumenti da utilizzare, mentre viene vista come fase staccata la vera e propria raccolta dei dati (che Hoover considerava inclusa ed implicita nel test). Anche le attività della fase successiva, la codifica e l'analisi vengono da Hoover considerate implicite nello stesso test, mentre Bailey ne sottolinea la distinzione rispetto alle precedenti. Del resto chi fa ricerca sa che effettivamente quelle indicate da Bailey sono fasi importanti cui il ricercatore dedica notevole tempo e sforzi. La quinta fase di Bailey, l'interpretazione dei risultati, corrisponde grosso modo alla quarta di Hoover, della valutazione e della ricerca delle generalizzazioni. La freccia del circolo che riporta alla prima fase e chiude il ciclo ha lo stesso significato della quinta attività prevista da Hoover, e cioè quella della ricerca del significato teorico di quanto si è trovato e di altre ipotesi che emergono. L'unica diversità è quella che i fattori coinvolti nel test che possono avere distorto i risultati, previsti da Hoover in quest'ultima attività, sono, nello schema di Bailey, da includere nella quinta, dell'interpretazione dei risultati. Ma a parte la migliore utilizzabilità dello schema del Bailey ai fini dell'illustrazione del processo di ricerca e delle sue fasi, i due schemi sono sostanzialmente analoghi. Vediamo ora un ulteriore schema derivato da un'altro testo di metodologia, largamente usato per insegnare metodologia della ricerca sociale negli USA ed anche in Italia, il Phillips (1971). Lo schema, elaborato da Wienand (1984-5) sulla base delle indicazioni del Phillips, è decisamente più complesso, e più dettagliato, di quelli precedenti. Oltre alla teoria, di cui abbiamo già accennato, si inserisce, come influente sul rapporto tra quest'ultima e le ipotesi, il concetto di "paradigma", di cui abbiamo parlato accennando al contributo di Kuhn. Nella realtà si dovrebbe includere anche un terzo concetto, di modelli di società, che influisce notevolente in questo processo, ma che spesso viene considerato incluso, e confuso, con la teoria stessa o con i paradigmi. Al chiarimento dei concetti di teoria, paradigmi e concetti di società, e dei loro reciproci rapporti, dedicherò alcuni dei capitoli successivi. Phillips sottolinea inoltre due tipi di ipotesi, generali o generalizzanti, ed operative. Le prime che emergono da una prima analisi del problema, le seconde che emergono attraverso un primo tipo di ricerca, e cioè la ricerca di sfondo, ed attraverso una costruzione di variabili (il lavoro che si fa ad esempio, per rendere i concetti di "integrazione nella società ospitante", o di "attaccamento alle tradizioni" come distinti da altri -ad esempio dall'"assimilazione" che tende ad uccidere la cultura immigrata e non ad integrarla) e per rendere tali variabili pesabili attraverso la ricerca. Anche di questo avremo occasione di riparlarne. Le tecniche di misurazione dello schema di Phillips fanno parte della fase che Bailey chiama "formulazione del disegno della ricerca", in cui si dovrebbero includere anche la ricerca di sfondo e la definizione di ipotesi operative, di cui abbiamo parlato prima (a meno di non considerare, il che è possibile e forse più valido, la ricerca di sfondo come un primo ciclo completo, e l'ipotesi operativa come il risultato di un primo processo da cui partire di nuovo). La rilevazione dei dati corrisponde alla fase 3 di Bailey, e l'elaborazione dei dati alla 4. In Phillips si trova il concetto nuovo di "proposizioni", distinte tra "constatative", che corrispondono grosso modo alle generalizzazioni viste in precedenza, e "teoriche", che corrispondono al ritorno al momento teorico visto negli schemi precedenti, soprattutto nell'Hoover. Ma il concetto di proposizione sta a sottolineare, oltre allo spessore teorico, anche il fatto di essere emerso dalla ricerca, e perciò dall'essere passato almeno attraverso un primo processo di verifica. Le freccie successive che uniscono quest'ultime alla teoria, o che provengono da altre teorie, o vanno verso altre direzioni, stanno a sottolineare quanto accennato da Hoover come significato teorico dei risultati ottenuti, e cioè