https://francescomarottablog.com 26 gennaio 2018
Ecco il secondo saggio di Alain de Benoist che vi avevamo promesso. Questa volta, avremo modo di leggere La critica dell’ideologia liberale del Nostro. Dopotutto, riprendendo Aristotele, «la filosofia è la scienza della ricerca della verità e la ricerca della verità è ricerca delle cause». E chi meglio del filosofo e giornalista francese, riesce oggi a ritrattare le pulsioni del dualismo ontologico che permea gli studi sul «Liberalismo» ? Davvero pochi. Siamo consapevoli che uno dei problemi maggiori è indubbiamente quello di osservare una dottrina, qual’è il «Liberalismo», pensando di catalogarlo nella sua interezza, positivamente o negativamente. Oppure, peggio ancora, per dirlo con Simone Weil ad «un’idolatria» modellata quasi esclusivamente da uno stimolo politico. Nulla di più sbagliato per comprendere a fondo, una fenomenologia complessa che è presente in quasi tutti gli ambiti delle società post-moderne, rispecchiandone in pieno la loro espressione. Servono pensieri profondi ed è ora di incominciare. Buona lettura! Francesco Marotta
Critica dell’ideologia liberale Traduzione di Cristina Laura Masetti
Non essendo nato dall’opera di un solo uomo, il liberalismo non si è mai presentato come una dottrina unificata. Gli autori che vi si sono ispirati ne hanno fornito interpretazioni talvolta divergenti, se non contraddittorie. Era tuttavia necessario che vi fossero tra loro abbastanza punti in comune da poter considerare sia gli uni che gli altri autori liberali. Questi sono, in effetti, i punti in comune che consentono di definire il liberalismo in quanto scuola. Da un lato, il liberalismo è una dottrina economica, che tende a fare del modello di mercato autoregolato, il paradigma di tutti i fatti sociali. Quello che chiamiamo liberismo politico, non è altro che una maniera di applicare alla vita politica dei principi dedotti da questa dottrina economica, la quale tende per l’appunto a limitare quanto più possibile la funzione del politico. (E’ in questo senso che si è potuto affermare che una «politica liberale» era una contraddizione in termini). Dall’altro lato, il liberalismo è una dottrina che si fonda su un’antropologia di tipo individualistico, in altre parole poggia su una concezione dell’uomo inteso come un essere non essenzialmente sociale. Si dà il caso che questi due tratti caratteristici, che possiedono entrambi un lato descrittivo e un aspetto normativo (l’individuo e il mercato vengono descritti entrambi come dati di fatto e presentati come modelli), siano in netto contrasto con le identità collettive. In effetti, un’identità collettiva non potrebbe essere analizzata in modo riduttivo, come se fosse la semplice somma delle caratteristiche individuali all’interno di una determinata collettività. Essa esige che i membri di questa collettività abbiano la chiara consapevolezza che la loro appartenenza inglobi o trascenda il loro essere individuale, vale a dire che la loro identità comune derivi da un effetto della composizione. Ora, nella misura in cui si fonda sull’individualismo, il liberalismo tende a spezzare tutti i legami sociali che esulano dall’individuo. Quanto al funzionamento ottimale del mercato, esso implica che nulla intralci la libera circolazione degli uomini e delle merci, ossia che le frontiere siano considerate inesistenti, e ciò contribuisce tuttora alla dissoluzione delle strutture sociali e dei valori condivisi. Questo non significa, beninteso, che i liberali non abbiano mai difeso le identità collettive. Ma indica che per farlo, hanno dovuto porsi in contraddizione con i principi che invocavano. * Louis Dumont ha messo in rilievo efficacemente il ruolo svolto dal Cristianesimo nel passaggio dell’Europa da una società tradizionale di tipo olistico a una società moderna di tipo individualista. Fin dalle origini, il Cristianesimo pone l’uomo come un individuo che prima di coltivare ogni altra relazione, ha un rapporto interiore con Dio e che può a questo punto sperare di salvarsi grazie alla trascendenza “personale”. In questo rapporto con Dio, si afferma il valore dell’uomo in quanto individuo, valore rispetto al quale il mondo si trova necessariamente in una posizione inferiore o svalutata. L’individuo è peraltro, come tutti gli altri uomini, titolare di un’anima individuale. Egualitarismo e universalismo si integrano così in un piano ultraterreno: il valore assoluto che l’anima individuale riceve dalla sua relazione filiale con Dio è condiviso dall’intera umanità. Marcel Gauchet ha ripreso questa constatazione di un certo legame di casualità tra la manifestazione di un Dio personale e la nascita di un uomo interiore, la cui sorte nell’al di là dipende esclusivamente dalle sue azioni individuali e la cui dipendenza inizia proprio nella possibilità di una relazione intima con Dio, ossia una relazione che impegna solo lui. «Più Dio si allontana nel suo infinito, scrive Gauchet, più il rapporto con lui tende a diventare puramente personale, fino a escludere qualsiasi mediazione istituzionale. Elevato ad assoluto, il soggetto divino ha un legittimo garante terrestre soltanto nella presenza intima. L’interiorità di partenza, quindi si trasforma senza mezzi termini in individualità religiosa »1. L’insegnamento paolino rivela una tensione dualistica che fa del cristiano, sul piano della sua relazione con Dio, un «individuo fuori dal mondo»: diventare cristiano implica in qualche modo rinunciare al mondo. Tuttavia, nel corso dei secoli, l’individuo fuori dal mondo contaminerà a poco a poco la vita mondana. Man mano che acquisirà il potere di conformare il mondo ai propri valori, l’individuo, che all’inizio si collocava al di fuori di questo mondo, tornerà via via ad immergervisi per trasformarlo in profondità. Il processo si effettuerà in tre tappe principali. In un primo tempo, la vita nel mondo non è più rifiutata ma relativizzata: è la sintesi agostiniana delle due città. Successivamente, il papato s’arroga una potenza politica e diventa esso stesso una potenza temporale. Da ultimo, con la Riforma, l’uomo si dedica completamente al mondo dove opera per la gloria di Dio andando alla ricerca di un successo materiale che interpreta come prova della propria elezione. Il principio di uguaglianza e d’individualità, che inizialmente funzionava solamente nella relazione con Dio, e quindi poteva ancora coesistere con un principio organico e gerarchico che strutturava l’universo sociale, sarà via via ricondotto sulla terra per sfociare nell’individualismo moderno che ne rappresenta la proiezione profana. « Perché nasca l’individualismo moderno, scrive Alain Renaut che espone le tesi di Louis Dumont, «occorrerà che la componente individualista e universalista del Cristianesimo arrivi, per