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22 agosto 2014

 

L’Isis, i suoi collegamenti ed il fallimento dell’intelligence occidentale.

di Aldo Giannuli

 

Notizie e dati sull’Isis sono scarsi e frammentari ma non inesistenti. Qualcosa su cui iniziare a ragionare c’è ed ho esposto alcune argomentazioni già alcuni giorni fa. Come si sa, l’Isis ha colto tutti di sorpresa con una ascesa rapidissima che non ha precedenti nei casi di guerriglie ed organizzazioni clandestine. Ancora qualche mese fa se ne parlava come di un gruppo di giovani fanatici, privi di una effettiva pericolosità sul piano strategico. C’è stata una madornale sottovalutazione, tanto della forza organizzativa quanto delle capacità di direzione politica e militare di questo gruppo (ed anche io debbo fare autocritica per aver accettato questa immagine, sin oltre la presa di Mossul, il 10 giugno). Questi sono sanguinari, ma non sono solo un gruppo di briganti tagliagole, sono avversari che vanno presi molto sul serio. E non sono avversari solo degli Usa, ma anche dell’Europa e di chiunque non si riconosca nell’Umma. Anche nostri, intendo della sinistra comunista e socialista.

Ho avuto la piacevole sorpresa di scoprire che anche altri, del tutto indipendentemente, stanno facendo considerazioni sull’Isis e sulla sua natura di gruppo predatorio dietro cui ci sono soggetti coperti, che coltivano un disegno di potere di segno tutt’altro che progressista o “antimperialista”. Alludo per esempio ai Wu Ming che su twitter hanno esposto in 30 punti alcune loro valutazioni (consultabili riunite su ilcorsaro.info).

Sono in larga parte d’accordo con le valutazioni riguardanti la resistenza curda e sul ruolo decisivo del Pkk (anche se trovo il giudizio sui Peshmerga un po’ ingeneroso), ma qui vorrei sviluppare la parte del discorso relativa alla natura politica e sociale  del “Califfato“ e dei suoi possibili committenti, partendo dalle informazioni disponibili.

Una prima messe di informazioni è venuta dall’arresto a Mossul, l’8 giugno, di Abu Hajjar (un corriere dell’organizzazione) che ha rivelato il nascondiglio del capo del comando militare dell’Isil Abdulrahman al Bilawi, catturato poche ore dopo ed ucciso. A parlarne è stato un articolo del “Guardian” (15 giugno 2014) ripreso da “Internazionale”.

Queste catture hanno fatto cadere nelle mani dell’intelligence iraquena ben 160 chiavette usb dalle quali è stato possibile ricavare una grande quantità di dati, come i nomi originari e di copertura dei combattenti stranieri, le identità dei capi più anziani, le iniziali degli informatori dell’Isil infiltrati nei ministeri di Bagdad ecc. Ma soprattutto una ricca raccolta di dati sulle finanze del gruppo, da cui si ricava che l’Isil, a quella data, disponeva già di 875 milioni di dollari sia liquidi che in beni. Cui poi si sono aggiunti i lingotti d’oro ed i liquidi trovati nelle banche di Mossul ed altro. Nessun gruppo “terrorista” nel mondo dispone di risorse finanziarie paragonabili.

Sempre secondo la stessa fonte, queste ricchezze sarebbero state il frutto della commercializzazione del petrolio e del contrabbando dei reperti archeologici nelle zone che l’Isis controlla in Siria da oltre un anno (e solo dai reperti del sito archeologico di Al Nabuk, l’Isis avrebbe ricavato oltre 36 milioni di dollari). Oltre che da sottoscrizioni di singoli sostenitori sparsi nel mondo islamico. Dunque, l’Isis non avrebbe ricevuto finanziamenti nascosti da stati islamici o da gruppi finanziari.

Invece, in una inchiesta di Fausto Biloslavo comparsa su “Panorama”(27 agosto 2014) si parla di beni per oltre 2 miliardi di dollari, di cui circa 500 predati nella conquista delle città settentrionali dell’Iraq; , pur sottraendo i 500 milioni in questione, il resto è quasi il doppio della stima fatta sulle famose chiavette. Lo stesso Biloslavo accenna a finanziamenti “iniziali” di Quatar ed Arabia saudita, voce ripresa anche da diverse fonti minori. Peraltro, non mancano tracce di piccoli versamenti di denaro di provenienza Turca e persino americana.

Qui però conviene fare delle distinzioni per non trarre conclusioni troppo azzardate. Piccoli versamenti turchi o americani possono anche esserci stati, ma questo va ricondotto alle particolarissime condizioni della guerra in quelle zone. Ad esempio, il settimanale americano “The Nation” documentò pagamenti americani in Afghanistan ai talebani, per il tramite dei contractors ingaggiati, per garantire la sicurezza dei convogli che trasportavano armi ed equipaggiamento (“Internazionale” 13 novembre 2009),

così come l’esigenza di procurarsi ingentissime quantità di carburante per aerei e mezzi di terra, sempre in Afghanistan, davano luogo, grazie alla diffusa corruzione fra i militari americani, a spericolati giochi e triangolazioni con regimi discutibilissimi come il Kirghizistan o il Tagikistan o con faccendieri di vario genere di cui non si capiva se fossero emissari di qualche gruppo terroristico o semplici organizzazioni di mala vita (“Internazionale” 30 aprile 2010).

