https://ilmanifesto.it/ 17.6.2018
La massima infelicità è un passatempo da ragazzi di Teresa Numerico
TEMPI PRESENTI. Un percorso di lettura, tra psicologia e sociologia, sui ventenni americani. Tra IPhone, social e depressione. Figli dei Millennials, detti anche Generazione Y, che erano nati tra inizio anni Ottanta e il 1996. Hanno paura dei sentimenti, del sesso, rifiutano il dissenso sociale. E aumenta il numero di suicidi
Il nuovo libro della psicologa Jean M. Twenge dal titolo Iperconnessi (Einaudi, pp. 400, euro 19), si cimenta nel tentativo di comprendere i giovani della IGeneration, o Generazione Z americana, il gruppo demografico che viene identificato dalla ricerca sociologica – sia pure non ancora precisamente – come quei ragazzi nati dal 1997 in poi, che avevano al massimo 4 anni all’epoca dell’attentato alle torri gemelle di cui non conservano un ricordo diretto.
SONO I GIOVANI che vengono dopo i Millennials, detti anche Generazione Y, che erano nati tra inizio anni Ottanta e il 1996. La tesi dell’autrice è che si tratti di un gruppo identificato dall’uso dell’IPhone che arrivava sul mercato quando i più vecchi del gruppo avevano circa dieci anni. Attraverso una grande messe di dati quantitativi, giornali universitari e altre pubblicazioni specializzate, oltre a un numero considerevole di interviste qualitative in profondità, Twenge li descrive con l’obiettivo di fornire una spiegazione dettagliata delle ragioni che li spingono ai loro comportamenti. La tesi generale è che questi nuovi ragazzi siano meno sociali, meno inclini a crescere, ma anche più tolleranti, più concreti e più preoccupati di ottenere il successo economico di quanto non fossero i loro predecessori, i Millennials o il gruppo della Generazione X, costituito in larga misura dai loro genitori. Il collegamento diretto che Twenge segnala è tra l’essere una generazione iperconnessa, che usa massicciamente dispositivi smart e la diminuzione del tempo dedicato agli incontri faccia a faccia, ad andare alle feste, ma anche a leggere libri o altri prodotti editoriali, a fare sport, a dormire e che soprattutto manifesta una grande fragilità emozionale che comporta una minore propensione ai rischi e a ogni genere di avventure.
L’ANALISI si pone in contrasto con le idee di altri sociologi e psicologi che discordano con la messa in relazione dell’uso dei dispositivi social con una minore disponibilità agli incontri faccia a faccia. Per esempio danah boyd (scrotto in minuscolo per volere dell’autrice, ndr) nel suo recente It’s complicated (Castelvecchi) assume che i giovani più popolari online siano più sociali anche negli incontri di persona. Twenge segue la tesi già proposta da Sherry Turkle in Insieme ma soli (Codice, 2012), a proposito della difficoltà di affrontare le emozioni direttamente e quindi lo schermo diventa come uno strumento per attutire sentimenti, solitudine o rifiuto che però produce un esito contrapposto alla strategia difensiva. Il disagio mentale è in aumento soprattutto tra i membri più giovani del gruppo studiato, con una decisa diffusione dei sintomi di depressione maggiore, oltre a un dilagante sentimento di non sentirsi a proprio agio e di non essere felici. La psicologa ipotizza che l’aumento di sofferenza psichica sia da ricollegare alla disponibilità massiccia di telefoni smart e che sia da mettere in relazione direttamente con il loro uso da parte di giovani e giovanissimi, forse spingendo un po’ troppo sull’acceleratore del determinismo tecnologico, nell’automatismo tra causa tecnologica ed effetto depressivo, in favore del quale è costruita gran parte delle argomentazioni.
LE RELAZIONI social senza scambio diretto non contribuiscono alla costruzione di forti legami interpersonali, rassicuranti e quindi – suggerisce l’autrice – il fatto che si siano ridotti i tempi degli incontri di persona, la lettura di prodotti editoriali, la quantità di sonno induce una diminuzione del tasso di felicità, del sentimento di sicurezza e del senso di appartenenza. Tra i dati che Twenge porta a sostegno della sua tesi segnaliamo l’aumento di suicidi e tentati suicidi tra i giovani e soprattutto tra i giovanissimi, pur nel contesto di una forte diminuzione del tasso di violenza e aggressioni tra i giovani. Dopo una diminuzione notevole negli anni Novanta, la tendenza ha ripreso a salire a un ritmo vertiginoso. La presenza di «genitori elicottero», genitori stressati e oppressivi che riducono autonomia e sicurezza in se stessi è un altro elemento che contribuisce all’aumento di insicurezza, che sembra spingere i giovani alla ricerca di aree sicure (safety areas) anche al college, forse un tentativo di riprodurre la protezione casalinga. SEBBENE sia utile evitare rischi reali, sembra assurdo reclamare aree sicure di fronte a un conferenziere che non la pensa come noi. Come se il rischio di subire una ferita emozionale fosse talmente minaccioso, da non riuscire a vederne nemmeno il ridicolo e l’assurdo. Non si articola il dissenso, si grida allo scandalo nei confronti della manifestazione concreta dell’alterità, sebbene la generazione sia in assoluto quella più tollerante rispetto alle precedenti sull’orientamento sessuale, sulle differenze etniche ecc. L’individuo e la manifestazione della sua identità singolare sono accettati, a patto che non si mettano a discutere con noi sulle nostre convinzioni e chiedano di aprire un dibattito. Un altro dato originale riguarda i giovani e il sesso. Sebbene i costumi siano molto liberali negli Stati Uniti, il numero di giovani che hanno fatto sesso prima dei diciassette anni è diminuito rispetto ai Millennials, e in generale risulta inferiore la quantità assoluta di rapporti sessuali. Per questo dato la studiosa segnala due possibili spiegazioni.
LA PORNOGRAFIA trasforma la percezione della vita sessuale e non riproduce la situazione concreta del sesso tra compagni, che finisce per essere considerata deludente o comunque non abbastanza gratificante, come invece lo sono, in apparenza, quelle dei video porno sempre a portata di adolescente. Inoltre è diminuita l’importanza dei legami sentimentali, troppo impegnativi e distraenti dall’obiettivo del successo economico.
SECONDO UN ALTRO LIBRO appena uscito, scritto da due noti epidemiologi sociali, Richard Wilkinson and Kate Pickett (The inner level, Allen Lane), il disagio psichico è invece strettamente collegato ai livelli di diseguaglianza della società, raggiungendo ormai vette altissime in UK e US che sono tra i paesi al mondo dove più marcata è la differenza tra ricchi e poveri. Leggendo insieme i due testi si potrebbe ipotizzare che, mentre da piccoli tutti soffrono della fragilità emotiva dell’adolescenza, diventando adulti il disagio resta altissimo in quegli strati della popolazione che sono respinti ed esclusi dalle classi più agiate, mentre si attenua negli altri. Pur avendo tentato duramente di essere accolti nei ceti medio-alti, magari investendo in un debito universitario ingente, quelli che non riescono a raggiungere il benessere, unico obiettivo che percepiscono come vitale, si sentono schiacciati e interpretano la propria condizione in termini di fallimento e sconfitta. Cibo per la mente per la riflessione politica e sociale.
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