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25.07.2018
Il disincanto dell’umanesimo
di Anna Curcio
Un incontro a Bologna con Paul Gilroy, studioso militante noto esponente dei Cultural Studies britannici. «Se guardiamo a un’ecologia dei media, questa centralità della razza è in parte effetto di internet»
Insistere sulla centralità del razzismo nei processi di gerarchizzazione sociale è oggi fin troppo semplice, alla luce di ciò che accade nelle nostre città e lungo i nostri confini. Resta tuttavia l’urgenza di dare efficacia alla lotta antirazzista. Se, come crediamo, non basta l’espressione di buoni sentimenti o il richiamo a una disincarnata equità sociale che perde di vista la materialità della razza, definire una strategia antirazzista all’altezza dei tempi resta la scommessa politica.
Di questo abbiamo discusso con Paul Gilroy (incontrato a Bologna durante gli incontri della Summer School, sua lecture Antiracism and planetary humanitarism), studioso militante noto esponente dei Cultural Studiesbritannici. Il suo più recente lavoro critica la ragione umanitaria della sinistra e le sue scivolate manichee a cui contrappone l’esigenza di un nuovo umanesimo di fanoniana memoria. Se sulla possibilità di rifondare l’umanesimo occidentale il dibattito resta aperto e le posizioni divaricate, la critica di Gilroy è uno strumento prezioso per separare il grano dell’antirazzismo materialista dal loglio di un antirazzismo umanitario.
Come funzionano razza e razzismo, nell’Europa neoliberale, mentre si costruisce ad arte un’emergenza rifugiati e il migrante diventa invasore?
In tutta Europa, stiamo assistendo all’emergere di una politica populista che è xenofoba, razzista e ultranazionalista. Un fenomeno contraddittorio che articola attraverso il linguaggio della razza, dell’appartenenza, della cultura e della nazionalità vecchie lagnanze contro governi e partiti politici. L’elemento razziale, sebbene con accenti diversi da paese a paese, ne costituisce la parte prevalente. È l’elemento razziale che rende possibile connettere l’odio verso gli stranieri con la difesa dell’identità nazionale. È la presenza del pericolo raffigurato dall’Altro razziale, che produce coesione, indicando la strada verso un luogo perfetto da cui è stata espulsa l’alterità. A volte, questo significa un mondo senza stranieri. Altre, significa ritornare al fascismo classico: far rinascere l’idea di nazione forte dopo un periodo di disorientamento. In tutti i casi, la questione della razza è centrale, secondo una schema che funziona ovunque in Europa: l’odio per gli stranieri e la ricerca di certezza e stabilità in mezzo alle turbolenze della trasformazione neoliberale.
Se guardiamo a un’ecologia dei media, questa centralità della razza è in parte effetto di internet. In alcuni luoghi del mondo dove la whiteness non esiste come categoria dirimente, è possibile oggi scoprire una generica identità razziale bianca. Allo stesso modo, i neri fanno i conti con la propria identità mediata da internet. Scoprono online un’identità generica spesso basata sulla realtà e la storia degli Stati Uniti e la fanno propria. Così il mondo appare in una forma manichea. La stessa forma che Fanon ha criticato a metà del XX secolo.
Nell’«era post-razziale», la narrazione sulla razza assume una forma manichea, quando persino Disney produce nel film «Black Panther» il suo primo supereroe nero, anche se svuotato di tutti gli elementi radicali e del suo potere conflittuale…
Si parla spesso del potere militare e di quello finanziario americano, ma non si discute abbastanza del potere culturale. Ad esempio gli accademici statunitensi tendono a universalizzare i loro concetti, paradigmi e storia, come se le loro riflessioni potessero valere ovunque. È una mistificazione. Perché se vuoi avere successo nel mondo accademico devi pubblicare i tuoi libri con un editore americano, mettere il tuo nome nelle riviste americane, e così via. Un atteggiamento imperialista che contiene un progetto culturale e politico.