così dire, a “contaminare” la vita moderna, tanto che a poco a poco le rappresentazioni si unificheranno, il dualismo iniziale si farà da parte e “la vita nel mondo sarà concepita come in grado di adeguarsi totalmente al valore supremo” : al termine di questo processo, “l’individuo-fuori-del-mondo sarà diventato il moderno individuo-nel-mondo” »2. A questo punto, la società organica di tipo olistico sarà scomparsa. Per riprendere una distinzione famosa, si passerà dalla comunità alla società, vale a dire alla vita comune concepita come semplice associazione contrattuale. Non sarà più la totalità sociale ad avere la priorità, bensì l’individuo titolare di diritti individuali, legati fra di loro da accordi razionali implicati. Un momento importante di quest’evoluzione corrisponde al nominalismo, il quale afferma, nel XIV secolo, con Guglielmo di Occam, che al di là dell’essere singolo non esiste alcun essere. Un altro momento chiave corrisponde al cartesianesimo, che pone già, in ambito filosofico l’individuo nei termini in cui sarà ipotizzato in seguito dalla prospettiva giuridica dei diritti dell’individuo e da quella intellettuale della ragione dei Lumi. A partire dal XVIII secolo, quest’emancipazione dell’individuo rispetto alle sue appartenenze naturali sarà normalmente interpretata come segno distintivo dell’accesso dell’umanità alla «età adulta», nella prospettiva di un progresso universale. Sostenuta dalla pulsione individualistica, la modernità si caratterizzerà innanzitutto come il processo attraverso il quale i gruppi di parentela o di vicinato, e le comunità più ampie si disgregano via via per «liberare l’individuo», ossia per sciogliere in realtà tutti i rapporti organici di solidarietà. * Essere umani, significa da sempre, affermarsi sia come singolo individuo che come essere sociale: la dimensione individuale e la dimensione collettiva non sono identiche ma sono indissociabili. Nella percezione olistica, l’uomo si costruisce da sé sulla base di ciò che eredita e in relazione al contesto storico-sociale che gli appartiene. E’ a questo modello, che è anche il più comune della storia, che l’individualismo considerato come una particolarità della storia occidentale, viene chiaramente a contrapporsi. L’individualismo, nel senso moderno del termine, è la filosofia che reputa l’individuo come l’unica realtà e lo assume quale principio di ogni valutazione. Quest’individuo è considerato in sé, fatta astrazione da ogni contesto sociale o culturale. Mentre l’olismo esprime o giustifica la società esistente in relazione ai valori ereditati, trasmessi e condivisi, ovverosia, in ultima analisi per quanto riguarda la società stessa-, l’individualismo stabilisce i propri valori indipendentemente dalla società in essere in quel momento. Per questo motivo, non riconosce nessuno status di esistenza autonoma alle comunità, ai popoli, alle culture o alle nazioni. In tali entità, vede solo somme di atomi individuali e stabilisce che solamente questi ultimi possiedono valore. Questo primato dell’individuo sulla collettività è insieme descrittivo, normativo, metodologico e assiologico. Si presume che l’individuo abbia la priorità, sia che lo si ipotizzi antecedente al sociale in una rappresentazione mitica della «pre-storia» (anteriorità dello stato di natura), sia che gli si attribuisca un semplice primato normativo (l’individuo è ciò che vale di più). Georges Bataille affermava che «alla base della vita umana, esiste un principio di insufficienza». L’individualismo liberale afferma viceversa la totale sufficienza del singolo individuo. Nel liberalismo, l’uomo si può intendere come individuo senza dover pensare alla sua relazione con altri uomini all’interno di una socialità primaria o secondaria. Soggetto autonomo, proprietario di se stesso, mosso esclusivamente dal suo interesse particolare, esso si definisce in opposizione all’individuo, come un «essere morale, indipendente, autonomo e pertanto sostanzialmente non sociale»3. Nell’ideologia liberale, quest’individuo è titolare dei diritti inerenti alla propria «natura», la cui esistenza non dipende in alcun modo dall’organizzazione politica o sociale. I governi hanno il dovere di garantire tali diritti, ma non saprebbero istituirli. Essendo antecedenti a qualunque forma di vita sociale, essi non sono subito associati ai doveri, poiché i doveri implicano, per l’appunto, che vi sia un inizio della vita sociale: nessun dovere verso gli altri se non esistono gli altri. L’individuo stesso è pertanto fonte dei propri diritti, a cominciare dal diritto di agire liberamente secondo il calcolo dei suoi interessi privati. Si trova dunque «in guerra» con tutti gli altri individui, poiché si presume che quest’ultimi agiscano allo stesso modo in seno a una società concepita con lo stesso criterio di un mercato concorrenziale. Gli individui possono senz’altro scegliere di aggregarsi, ma le associazioni che creano hanno un carattere incerto, contingente e transitorio, poiché rimangono sospese al consenso reciproco e hanno l’unico scopo di soddisfare al meglio gli interessi individuali di ciascuna delle parti. La vita sociale, in altre parole, è solo questione di decisioni individuali e di scelte interessate. L’uomo si comporta come un essere sociale, non perché ciò sia insito nella sua natura, ma perché si suppone che ne tragga vantaggio. Se non ne trae più alcun vantaggio, egli può in qualsiasi momento (almeno in teoria) rompere il patto. Anzi, è proprio in quella rottura che manifesterà più chiaramente la sua libertà. In opposizione a quella degli Antichi, che consisteva innanzitutto nella possibilità di partecipare alla vita pubblica, la libertà dei Moderni consiste infatti nel diritto di ritirarsi. Per questo motivo i liberali tendono sempre a dare della libertà, una definizione che è sinonimo d’independenza4. Quindi, Benjamin Constant celebra «il pacifico godimento dell’indipendenza privata individuale», aggiungendo che «gli uomini per essere felici hanno solo bisogno di essere lasciati in un’indipendenza perfetta, su tutto ciò che ha relazione con le loro occupazioni, le loro iniziative e la loro sfera di attività e le loro fantasie »5. Questo «pacifico godimento» va interpretato come un diritto alla scissione, un diritto a non essere vincolato a nessun dovere di appartenenza, né da alcuna di quelle forme di quelle fedeltà, che, in certe circostanze, possono in effetti rivelarsi incompatibili con l’«indipendenza privata». I liberali insistono, in particolar modo, sull’idea secondo la quale gli interessi individuali non devono mai essere sacrificati all’interesse collettivo, al bene comune o alla salute pubblica, concetti che reputano inconsistenti. Questa conclusione deriva dall’idea che solo gli individui hanno