Tutto questo non significa che gli americani abbiano finanziato la guerriglia contro di loro, ma che in operazioni di quelle dimensioni possono esserci “fughe laterali di denaro” dovute alla corruzione o a taglieggiamenti di cui non sono responsabili i comandi in capo o l’autorità politica. Ma, ovviamente, si tratta di flussi occasionali e necessariamente molto limitati.

Nel caso dell’Isis possono esserci state occasioni del genere ma non si tratta di episodi significativi sul piano politico e neppure dei finanziamenti. Robetta.

Più serio può essere il discorso dei finanziamenti iniziali quatarioti e sauditi. Certo, occorrerebbe saperne di più: di che cifre si parla? Sino a quando sono durati? L’impressione è che si possa essere trattato di cifre non piccole, che hanno consentito all’Isis di “prendere quota”, ma che sono molto lontane dalle cifre di cui si parla oggi. E, probabilmente, Arabia Saudita e Quatar le hanno date nell’illusione di controllare l’Isis e farne un proprio strumento di influenza.

Restano, però, da chiarire troppi punti in materia di finanziamenti: in primo luogo, non siamo affatto sicuri di avere una stima sufficiente delle disponibilità di denaro dell’Isis. Facciamo un piccolo calcolo: in tutti gli eserciti, anche quelli totalmente volontari (come erano le Brigate internazionali in Spagna), occorre dare un soldo, anche limitato, ai propri combattenti e provvedere al loro sostentamento, equipaggiamento ecc. Ovviamente il costo di un soldato americano è decisamente superiore a quello di un soldato dell’Isis, ma, pur calcolando una cifra bassissima di 800 dollari mensili a testa (e dovremmo saperne di più, ma questo è un dato prudenzialissimo, considerando il vettovagliamento, l’equipaggiamento e l’eventuale soldo) si ricava che l’Isis, che vantava circa 30.000 effettivi già prima dell’offensiva in Iraq, dovrebbe aver avuto bisogno di circa 21 milioni di dollari al mese. Ovviamente una parte importante è venuta dalla vendita del petrolio, dal contrabbando archeologico, da finanziamenti quatarioti e sauditi ecc, ma già questo dice che in un anno, per la pura sussistenza, sono occorsi oltre 250 milioni di dollari. Poi ci sono state le spese per armamenti e munizionamento, operazioni varie ecc. ecc.

Dunque, già prima dell’offensiva gran parte degli 875 milioni di cui parla il “Guardian” dovrebbe essere stata bruciata. Poi, non siamo affatto sicuri che vendita di petrolio e contrabbando archeologico possano aver dato quelle cifre. E non perché lì non ci sia merce da vendere per quei valori, ma perché questo non riesce se non si ha una rete commerciale idonea a smaltire quei quantitativi. Ad esempio, il contrabbando, che avrebbe fruttato 36 milioni solo da un sito, esige una rete di distribuzione in grado di raggiungere collezionisti, aste, banche ecc che paghino quelle cifre. Se ci si rivolge ai canali della criminalità organizzata, per quanto si tratti di una ricettazione di alto livello, non si rimedia molto di più del 5-10% del valore.

Dunque, il solo sito di Al Nabuk avrebbe dovuto fornire pezzi per oltre 300 milioni di dollari, per poi realizzarne una trentina o poco più. Poco credibile. Per avere un apprezzamento adeguato, occorre avere una rete di distribuzione propria o una “amica” che si presti a collocare la merce senza farci affari da strozzino. Ed allora: chi sono questi benefattori che si sono offerti di fiancheggiare l’Isis con questa attività “commerciale”?

Poi, in questo caso è anche improprio  parlare di guerriglia, perché siamo in presenza di un soggetto che esercita una  sorta di “sovranità di fatto” su un territorio grande quanto il Belgio e dotato anche di cospicui armamenti pesanti (come carri armati), in parte catturati all’esercito iraqueno in fuga, ma in parte posseduti già prima, altrimenti non si capisce come possano aver avuto la meglio in uno scontro campale con una armata molto corazzata. Dunque siamo molto vicini ad una guerra regolare. Cose che costano e molto. Ma soprattutto, se il Califfato dovesse durare, avrebbe bisogno di risorse notevoli, tanto per la guerra, quanto per la gestione amministrativa del territorio. Vero è che potranno gestire una parte dei pozzi petroliferi nella zona di Mossul (sinchè saranno nelle loro mani), ma in primo luogo occorre vedere quanto petrolio riusciranno ad estrarre in queste condizioni e, più ancora, come troveranno acquirenti e come lo trasporteranno. Senza contare che, dovendo sostenere una guerra, di soldi gliene serviranno proprio tanti. Chi li procurerà? Tenendo anche conto che appare piuttosto difficile che possano ricorrere ai mercati finanziari per approvvigionarsi di denaro: al di là delle condizioni politiche, quale operatore finanziario può essere disponibile, in queste condizioni, a rischiare il suo capitale prestandolo all’Isis?

Insomma, trattandosi non più di un esercito guerrigliero ma di uno Stato vero e proprio, qualcuno dovrà soccorrerli, magari anche solo per trovare chi compri il loro petrolio.

A proposito: sin qui a chi lo hanno venduto? A che prezzo e con quale rete di distribuzione?

Insomma, mi pare che l’intelligence occidentale sia un colabrodo incapace di fare il suo mestiere, come ha sottolineato nei giorni scorsi anche Mattia Ferraresi, in un interessante articolo apparso su “Il Foglio” del 22 agosto, sul tentativo fallito di liberare James Foley nel luglio scorso. Ma di questo, torneremo a parlare.

 

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