Non credo che blackness e politica della razza possano essere dedotte da ciò che Beyoncé indossa, da quello che ha fatto Jay Z, o che Kanye West ha detto sulla schiavitù. Il film Black Panther appartiene a una tradizione risalente all’inizio del XX secolo, in cui gli afroamericani cercano di immaginare l’Africa e falliscono. Le discussioni sul film sembrano suggerire che esista un blocco nella capacità degli afroamericani di immaginare l’Africa, di vederla, come direbbe Édouard Glissant, in relazione alle circostanze della loro vita.
In questo contesto sociale e culturale, cosa significa lotta antirazzista?
Ci sono due questioni a cui darei priorità. La prima è generazionale. Molti giovani attivisti non hanno idea della storia del movimento nero. Pensano che sia esistito solo ciò che trovano su internet! Per fare un esempio, quando è morto il mio amico Stuart Hall, le versioni della sua vita e del suo progetto intellettuale che hanno cominciato a circolare non facevano minimamente riferimento al coinvolgimento diretto nelle lotte antirazziste. I documenti, le indagini legali della comunità, tutti i progetti a livello di strada a cui aveva contribuito erano completamente assenti. Questa storia nascosta dovrà essere recuperata, diffusa e diventare centrale per il dialogo intergenerazionale tra gli attivisti che, in questo modo, smetterebbero di rifarsi a definizioni generiche di stampo americano trovate in rete. Internet offre cose meravigliose, ma nella transizione a un ordine digitale le informazioni di tipo analogico sono spesso filtrate e questo è il punto. La seconda questione a cui vorrei dare priorità è più controversa. Cercare di articolare – nel nome di una politica antirazzista – una nuova definizione di cosa sia un essere umano. La premessa di questa ambizione è una critica al razzismo e alla gerarchia razziale vecchia di due o trecento anni. Oggi abbiamo bisogno di una comprensione più coerente e complessiva di quella contro-storia, di quelle idee e di ciò che hanno sviluppato. Non sto parlando solo delle lotte contro la schiavitù, ma di quelle contro il potere coloniale, per i diritti politici delle donne che spesso erano anche attiviste nei conflitti anti-coloniali e delle battaglie emancipazioniste, abolizioniste e per l’affrancamento dei neri.
Nel mondo atlantico tutto ciò erano intrecciato insieme. Dobbiamo tornare a far nostra la scommessa di dire con spirito diverso cosa sia l’essere umano. È necessario sbrogliare questa matassa e usare la discussione per articolare una nuova comprensione di ciò che significa «esseri umani tra loro in relazione». Sylvia Winter chiede di reincantare l’umanesimo. Lei è una fanonista. Fanon si ispirava certamente a un nuovo umanesimo. Così anche Senghor, Du Bois, Césaire, Alain Locke, Baldwin, Jordan, Morrison e altri. Possiamo rintracciare questo desiderio indietro nel tempo e persino provare a riportare questa genealogia nel periodo moderno, affondando nelle radici storiche dell’Europa.
Cosa è stato fatto al riguardo?
Sul piano pratico, una cosa che abbiamo fatto per evocare una nozione alternativa di umanità oltre la gerarchia razziale è stato lavorare sull’impunità della polizia e sugli assassini di stato. Abbiamo esaminato i casi di persone morte in seguito al loro contatto con la polizia o con le autorità carcerarie, o nel settore sanitario dove la fornitura di assistenza sanitaria spesso dipende da operazioni di gerarchia razziale. È a partire da un lavoro pratico di questo tipo che è possibile restituire un volto umano alla figura generica e senza volto del nero. Si tratta cioè di capire cosa esclude il nero dall’essere riconosciuto come essere umano. E non basta dire che «il nazismo era un umanesimo», perché Heidegger era razzista. È solo una mistificazione che giustifica scelte politiche deleterie. Aver riportato queste posizioni nel discorso della sinistra e aver articolato in tal senso la ragione umanitaria è stato un errore enorme.
La versione integrale di questa intervista verrà pubblicata su commonware.org