che la teoria da cui eravamo partiti per l'individuazione delle prime ipotesi (generali) può essere rinforzata dai risultati della ricerca (la freccia intera), oppure che i risultati non corrispondono del tutto a quanto previsto ed allora, con l'aiuto di altre teorie, si può e si deve cercare di elaborarne altre (le freccie tratteggiate) che possano permettere di comprendere ed interpretare quanto emerso dalla ricerca. Ma anche lo schema di Phillips, pur più dettagliato, ricalca i due precedenti, confermando cioè un grosso accordo sull'impostazione di fondo, l'accettazione cioè di quel metodo scientifico da cui eravamo partiti. Potremmo allargare ulteriormente gli esempi ma non ci discosteremmo troppo da quanto emerso finora. Quali sono gli elementi comuni che caratterizzano il metodo scientifico come sottolineato da questi schemi? Due mi sembrano le caratteristiche principali: 1) In tutti e tre gli schemi viene privilegiato il processo deduttivo come punto di partenza della ricerca. Questa inizia, infatti, sempre da una teoria o da una ipotesi teorica, per poi cercare conferma ad essa. Il processo induttivo è accettato, nella fase di risalita dai dati trovati alla teoria di partenza, ma è subordinato al primo, che è servito ad impostare tutta la ricerca, ed anche i dati trovati o meno. 2) In essi la prassi, o realtà esterna operante nella vita quotidiana, è esclusa dallo schema, se non come oggetto della ricerca stessa, e come fonte dei dati rilevati. Ma non è essa stessa soggetto del processo conoscitivo. Ma vediamo più a fondo questi due aspetti. Un'altro studioso Derek, e non Simon, Phillips, in un suo lavoro "Abandoning method" (1973), accetta le critiche di fondo di Feyerabend sulla limitazione del metodo scientifico per la libertà del ricercatore individuale, e come impedimento, più che un aiuto, al progresso scientifico. E richiede, per la sociologia, un atteggiamento più libero, (più giocoso, egli dice, parlando dell'importanza del gioco nella riflessione sociologica). Scrive Phillips "Forse un approccio più giocoso alla ricerca sociologica ci permetterebbe di confrontare la nostra propria esperienza, prestare attenzione a ciò che abbiamo visto, sentito, provato, e riflettuto, e su ciò che sappiamo di già. Assumendo un atteggiamento più giocoso possiamo forse liberarci dal dogmatismo del metodo. Il gioco liberandoci da una pesante dipendenza dal metodo, ci può rendere capaci di confrontarsi con il mondo senza i "paraocchi" scientifici richiesti dall'essere membri della comunità dei sociologi...Io suggerisco che un atteggiamento giocoso è una precondizione necessaria per "sperimentare il mondo" (ibid., pp.162-163). Come si vede anche questo studioso sente il bisogno di fare entrare la realtà esterna, quotidiana, nel mondo della scienza, attraverso la sperimentazione, ma una sperimentazione diretta e partecipata, e non quella precodificata e sotto controllo che anche il metodo scientifico accetta. Ma più che alle sue riflessioni sul gioco, che nella realtà è solo limitatamente più libero perchè anche esso ha le sue regole, mi sembrano importanti le riflessioni di Phillips sui limiti del metodo deduttivo.: "Questa visione scientifica - scrive questo studioso parlando del metodo scientifico tradizionale - crea una chiara separazione tra teoria e prassi, tra la verità scientifica e le opinioni che guidano la nostra azione. Le risposte che noi diamo ai problemi postici dalla vita pratica non sono elaborate sulla base di una rigida aderenza ai metodi delle scienze, nè si basano sull'aderenza alle leggi della logica deduttiva (sottolineatura mia)" (p.169). Ricordando quanto abbiamo già detto sul modello razionale e sui suoi limiti, possiamo vedere con chiarezza che il metodo scientifico è, nei fatti, la traduzione in termini di scienza del modello razionale. Per superare questi limiti ed elaborare una "scienza critica" D. Phillips ritiene valide le indicazioni di Feyerabend, in particolare l'importanza di quello che questo studioso definisce come metodo contro-induttivo, e cioè di non preoccuparsi troppo della corrispondenza tra teorie e dati, ma piuttosto elaborare