dei diritti, mentre le collettività, non essendo altro che addizioni d’individui, non sarebbero in grado di averne nessuno. «L’espressione “diritti individuali” è una ridondanza, scrive così Ayn Rand: non vi è nessuna altra fonte di diritti »6. «L’indipendenza individuale è il primo dei bisogni moderni, affermava inoltre Benjamin Constant. Di conseguenza, non bisogna mai domandarne il sacrificio per instaurare la libertà politica»7. Prima di lui, John Locke dichiarò che «un bambino non nasce suddito di nessun paese», poiché, diventato adulto, «ha la libertà di scegliere il governo sotto il quale pensa di poter vivere meglio e di unirsi al corpo politico che più gli piace»8. La libertà liberale quindi implica che gli individui possano prescindere dalle proprie origini, dal loro ambiente e dal contesto nel quale vivono e ove esercitano le proprie scelte, cioè da tutto quello che fa sì che essi siano ciò che sono e non altrimenti. In altri termini, essa presuppone, come dice John Rawls, che l’individuo preceda sempre i propri fini. Nulla tuttavia dimostra che l’individuo possa concepire se stesso come un soggetto libero da qualsiasi assoggettamento, libero da qualsiasi tipo di determinismo. D’altronde, nulla dimostra che eli preferirà, in ogni circostanza, la libertà a qualsiasi altro bene. Una tale visione ignora, per definizione, gli impegni e i legami che non devono nulla al calcolo razionale. E’ una concezione meramente formalista, che non permette di dimostrare ciò che è una persona reale. L’idea generale presume che l’individuo abbia il diritto di fare tutto ciò che vuole fintanto che l’uso che fa della propria libertà non limiti quella degli altri. La libertà si definirebbe, dunque, come pura espressione d’un desiderio che non ha altro limite teorico all’infuori dello stesso desiderio altrui, poiché l’insieme di tali desideri è amplificato dagli scambi economici. E’ quanto affermava già Grotius, teorico del diritto naturale nel XVII secolo: «Non è contro la natura della società umana agire nel proprio interesse, purché lo si faccia senza ledere i diritti altrui »9. Si tratta ovviamente di una definizione irenica: quasi tutti gli atti umani, in un modo o nell’altro, sono esercitati a spese della libertà altrui ed inoltre è quasi impossibile determinare il momento in cui la libertà di un individuo possa essere considerata un ostacolo a quella degli altri. In realtà, la libertà dei liberali è innanzitutto libertà di possedere. Non risiede nell’essere, ma nell’avere. L’uomo è libero nella misura in cui è proprietario – e in primo luogo proprietario di se stesso. L’idea che la proprietà di sé determini principalmente la libertà sarà d’altro canto ripresa da Marx 10. Alain Laurent definisce la realizzazione di sé come una «insularità ontologica il cui fine primario risiede nella ricerca della propria felicità »11. Per gli autori liberali, la «ricerca della felicità» si definisce come la libera possibilità di cercare sempre di massimizzare l’interesse individuale. Ma si pone immediatamente il problema di sapere cosa debba intendersi per “interesse”, tanto più che i sostenitori dell’assiomatica dell’interesse si preoccupano raramente di rievocarne la genesi o di descriverne i componenti, così come non si non si domandano se tutti gli attori sociali siano, in fondo, mossi da interessi identici oppure se i loro interessi siano commensurabili o compatibili fra di loro. Messi con le spalle al muro, essi tendono a dare del termine una definizione banale: “interesse” diventa per loro sinonimo di desiderio, di progetto, d’azione orientata verso uno scopo, e così via. Dato che ogni cosa si trasforma in “interesse”, anche l’azione più altruistica, più disinteressata, può dunque essere definita come egoista ed interessata, poiché risponde all’intenzione volontaria (al desiderio) di chi ne è l’autore. In realtà, però è chiaro che per i liberali, l’interesse si presenta, in primo luogo, come un vantaggio materiale che, per essere apprezzato come tale, deve poter essere calcolabile e quantificabile, in altre parole, deve potersi esprimere nell’ottica di quell’equivalente universale che è il denaro. Non ci si può pertanto stupire del fatto che la crescita dell’individualismo liberale si sia tradotta, in un primo momento in una progressiva scomparsa delle strutture organiche di esistenza caratteristiche delle società olistiche, poi in una disgregazione generalizzata del legame sociale, ed infine in una situazione di relativa anomia sociale, nella quale gli individui si ritrovano nel contempo sempre più estranei l’un l’altro e potenzialmente sempre più nemici l’uno dell’altro, essendo tutti quanti convolti in quella forma moderna di « lotta di tutti contro tutti » che è la concorrenza generalizzata. Così è la società descritta da Tocqueville, ciascun membro della quale, «ritiratosi in disparte, è quasi straniero in mezzo agli altri». L’individualismo liberale tende a distruggere ovunque la tendenza finalizzata alla convivenza sociale, che ha impedito a lungo l’emergere dell’individuo moderno e delle identità collettive che ad essa sono collegate. «Il liberalismo», scrive Pierre Rosanvallon, «fa in un certo senso della spersonalizzazione del mondo la condizione del progresso e della libertà »12. * Nondimeno, il liberalismo deve riconoscere l’esistenza del fatto sociale. Ma invece di chiedersi perché esiste il sociale i liberali si sono preoccupati soprattutto di capire come esso si manifesta, si mantiene e funziona. La società, come si è visto, non è, a loro parere, un’entità diversa dalla sola somma dei suoi membri (il tutto non è altro che la somma delle parti che lo compongono). E’ unicamente il prodotto contingente delle volontà individuali, un semplice assemblaggio di individui che cercano tutti, senza eccezione, di difendere e soddisfare i propri interessi privati. Il suo scopo principale è quindi regolare i rapporti di scambio. Questa società può essere concepita sia come conseguenza di un atto razionale-volontario iniziale (è l’illusione del «contratto sociale»), sia come risultato del gioco sistemico della totalità delle azioni generate dagli agenti individuali, gioco governato dalla «mano invisibile» del mercato, che «produce» il sociale come risultante non intenzionale dei comportamenti umani. L’analisi liberale del fatto sociale si fonda dunque, sull’approccio contrattuale (Locke), o sul ricorso alla «mano invisibile» (Smith), o ancora sull’idea di un ordine spontaneo, non subordinato a un qualunque disegno (Hayek). Tutti i liberali sviluppano l’idea di un dominio del controllo attraverso il mercato, che sarebbe la maniera più efficace, più razionale e quindi anche la più legittima, di armonizzare gli scambi. In un primo momento, il mercato quindi si presenta