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21 aprile 2018

 

Sull’abbandono dell’essere

di Flores Tovo

 

PREFAZIONE

Da studi fatti da eminenti filologi, tra cui il famoso e compianto Tullio di Di Mauro, si è scoperto che il liceale medio italiano (e potremmo aggiungere anche tutti gli studenti liceali  del pianeta) quando giunge all’esame di stato conosce il significato di oltre metà di parole in meno rispetto a un suo collega di 50 anni fa. Questo vuol dire che c’è stato un enorme impoverimento della conoscenza del linguaggio con cui si parla. Ora, citando Heidegger, il linguaggio è “la casa dell’Essere”. Questo vuol dire che la nostra personalità, il ciò che siamo, cioè il nostro stesso pensiero, che si può esprimere solo mediante il linguaggio. Meno parole si conoscono più c’è povertà d’essere. Assieme a questo impoverimento del linguaggio, si osservano contemporaneamente il degrado dell’arte che si è separata da molto tempo dal bello, il declino del sapere filosofico speculativo che ha lasciato il posto all’epistemologia, cioè ad una filosofia della scienza che non dice nulla sulla vita degli uomini, e inoltre alla distruzione di una qualsiasi forma di etica che rappresenti il bene comune, per finire all’eclissi inesorabile del sacro. Tutto questo indica che la nostra capacità di pensare e di creare si sta esaurendo e ci sta conducendo verso un baratro di cui non conosciamo il fondo.

Ora, al di là di vari concetti categoriali o metaforici che si possono usare quando si pensa o si discute sull’Essere, possiamo dire che Esso, essendo intriso in sé di tempo e pensiero, si rivela e ci parla sempre attraverso gli eventi storici, secondo la tradizione dei diversi popoli. L’Essere, che come Evento si è palesato nella storia degli uomini come Autocoscienza e come temporalità, lo si trova quindi nelle comunità e nello spirito dei popoli stessi. Lo scritto che presentiamo tratta del perché l’Essere ci ha forse definitivamente abbandonati.

Questo abbandono è caratterizzato, secondo Heidegger, che è il filosofo a cui si fa riferimento in questo saggio, dall’imposizione del dominio della tecnica. Vediamo un suo brano chiarissimo:

“Un dominio, che si mostra già, in tutti gli ambiti vitali…come funzionalizzazione, perfezione, automatizzazione, burocratizzazione, informazione” (1).

Il “Das Gestell”, il Dispositivo o Imposizione tecnica, applicato in ogni sede dell’agire umano che va dalla scuola agli ospedali, alle fabbriche e così via,  è talmente penetrato nel e col modo di produzione capitalistico tanto da esserne in perfetta simbiosi.  Si ha così la razionalità calcolante al servizio del profitto.

Questo enorme evento epocale genera però un evento ancor più decisivo per le sorti dell’umanità: l’Essere sempre più dimenticato dagli uomini decide di abbandonarli con conseguenze che saranno, possiamo già intravederlo, assolutamente catastrofiche. Già ora non controlliamo più la dismisura (l’hybris greca”) in nessun campo fondamentale per la nostra sopravvivenza: assistiamo alla pandemia demografica, all’inquinamento dei mari e del taglio delle foreste, all’esaurimento delle risorse, all’incitamento della crescita e così via senza poter arrestare tale scempi. Fichte scriveva profeticamente che l’epoca in cui viviamo è l’epoca in cui v’è l’esaltazione dell’individuo che si pone al di là di ogni legge o costrizione e in cui la menzogna regna sovrana. Altri, rifacendosi alle Upanishad, vedono in quest’epoca l’avvento dell’età oscura, del Kali Yuga. In realtà l’abbandono dell’Essere è avvenuta lentamente, per trovare poi una accelerazione nel Novecento, con il porsi della mobilitazione totale (fenomeno studiato per primo da E. Jünger) che si manifesta con l’introduzione della catena di montaggio e del nastro trasportatore. Una applicazione che poi verrà estesa a tutto il ciclo produttivo e burocratico, che Heidegger chiamerà appunto “Das Gestell”: dal quel momento tutto tenderà all’uniformità e al calcolo. Col trionfo del regno della quantità e del numero, per dirla con Guènon, ci si allontanerà sempre più dall’unità principiale, che è appunto l’Essere, e il Pensiero che si era eventualizzato nella storia umana svanirà a poco a poco con l’abbandono dell’ente umano che ci trascinerà verso un probabile avvenire di deliquio e follia.

 


Nota:

HEIDEGGER, Identità e differenza, p. 66, ed. Adelphi, Milano 2009.

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SULL’ABBANDONO DELL’ESSERE

Il significato etimologico della parola abbandono è assai controverso: si va dal francese provenzale “a bàndon” che può significare vendere, disporre alla mercè, o anche mettere in balia qualcosa o qualcuno, e sia dal tedesco “ab-handen” che significa “fuori di mano”, che implica il cessare di tenere qualcosa con la mano (hand uguale mano) e di lasciarlo andare. Tuttavia il prefisso ab è molto chiaro: esso indica separazione, ossia separazione dal bando o dalla bandiera. L’abbandono è quindi diserzione, rinuncia e perdita di un legame.