ipotesi inconsistenti sia con le teorie che con i fatti accertati; e l'assunzione del principio della proliferazione per il quale si deve tendere ad elaborare ed inventare teorie inconsistenti con i punti di vista accettati. Anche se posso ritenere che un'attenzione critica nei riguardi della rigidità del metodo scientifico sia positiva, e posso trovare divertente e stimolante l'idea di andare contro-corrente, e porre in dubbio non solo le teorie, il che abbiamo visto far parte di quell'atteggiamento di incertezza creativa che ho messo al centro della ricerca scientifica, ma anche i fatti accertati, ed anche questo mi sembra importante perchè spesso il "fatto" è il risultato di strumenti di ricerca e di misurazione sbagliati, od è addirittura creato da noi attraverso la nostra stessa osservazione (vedremo in seguito questi problemi), mi sembra però che i limiti del metodo cosiddetto "scientifico" non siano, da questi due autori, messi a fuoco sufficientemente ed adeguatamente. Per quanto riguarda il primo di questi limiti, e cioè la sottovalutazione del metodo induttivo per la comprensione della realtà esterna, è noto come la maggior parte delle scoperte sulla causalità del cancro (ad esempio sull'influenza di certe sostanze lavorate) non sono emerse da teorie o ipotesi preesistenti e dai grossi centri di ricerca e di raccolta dei dati che si stanno organizzando in varie parti del mondo (i cosiddetti "registri del cancro"), ma dall'osservazione critica di certi medici di base che hanno notato che, nella zona in cui operavano, gli operai di una certa fabbrica si ammalavano più frequentemente di altri (Maccacaro, 1975). Ma questa constatazione sta portando anche gli epistemologi a rivedere certe impostazioni precedenti. La critica che è stata fatta ai metodi induttivi di D.Hume (1978) è quella che le conclusioni delle argomentazioni induttive - al contrario di quelle deduttive - hanno dei contenuti che superano quelli delle premesse. E questo ha fatto sorgere problemi filosofici rispetto alla dimostrabilità di quello che è stato definito il "sostegno induttivo". Questa critica è stata portata avanti soprattutto da Popper che ritiene il metodo induttivo non provabile e perciò non utilizzabile in un corretto procedimento scientifico. "Popper in realtà - scrive un epistemologo italiano M. Bianca (1986)- nonostante dica che la scienza è un castello sempre sottoponibile a critica, si smentisce perchè richiede che le proposizioni della scienza, e quelle induttive in particolare, abbiano in realtà un valore assoluto: egli ritiene in effetti che con l'uso del suo metodo falsificazionista è possibile essere certi delle verità delle proposizioni scientifiche le quali varrebbero così in ogni condizione. Cosa questa che non è mai stata vera, in particolare perchè il "tutti i casi" non potrà mai valere neppure dopo un ampio ed approfondito controllo" (p.24). Questa ed altre critiche stanno portando ad una rivalutazione del metodo induttivo. Infatti, secondo lo studioso di "logica" Salmon (1969), è proprio la caratteristica di avere conclusioni il cui contenuto supera quello delle premesse che "rende necessari gli argomenti induttivi a sostegno di gran parte della nostra conoscenza" (p.77). E scrive Bianca: "In verità senza l'induzione l'uomo non potrebbe neppure sopravvivere poichè ogni sua esperienza resterebbe isolata rispetto alle altre e la sua vita si presenterebbe come una successione discreta di esperienze. Sarebbe poi impensabile che ogni momento dell'essere nel mondo dell'uomo fosse sempre nuovo: egli non possederebbe la capacità dell'apprendimento. L'uomo invece, così come anche l'animale, può sopravvivere nell'ambiente proprio perchè classifica ogni sua esperienza, paragona quella passata con quella presente, e quest'ultima, accumulandosi, serve come parametro conoscitivo di quella futura" (p.20). E Bianca spiega poi come, introducendo le assunzioni (enunciati che si assumono come se fossero stati formulati in riferimento a casi non esaminati) si può superare il cosiddetto "salto logico" tra enunciati singoli ed enunciato generale. Scrive Bianca: "In realtà non c'è salto se