innanzitutto come una «tecnica d’organizzazione» (Henri Lepage). Dal punto di vista economico, esso è allo stesso tempo il luogo reale ove si scambiano le merci, e l’entità virtuale in cui si elaborano in maniera ottimale le condizioni di scambio, vale a dire l’accordo dell’offerta e della domanda e il livello dei prezzi. Inoltre, i liberali non s’interrogano neanche sull’origine del mercato. Lo scambio commerciale è per loro, in realtà, il modello «naturale» di tutti i rapporti sociali. Se ne deduce che anche il mercato stesso sia un’entità «naturale», che definisce un ordine antecedente a qualsiasi discussione e decisione. In quanto forma di scambio più conforme alla natura umana, il mercato sarebbe presente sin dall’alba dell’umanità in tutte le società. Qui ritroviamo la tendenza di ogni ideologia a «naturalizzare» i propri presupposti, ossia a presentarsi, non per quello che è, in questo caso una costruzione della mente umana, bensì come un mero elemento descrittivo, una semplice riscrittura dell’ordine naturale. Essendo lo Stato derubricato nel contempo ad artificio prevale l’idea di una regolazione «naturale» del sociale tramite il mercato. Interpretando la nazione come mercato, Adam Smith opera una dissociazione fondamentale fra la nozione di spazio e quella di territorio. Rompendo con la tradizione mercantilista che identificava allo stesso modo territorio politico e spazio economico, dimostra che il mercato, per sua natura, non può essere rinchiuso entro limiti geografici specifici. In realtà, il mercato non è tanto un luogo, quanto piuttosto una rete. E questa rete ha l’inclinazione ad estendersi sino ai confini della Terra, dal momento che il suo unico limite risiede, in fin dei conti, nella facoltà di fare scambi. «Un mercante», scrive Smith in un celebre brano, «non è necessariamente cittadino di un particolare paese. Gli è in gran parte indifferente in qual luogo fare il suo commercio; e un lievissimo disgusto gli farà portare da un paese all’altro il suo capitale e, insieme al capitale, tutta l’industria che esso sostiene »13. Queste righe profetiche giustificano l’opinione di de Pierre Rosanvallon, che in Adam Smith vede «il primo internazionalista coerente». «La società civile, concepita come un mercato fluido, aggiunge Rosanvallon, si estende a tutti gli uomini e permette di oltrepassare le barriere di paesi e razze». Il principale vantaggio del concetto di mercato risiede nel fatto che consente ai liberali di risolvere la difficile questione del fondamento dell’obbligo nel patto sociale. Il mercato può infatti essere considerato alla stregua di una legge regolatrice dell’ordine sociale senza legislatore. Regolato dall’azione di una «mano invisibile», neutra per natura perché non incarnata da individui concreti, esso instaura a sua volta una modalità di regolazione sociale astratta, fondata su «leggi» oggettive che si presume permettano di regolare le relazioni fra gli individui senza che esista fra di essi nessun rapporto di subordinazione o di comando. L’ordine economico sarebbe pertanto chiamato a realizzare l’ordine sociale, potendo definirsi sia l’uno che l’altro un’emergenza non istituita. L’ordine economico, dice Milton Friedmann, è «la conseguenza non intenzionale e non desiderata delle azioni di un gran numero di persone mosse dai loro soli interessi». Questa idea, ampiamente sviluppata da Hayek, s’ispira alla formula di Adam Ferguson (1767) il quale evoca fatti sociali che «derivano dall’azione dell’uomo, ma non dal suo disegno». La metafora smithiana della «mano invisibile» è nota: «Inseguendo il proprio guadagno, l’individuo [è condotto] da una mano invisibile a perseguire un fine che non rientra nelle sue intezioni»14. Questa metafora va molto al di là dell’osservazione, tutto sommato banale, che i risultati delle azioni degli uomini sono spesso assai diversi da quelli dati per scontato (ciò che Max Weber chiamava il «paradosso delle conseguenze»). In realtà, Smith situa questa osservazione in una prospettiva decisamente ottimistica. «Ogni individuo», egli aggiunge «dedica senza tregua tutti i suoi sforzi a cercare, per tutto il capitale di cui può disporre, l’impiego più redditizio; è vero che ha ben in vista il proprio guadagno e non quello della società; ma l’attenzione che egli dedica a trovare il proprio vantaggio personale lo porta naturalmente o per meglio dire necessariamente, a preferire precisamente quel genere di impiego che si dà il caso essere il più proficuo per la società». E ancora: «Pur rincorrendo solo il suo interesse, egli sovente persegue l’interesse della società in modo molto più efficace di quanto intenda effettivamente perseguirlo». Le connotazioni teologiche di questa metafora sono evidenti: la «mano invisibile» non è altro che un’incarnazione profana della Provvidenza. Bisogna pure precisare che, contrariamente a quanto spesso si crede, Adam Smith non paragona il meccanismo stesso del mercato al gioco della «mano invisibile», poiché fa intervenire quest’ultima unicamente per descrivere il risultato finale dell’organizzazione degli scambi mercantili. Peraltro, Smith ammette ancora la legittimità dell’intervento pubblico quando le sole azioni individuali non riescono a realizzare il bene pubblico. Questa restrizione, tuttavia, passerà rapidamente. I neoliberali contestano il concetto stesso di bene pubblico. Hayek ricusa per principio qualunque approccio globale della società: nessuna istituzione, nessuna autorità politica deve assegnarsi obiettivi che potrebbero rimettere in discussione il buon funzionamento «dell’ordine spontaneo». In queste condizioni, l’unico ruolo che la maggior parte dei liberali consente di attribuire allo Stato è quello di garantire le condizioni necessarie al libero gioco della razionalità economica del mercato. Esso esiste esclusivamente per garantire i diritti individuali, il libero scambio e il rispetto delle leggi. Dotato non tanto di intenzioni quanto di attribuzioni, deve rimanere neutro in tutti gli ambiti e rinunciare a proporre un modello di «vita bella »15. Le conseguenze della teoria della «mano invisibile» sono decisive, in particolare sul piano morale. In realtà, Adam Smith in alcuni frasi riabilita proprio certi comportamenti che i secoli passati avevano sempre condannato. Affermando che l’interesse della società è subordinato all’interesse economico degli individui, fa dell’egoismo il miglior modo di servire gli altri. Cercando di massimizzare il nostro interesse personale, noi operiamo senza saperlo e senza neppure volerlo nell’interesse della collettività. Il libero confronto sul mercato degli interessi egoistici ne consente «naturalmente, o meglio necessariamente» la loro armonizzazione mediante il gioco della «mano invisibile», che li farà concorrere