l'induzione viene intesa come processo di tipo semplificativo che si fonda su casi esaminati e su casi che si accettano come se fossero stati esaminati" (p.22). Come si vede, perciò, l'induzione ha tutti i requisiti per essere inclusa legittimamente in un valido procedimento scientifico. Ma vediamo ora la seconda critica, quella dell'esclusione della prassi. E' Galtung (1977d) che sottolinea come la ricerca non si dovrebbe concludere con una relazione scritta, ma solo quando si è riusciti a modificare la realtà esterna nel senso previsto dai risultati della ricerca stessa. E tutti gli scienziati, soprattutto i biologi, sanno che un processo scientifico passa necessariamente per la sperimentazione. Ma non solo quella a tavolino, od al chiuso di laboratori specializzati, ma anche quella che tende a modificare la realtà esterna, o parte di essa, ed a tenere sotto controllo i risultati ottenuti dove si è operato il cambiamento, con quelli invece dove non si è intervenuti. Ma questo comporta l'inclusione della vita stessa nel processo conoscitivo. Questo ci permette di presentare l'ultimo schema, quello da me elaborato modificandone, anche pesantemente, uno proposto da un metodologo francese (Loubet Del Bayle, 1978, p. 21): Questo schema mi sembra più valido dei precedenti perchè include nel ciclo conoscitivo oltre al processo deduttivo quello induttivo ed anche la prassi. Il procedimento scientifico può partire sia dall'alto, dalla teoria e/o ipotesi, e dal lato destro può, attraverso la deduzione, la ricerca, l'osservazione finale, e la modifica dell'agire (o totale o parziale, per una osservazione sperimentale sul campo), arrivare sino alla prassi. Ma può partire anche dal basso, e cioè dalla prassi stessa, ed attraverso una osservazione critica di questa (che include, o può includere, anche la ricerca) può portare a trovare delle generalizzazioni empiriche, e queste, a loro volta, attraverso un processo induttivo possono portare ad elaborare ipotesi o teorie, o a confermare quelle già esistenti. Naturalmente il ciclo non finisce mai, e le ipotesi e teorie trovate ed elaborate vanno sottoposte ad ulteriori ricerche che possono rinforzarle od invalidarle. Questo schema mi sembra sottolineare l'importanza di una sperimentazione (sul campo e non in laboratorio) come strumento di passaggio tra teoria, ricerca ed azione, ed i limiti di una sociologia che si limiti a lavorare ai livelli "descrittivi" ed "analitici". Che si accontenti cioè di descrivere e spiegare, o interpretare, la realtà esterna. Stamler (1967), ad esempio, parlando dell'epidemiologia, ne individua quattro livelli: 1) descrittivo; 2) analitico; 3) sperimentale; 4) applicativo. E perchè dovrebbe la sociologia, e la ricerca sociologica, limitarsi ai primi due livelli, lasciando fuori dal proprio ciclo conoscitivo gli ultimi due ? Ma se questo è vero, dal "conoscere per operare" di comtiana memoria, che privilegia il momento conoscitivo su quello operativo, dobbiamo passare all' "operare conoscendo-conoscere operando" che riconosce come base della conoscenza sia la prassi che la teoria, senza privilegiare nessuna delle due. Ma soprattutto che sottolinea l'importanza di non limitare la ricerca a momenti episodici, ma di impostare, quando si opera (si pensi al lavoro degli assistenti sociali o degli operatori di salute mentale sul territorio di cui ho parlato nel primo capitolo) un valido sistema informativo che permetta di tenere sotto controllo quello che si fa, il nostro operare. E cioè che sottolinei l'importanza di una raccolta sistematica di dati su determinati problemi sui quali operiamo (ad esempio: chi sono gli utenti, quali risultati si hanno, quali bisogni li portano ai servizi, quali bisogni non possono essere risolti dal servizio stesso e richiedono interventi esterni, ecc.). Senza però appesantire troppo i dati che raccogliamo, il che rischia di fare diventare la loro raccolta una routine senza senso, riservandoci invece di fare ricerca, anche episodica, per problemi specifici cui vogliamo rispondere sulla base di ipotesi di partenza bene specificate.
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