all’optimum sociale. Non vi è quindi nulla di immorale nell’andare per prima cosa alla ricerca del proprio interesse, poiché, alla fin fine l’azione egoistica di ognuno sfocerà, come per caso, nell’interesse di tutti. E’ quello che Frédéric Bastiat riassumerà in una frase: «Ognuno lavorando per sé, lavora per tutti »16. In fin dei conti, l’egoismo non è dunque null’altro che altruismo. Sono le manovre dello Stato, invece, a meritare di essere denunciate in quanto «immorali» ogni volta che, con il pretesto della solidarietà, esse si oppongono al diritto dell’individuo di agire in funzione del proprio interesse. Il liberalismo lega individualismo e mercato dichiarando che il libero funzionamento del secondo è anche garanzia della libertà individuale. Assicurando la migliore efficienza degli scambi, il mercato, in realtà, garantisce l’indipendenza di ogni protagonista. Idealmente, se il buon funzionamento del mercato non è intralciato da nessun ostacolo, questo aggiustamento avviene in maniera ottimale, consentendo di raggiungere un insieme di equilibri parziali che definiscono l’equilibrio globale. Definito da Hayek «catallassi», il mercato costituisce un ordine spontaneo e astratto, sostegno strumentale formale dell’esercizio delle libertà private. Il mercato, dunque, non rappresenta soltanto la soddisfazione di un ideale di ottimalità economica, ma anche la soddisfazione di tutto ciò a cui aspirano gli individui considerati soggetti generici di libertà. In fin dei conti, il mercato si confonde con la stessa giustizia, il che porta Hayek a definirlo come un «gioco che aumenta le opportunità di tutti i giocatori», prima di aggiungere che in queste condizioni, i perdenti avrebbero torto a lamentarsi e che dovrebbero prenderla solo con se stessi. In conclusione, il mercato sarebbe intrinsecamente «pacificatore», poiché contando sul «dolce commercio» che sostituisce per principio il negoziato al conflitto, neutralizza, allo stesso tempo, il gioco della rivalità e dell’invidia. Va notato che in Hayek la teoria della «mano invisibile» viene riformulata in una prospettiva “evoluzionista”. Hayek rompe con qualsiasi ragionamento di tipo cartesiano così come con la finzione del contratto sociale, che implica la contrapposizione, diventata classica con Hobbes, tra stato di natura e società politica. Collocandosi fra i seguaci di David Hume, egli stende invece l’elogio dell’abitudine e del costume, che oppone a qualunque «costruttivismo». Ma allo stesso tempo egli afferma che il costume sceglie le regole di condotta più efficaci e più razionali, ovverosia le regole di condotta fondate su valori mercantili, la cui selezione porta a respingere «l’ordine tribale» della «società arcaica». Questa è la ragione per cui, pur richiamandosi alla «tradizione», egli critica i valori tradizionali e condanna fortemente ogni visione organicistica della società. Ai suoi occhi, il valore della tradizione deriva innanzitutto dal fatto che è spontanea, astratta, impersonale, e quindi di cui nessuno si può appropriare. Sarebbe questo carattere selettivo del costume a spiegare come mai il mercato si è a poco a poco imposto. Hayek ritiene, dunque, che ogni ordine spontaneo sia fondamentalmente “giusto”, nello stesso modo in cui Darwin afferma che i sopravvissuti alla «lotta per la vita» siano decisamente i “migliori”. L’ordine del mercato costituisce, di conseguenza, un ordine sociale che proibisce per definizione a coloro che ne fanno parte di cercare di riformarlo. Si capisce, alla luce di queste premesse, che il concetto di mercato nei liberali va ben oltre la sola sfera economica. Meccanismo di attribuzione ottimale delle risorse rare e sistema di regolazione dei circuiti di produzione e di consumo, il mercato è anche e soprattutto un concetto sociologico e «politico». Lo stesso Adam Smith, nella misura in cui fa del mercato il principale operatore dell’ordine sociale, è portato a concepire le relazioni fra gli uomini sul modello delle relazioni economiche, ossia come relazioni con la merce. L’economia di mercato sfocia così, in modo del tutto naturale, nella società di mercato. «Il mercato», scrive Pierre Rosanvallon, «è in primo luogo un modo di rappresentazione e di strutturazione dello spazio sociale e, solo secondariamente, un meccanismo decentralizzato di regolazione delle attività economiche attraverso il sistema dei prezzi »17. Secondo Adam Smith, lo scambio generalizzato è la conseguenza diretta della divisione del lavoro: «Così, ciascun uomo si sostenta con gli scambi e diventa una sorta di mercante, e la società stessa è in senso proprio una società commerciale »18. II mercato è dunque, nella prospettiva liberale, il paradigma dominante in seno a una società chiamata ad autodefinirsi, da parte a parte, come società di mercato. La società liberale non è altro che il luogo degli scambi utilitari ai quali partecipano individui e gruppi, tutti spinti dal solo desiderio di portare al limite massimo il proprio interesse. Il membro di questa società, nella quale tutto può essere acquistato e venduto, è un commerciante, un proprietario o un produttore, ma in ogni caso è un consumatore. «I diritti preponderanti dei consumatori», scrive Pierre Rosanvallon, «sono per Smith quello che la volontà generale è per Rousseau». Nell’epoca moderna, l’analisi economica liberale sarà progressivamente estesa a tutti i fatti sociali. La famiglia sarà accomunata a una piccola impresa, le relazioni sociali a un intreccio di strategie concorrenziali interessate, la vita politica ad un mercato nel quale gli elettori vendono il loro voto al migliore offerente. L’uomo sarà visto come un capitale, il bambino come un bene di consumo durevole. La logica economica verrà in tal modo proiettata sull’insieme sociale, nel quale un tempo era intrappolata, sino ad inglobarlo completamente. Come scrive Gérald Berthoud, «la società può quindi essere concepita a partire da una teoria formale dell’azione finalizzata. La relazione costo-beneficio è pertanto il principio che regola il mondo »19. Tutto diventa fattore di produzione e di consumo, tutto è supposto risultare dall’aggiustamento spontaneo dell’offerta e della domanda. Ogni cosa vale quello che vale il suo valore di scambio, misurato dal prezzo. E, parallelamente, tutto ciò che non può essere espresso in termini quantificabili e calcolabili è considerato privo di interesse o inesistente. Il discorso economico si rivela, perciò, profondamente incline alla reificazione delle pratiche sociali e culturali, profondamente estraneo a ogni valore che non si esprima in termini di prezzo. Esso si contrappone di nuovo alle identità collettive, dato che queste identità hanno un valore che non si esprime in termini di prezzo. Riducendo tutti i fatti sociali ad un universo di cose misurabili, esso trasforma alla fine gli stessi uomini in cose, in cose sostituibili e intercambiabili al cospetto del denaro. * Questa rappresentazione rigorosamente economica della società ha conseguenze rilevanti. Nel portare a termine il processo di secolarizzazione e di “disincanto” del mondo tipico della modernità, essa sfocia nella distruzione dei popoli e nella sistematica erosione delle loro specifiche particolarità. Sul piano sociologico, la teoria dello scambio economico porta a dividere la società in produttori, proprietari e classi sterili (come un tempo l’aristocrazia), al termine di un processo notevolmente rivoluzionario di cui Karl Marx non è stato l’ultimo a cantarne le lodi. Sul piano dell’immaginario collettivo porta ad un completo rovesciamento dei valori, elevando alle vette i valori mercantili, che da sempre erano stati considerati inferiori per antonomasia in quanto connessi alla pura e semplice necessità. Sul piano morale, essa riabilita la mentalità del calcolo interessato e i comportamenti egoistici, che le società tradizionali avevano sempre condannato. Considerata per sua natura pericolosa, nella misura in cui costituisce il luogo di esercizio di un potere giudicato “irrazionale”, la politica si riduce, in questa prospettiva, alla garanzia dei diritti e alla gestione del sociale nell’orizzonte della pura expertise tecnica. E’ il fantasma della “società trasparente”, la visione di una società che coincide immediatamente con se stessa, al di fuori di qualsiasi referente simbolico e di qualunque intermediazione concreta. A lungo andare, in una società integralmente governata dal mercato e fondata sul postulato di autosufficienza della “società civile”, lo Stato e le istituzioni finiscono per essere visti come entità destinate certamente a deperire, né più né meno come nella società senza classi immaginata da Marx. La logica del mercato, come ha dimostrato Alain Caillé, è inoltre strettamente correlata a tutto un processo di livellamento, se non addirittura di intercambiabilità degli uomini, tramite una dinamica che è possibile osservare già nell’uso moderno della moneta. «Il gioco di prestigio dell’ideologia liberale […]», scrive Caillé, «consiste nell’identificazione dello Stato di diritto con lo Stato mercantile, nella sua riduzione al ruolo di emanazione del mercato. Di conseguenza, l’arringa in difesa della libertà degli individui di scegliersi i propri fini si riversa sull’obbligo reale imposto loro di non avere altri fini all’infuori di quelli mercantili»20. Il paradosso è che i liberali continuano ad affermare che il mercato massimizza le possibilità di ciascun individuo di realizzare i propri scopi, pur affermando che tali scopi non possono essere definiti preventivamente, e che tutto sommato nessuno può definirli meglio dello stesso individuo. Ma come si può dire che il mercato realizzi l’optimum, se non si sa in che cosa consiste tale optimum? Si potrebbe infatti sostenere con altrettanta fondatezza che il mercato moltiplica gli scopi dell’individuo molto più di quanto non gli dia mezzi per raggiungerli; il che accresce non la sua soddisfazione ma la sua insoddisfazione, nel senso tocquevilliano del termine. D’altro canto, se l’individuo è sempre per definizione il miglior giudice dei propri interessi, chi può in questo caso obbligarlo a rispettare anche una semplice norma di reciprocità? La dottrina liberale sostiene che il comportamento morale non derivi più dal senso del dovere o dalla regola morale, ma da una buona comprensione dell’interesse. Non arrecando danno alla libertà di un altro, lo dissuaderei dal recare danno alla mia. Si suppone che la paura del gendarme faccia il resto. Ma se acquisisco la certezza che trasgredendo la regola incorro in pochissimi rischi di essere punito, e che la reciprocità mi è indifferente, chi può davvero impedirmi di violare la regola o la legge? Ovviamente, nulla e nessuno. Il solo fatto di tenere in conto il mio interesse personale mi invita, anzi, a farlo quanto più spesso mi è possibile. Nella sua Teoria dei sentimenti morali (1759), Adam Smith scrive senza ipocrisia: «Anche se fra i diversi membri della società non vi è né amore reciproco né affetto, la società, sebbene meno felice e meno gradevole, non è necessariamente disgregata. Essa può continuare ad esistere fra gli uomini come continua ad esistere fra i mercanti, grazie ad una sensazione di utilità, senza alcun legame di amore reciproco e di affetto; e se nessuno ha il minimo obbligo oppure non è tenuto alla minima gratitudine, la società può ancora mantenersi con l’ausilio dello scambio interessato di servizi, secondo un valore convenuto »21. Il senso di questo brano è chiaro. Una società può senz’altro fare economia – s’impone l’uso di questo termine – qualunque forma di socialità organica, senza per questo cessare di essere una società. Le basta diventare una società di mercanti: il legame sociale si confonderà con la sensazione della sua «utilità» e con lo «scambio interessato di servizi». Basta dunque partecipare agli scambi mercantili, fare liberamente uso del diritto di massimizzare il proprio interesse, per essere umano. E’ vero che Smith dice che una società di questo genere sarà «meno felice e meno gradevole», ma la sfumatura sarà presto dimenticata. Ci si può persino chiedere se, agli occhi di certi liberali, il solo modo di essere pienamente umani sia nel comportarsi alla maniera dei mercanti, ossia di coloro ai quali un tempo si concedeva soltanto uno status subordinato, non perché non li si considerasse utili, e anzi necessari, ma proprio in ragione del fatto che erano soltanto utili e che la loro visione del mondo era accecata dal solo valore di utilità. Questo, ovviamente, pone la questione dello status di coloro che non si comportano in questo modo, sia che non ne abbiano il desiderio, sia che non ne abbiano i mezzi. Sono ancora uomini, costoro ? * In realtà, la logica del mercato si impone progressivamente solo a partire dalla fine del Medioevo, quando il commercio a lunga distanza e il commercio locale cominciano ad essere unificati all’interno di mercati nazionali sotto l’impulso di Stati nazionali in formazione, desiderosi di monetarizzare al fine di prelievo fiscale degli scambi intracomunitari, non mercantili, prima insequestrabili. Lungi dall’essere un fatto universale, il mercato è dunque un fenomeno strettamente localizzato nello spazio e nel tempo. E questo fenomeno, lungi dall’essere spontaneo, è invece creato artificialmente. In modo particolare in Francia, ma anche in Spagna, il mercato non si costituisce assolutamente contro lo Stato nazionale, bensì grazie ad esso. Lo stato e il mercato nascono insieme e progrediscono di pari passo, con il primo che crea il secondo nello stesso momento in cui si istituisce. «Quantomeno», scrive AIain Caille, «è opportuno non considerare mercato e Stato come due entità radicalmente diverse e antagoniste, bensì come due momenti di uno stesso processo. Storicamente, mercati nazionali e Stati-nazione si edificano in un solo passo, e gli uni non procedono senza gli altri »22. Entrambi, in effetti, si sviluppano nella stessa direzione. Il mercato amplifica il movimento dello Stato nazionale che, per consolidare la propria autorità, non smette di distruggere metodicamente tutte le forme di socializzazione intermedia che, nel mondo feudale, costituivano altrettante strutture organiche (clan familiari, comunità di villaggio, confraternite, mestieri, ecc.) relativamente autonome. La classe borghese, e insieme ad essa il liberalismo nascente, continua ed aggrava questa atomizzazione della società, nella misura in cui l’emancipazione dell’individuo a cui aspira richiede la distruzione di tutte le forme non scelte di solidarietà o di dipendenza che rappresentano altrettanti ostacoli all’espansione del mercato. «Da questo punto di vista», osserva Pierre Rosanvallon, «lo Stato nazionale e il mercato rimandano a una medesima forma di socializzazione degli individui nello spazio. Sono concepibili solo nel contesto di una società atomizzata, nella quale l’individuo è considerato autonomo. Non vi possono dunque essere Stato nazionale e mercato, nel senso sia sociologico che economico di questi termini, in spazi dove la società si dispiega come un essere sociale globale »23. La nuova forma di società che emerge dalla crisi del Medioevo si costruirà quindi progressivamente partendo dall’individuo, dalle sue norme etiche e politiche e dai suoi interessi, infrangendo a poco a poco la coincidenza degli spazi politici, economici e giuridici, o anche linguistici, che la vecchia società tendeva a realizzare. Nel XVII secolo, lo Stato e la società civile tuttavia continuano ad essere un’unica entità: l’espressione «società civile» è sinonimo di società politicamente organizzata, cioè di Stato. La distinzione si attua a partire dal XVIII secolo, specialmente con Locke, il quale ridefinisce la «società civile» come sfera della proprietà e degli scambi, essendo lo Stato, o «società politica», votato ad assicurare la protezione dei soli interessi politici. Questa distinzione, che trova il proprio punto d’appoggio nell’autonomizzazione della sfera della produzione e degli scambi e rimanda alla modalità, di costruzione dello Stato moderno, caratterizzato dalla specializzazione dei ruoli e delle funzioni, porta o alla valorizzazione di una società politica nata dal contratto sociale, come in Locke, oppure all’esaltazione di una società civile fondata sull’adeguamento spontaneo degli interessi, come in Mandeville24 o in Smith. Autonomizzandosi, la società, civile apre infatti la strada al libero dispiegarsi della logica economica degli interessi. Il risultato è che con l’avvento del mercato, come scrive Karl Polanyi, «la società, viene gestita come un ausiliaria del mercato. Invece di essere l’economia intrappolata nelle relazioni sociali, sono le relazioni sociali ad essere invischiate nelle relazioni economiche»25 È proprio questo il senso della rivoluzione borghese. La società assume nel contempo la forma oggettiva di un ordine propriamente sociale, distinto dall’ordine naturale e cosmico, che coincide con la ragione universale, alla quale si ipotizza che l’individuo abbia immediatamente accesso. La sua oggettivazione storica si cristallizzerà in un primo momento nella dottrina politica del diritto, di cui si può seguire lo sviluppo da Jean Bodin sino ai Lumi. Analogamente, l’economia politica s’impone come una nuova scienza generale della società, nella quale quest’ultima viene intesa come un processo di sviluppo dinamico che va nel senso del «progresso». La società deve ormai essere oggetto di una specifica conoscenza scientifica. Nella misura in cui accede ad un modo di esistenza che si presuppone razionale, e in cui tutte le prassi si sottopongono spontaneamente alla razionalità strumentale come principio ultimo di regolazione, il mondo sociale deve necessariamente dipendere da un certo numero di «leggi». Ma proprio per questa oggettivazione, sia l’unità della società sia la sua integrazione in una dimensione simbolica, diventano estremamente problematiche tanto più che la privatizzazione delle appartenenze e delle connessioni non tarderà a tradursi nella frammentazione del corpo sociale, nella moltiplicazione conflittuale degli interessi particolari e in un inizio di deistituzionalizzazione. Nuove contraddizioni faranno presto comparsa, non più tra la società instaurata dalla classe borghese e alcune sopravvivenze dell’Ancien Régime, ma all’interno stesso di quella società borghese, ad esempio con la lotta di classe. La distinzione tra pubblico e privato, Stato e società civile, si accentua ulteriormente nel XIX secolo, generalizzando una appercezione dicotomica e contraddittoria dello spazio sociale. Il liberalismo, avendo esteso il suo potere, promuove già una «società civile» assimilata esclusivamente alla sfera privata e denuncia l’influenza «egemonica» del settore pubblico e dello Stato, il che lo porta a perorare la causa della fine del monopolio statale sulla soddisfazione dei bisogni collettivi e dell’estensione delle modalità di regolazione intersocietaria di natura mercantile. La «società civile» assume allora una dimensione in larga misura mitica. Definendosi sempre meno attraverso se stessa e sempre di più in contrasto con lo Stato, come rappresentazione dai contorni piuttosto vaghi di ciò che ad esso è teoricamente sottratto, essa appare nelle vesti di un operatore ideologico più che in quelle di una realtà precisa. A partire dalla fine del XIX secolo tuttavia sono state introdotte alcune modifiche alla logica puramente economica di regolazione e di riproduzione della società. Di conseguenza, tali modifiche, non sono più tanto il risultato delle resistenze conservatrici, ma piuttosto delle contraddizioni interne della nuova configurazione sociale. La stessa sociologia nasce dalla resistenza che la società reale oppone ai cambiamenti politici e istituzionali, al di fuori dell’invocazione di un «ordine naturale» da parte di coloro che denunciano il carattere formale e artificiale del nuovo modo di riorganizzazione sociale. Per i primi sociologi, l’ascesa dell’individualismo fa nascere una duplice paura: paura della «anomia» risultante dalla disgregazione del legame sociale in un Durkheim, paura di una «folla» formata da individui atomizzati e poi all’improvviso radunati in una «massa» incontrollabile in un Le Bon o in un Gabriel Tarde (entrambi tendono a ricondurre l’analisi dei fatti sociali a una «psicologia»). La prima di queste paure troverà un’eco soprattutto nei pensatori controrivoluzionari; la seconda sarà percepibile principalmente all’interno di una borghesia che si preoccupa prima di tutto di premunirsi contro le «classi pericolose». Sebbene il mercato fosse sostenuto e costituito dallo Stato nazionale, da quel momento in poi l’antagonismo tra il liberalismo e il «settore pubblico» andrà crescendo. I liberali non smetteranno più di tuonare contro lo Stato assistenziale, non comprendendo che è la stessa estensione del mercato a rendere inevitabili interventi statali sempre più vasti. L’uomo, la cui forza lavoro è abbandonata esclusivamente al gioco del mercato, è in realtà vulnerabile, perché può accadere che, sul mercato, la sua forza lavoro non trovi un acquirente, o addirittura che non valga niente. L’individualismo moderno, d’altronde, ha distrutto le relazioni organiche di prossimità, che erano innanzitutto relazioni di mutuo soccorso e di reciproca solidarietà, facendo scomparire allo stesso momento le vecchie forme di protezione sociale. Sebbene regoli l’offerta e la domanda, il mercato non regola le relazioni sociali; al contrario, le disorganizza, per il semplice fatto che non tiene conto dell’esistenza di una domanda non solvibile. L’espansione dello Stato assistenziale diventa allora una necessità, dal momento che esso è il solo a poter correggere gli squilibri più eclatanti, ad attenuare la miseria più evidente. E’ il motivo per il quale, come ha ben mostrato Karl Polanyi, ogni volta che il liberalismo è sembrato imporsi, si è paradossalmente assistito ad una recrudescenza di interventi statali resi necessari dai danni causati al tessuto sociale dalla logica del mercato. «In mancanza di una relativa pace sociale ottenuta grazie allo Stato assistenziale» osserva Alain Caillé «l’ordine del mercato sarebbe stato puramente e semplicemente spazzato via »26. Questa sinergia fra mercato e Stato ha caratterizzato a lungo (e continua, per certi versi, a caratterizzare) il sistema fordista. «La protezione sociale», conclude Polanyi, è «l’accompagnamento obbligato del mercato autoregolatore»27. Nella misura in cui i suoi interventi mirano a compensare gli effetti distruttivi del mercato, lo Stato assistenziale svolge in un certo modo un ruolo di “demercantilizzazione” della vita sociale. Tuttavia, non può sostituirsi integralmente alle forme di protezione comunitaria che si sono sgretolate sotto l’effetto dello sviluppo industriale, dell’ascesa dell’individualismo e dell’espansione del mercato. Rispetto a quelle antiche forme di protezione sociale, esso presenta in effetti alcune caratteristiche che sono altrettante limitazioni dei vantaggi che può apportare. Mentre le solidarietà di un tempo si basavano su uno scambio di prestazioni reciproche che implicava la responsabilità di tutti, l’assistenzialismo spinge alla deresponsabilizzazione e trasforma i membri della società in assistiti. Mentre solidarietà di un tempo si situavano all’interno di una rete di relazioni concrete, esso si presenta come un’invenzione astratta, anonima e lontana, dalla quale ci si attende tutto pensando di non doverle niente. La sostituzione delle vecchie solidarietà, immediate, con una solidarietà impersonale, esteriore e non trasparente, è dunque tutt’altro che soddisfacente. Al contrario essa è alle origini dell’attuale crisi dello Stato assistenziale, che per la sua stessa natura sembra votato a poter mettere in atto soltanto una solidarietà economicamente sterile, in quanto sociologicamente inadatta. Come scrive Bernard Enjolras, «superare la crisi interna dello Stato assistenziale presuppone, di conseguenza, il ritrovare le condizioni di produzione di una solidarietà di prossimità», che sono anche «le condizioni di una rifondazione del legame economico, al fine di restaurare la sincronicità fra produzione di ricchezze e produzione del sociale »28. * «Tutto l’avvilimento del mondo moderno» scriveva Péguy, «ossia tutta la svendita del mondo moderno, tutto l’abbassamento del suo prezzo, deriva dal fatto che il mondo moderno ha considerato negoziabili valori che il mondo antico e il mondo cristiano consideravano non negoziabili »29. Di questo «avvilimento» l’ideologia liberale porta su di sé una responsabilità rilevante, nella misura in cui si fonda su un’antropologia irrealistica e da essa deduce una serie di conclusioni errate. L’idea in base alla quale l’uomo agisce liberamente e razionalmente sul mercato non è altro che un postulato utopico, poiché i fatti economici non sono mai autonomi, bensì relativi a un determinato contesto sociale e culturale. Non esiste una razionalità economica innata; essa è solo il prodotto di un’elaborazione storico-sociale ben determinata. Lo scambio mercantile non è la forma naturale della relazione sociale, e tantomeno della relazione economica. Il mercato non è un fenomeno universale, bensì un fenomeno localizzato. Esso non realizza mai l’adeguamento ottimale tra domanda e offerta, non fosse altro perché prende in considerazione esclusivamente la domanda solvibile. La società è sempre qualcosa di più delle suoi componenti, così come la classe è sempre qualcosa di più degli elementi che la formano, perché è essa a costituirli come tali e ne è quindi logicamente e gerarchicamente distinta, come lo dimostra la teoria dei tipi logici di Russell (una classe non può essere membro di se stessa, così come nessuno dei suoi membri può, da solo, costituire la classe). In conclusione, la concezione astratta di un individuo disinserito, “decontestualizzato”, i cui comportamenti si baserebbero su anticipazioni strettamente razionali e che sceglierebbe liberamente la propria identità a partire dal niente, è assolutamente insostenibile. Al contrario, i teorici comunitaristi (Charles Taylor, Michael Sandel) hanno dimostrato l’importanza vitale per gli individui di una comunità che costituisce necessariamente il loro orizzonte, la loro episteme – fosse anche solo per costruirsi una rappresentazione critica -, tanto per la costruzione della loro identità quanto per la soddisfazione dei loro scopi. Il bene comune è la dottrina sostanziale che definisce il modo di vivere di questa comunità e dunque la sua identità collettiva. La crisi attuale proviene dalla contraddizione che va esasperandosi tra l’ideale dell’uomo universale astratto, con il suo corollario di atomizzazione e di spersonalizzazione dei rapporti sociali, e la realtà dell’uomo concreto, per il quale il legame sociale continua ad essere basato sui legami affettivi e sulle relazioni di prossimità, con il loro corollario di coesione, di consenso e di obblighi reciproci. A. B.
Note 1. Le désenchantement du monde, Gallimard, 1985, p. 77.
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