In questo scritto ci si occuperà dell’abbandono dell’Essere verso l’esserci (l’uomo come ente), cioè della rottura della coappartenenza fra il principio della manifestazione e l’uomo. In genere l’abbandono comporta un grave momento di sofferenza per ognuno di noi, come per esempio quando si vive la fine di un amore, oppure la morte dei nostri cari o di amici fraterni. Ma l’abbandono di cui si va a scrivere è l’abbandono nella sua essenza: l’abbandono decisivo (Gelassenheit). Il filosofo che più si occupato di questo tema è stato senza dubbio Martin Heidegger, il cui pensiero, a riguardo, si cercherà di commentare. Già abbiamo scritto un breve saggio su questo pensatore attorno all’oblio dell’Essere (Seinvergessenheit) (1), in cui si esaminava il suo discorso filosofico  sulla vicenda spirituale su come l’Essere, a causa della pretesa “superomistica” di conoscerlo perfettamente, sia stato di fatto dimenticato dall’esserci umano, sebbene anche l’oblio dell’Essere, scriveva Heidegger, fosse esso stesso pur sempre una modalità della manifestazione dell’Essere: ossia l’Essere, in quanto principio superiore, e comunque  legato agli enti in generale, ha “concesso” all’esserci la libertà nel corso della sua vicenda storica della sua stessa dimenticanza. Un oblio da cui si è originato il nichilismo assoluto a livello di rapporti umani, dovuto precipuamente al dominio della tecnica. Infatti la tecnica moderna (2), che tutto omologa e razionalizza meccanicamente, esprime il massimo compimento della dimenticanza nei confronti dell’Essere.

Heidegger con queste affermazioni, di fatto, “non incolpava” del tutto l’esserci umano di distogliersi dall’Essere dimenticandolo, poiché, essendo l’esserci un ente finito e limitato, era ed è, per quanto privilegiato nel suo rapporto, pur sempre subordinato ad Esso. Alla fin fine l’esserci sembrava che venisse “assolto” proprio per questo. Tuttavia il pensiero di Heidegger su questa questione di straordinaria importanza fu alquanto incerto. Infatti, in alcune sue pagine presenti nel suo libro su “Nietzsche”, egli si interrogava sulla possibilità che l’Essere ci abbandoni definitivamente, venendo così a cessare quel rapporto di coappartenza, considerato prima necessario, che, come fondamento esistenziale, era all’origine del pensiero pensante degli uomini.

Ora bisogna ricordare che per questo filosofo l’Essere, proprio come principio di manifestazione universale, è indefinibile, come aveva ben compreso Hegel nella sua “Scienza della logica”, in quanto principio generalissimo e supremo rispetto agli enti, e così pure il  Non-essere con cui si compenetra: infatti Heidegger, quando ne parla, usa concetti-metafora come “Lichtung” (radura luminosa), “Ereignis” (evento), “Sprache” (linguaggio) e “Zusammengörigkeit” (coappartenenza). Ma, al di là di queste intuizioni o vedute prefigurative, che restano pur sempre stimolanti indicazioni di ricerca filosofica, si può dire che, in generale, per Heidegger l’Essere è l’insieme di pensiero-tempo-non-essere. Un insieme composto da attributi fondamentali che gli sono propri e che sono intrinsecamente connessi pur nelle loro differenze: se il pensiero è il lògos, il tempo è l’intuizione originaria della trasformazione a cui tutti gli enti sono sottoposti, e il Non-essere che altro non è che il principio della non-manifestazione, ossia della cessazione della vita degli enti che consente la nascita di altri enti. In senso ancor più ampio, si ha che quando l’Essere si eventualizza,  crea un imprescindibile legame con la storia umana e le sue comunità, e pure con la natura, intesa come physis, cioè natura vivente.

In questo scritto comunque non ci si soffermerà su una spiegazione approfondita di tali concetti-metafora. Il tema che si andrà ad esaminare è invece quello dell’abbandono dell’Essere nei confronti dell’esserci.

Un abbandono che si attua quando l’oblio dell’Essere diventa dimenticanza totale. Gli annunci di Hölderlin della fuga del Dei dal mondo (vedasi il poemetto Pane e vino) o della morte di Dio di Nietzsche, erano segnali profetici che svelavano l’avvento del nichilismo, caratterizzato dal rifiuto della Trascendenza, ossia dell’allontanamento dal Principio primo, che va a segnare il trionfo del relativismo all’interno di una umanità che abdica a una qualsiasi forma di verità che non sia quella di un lògos calcolante matematico-scientifico. Una condizione totalizzante e pervasiva che è, ormai, la cifra, il contrassegno della nostra epoca che  è penetrato nella vita di tutte comunità del pianeta. L’abbandono, invero, ha implicazioni talmente gravi che ancora non ne comprendiamo la portata. Riportiamo un brano heideggeriano che riteniamo illuminante per comprendere la drammaticità in cui le nostre esistenze stanno prolassando:

“Giungendo a tal punto di rimanere assente, l’Essere si dota del pericolo che la necessità -come tale necessità esso, necessitando, è essenzialmente presente – non diventi mai storicamente per l’uomo quella necessità che è. All’estremo, la necessità dell’Essere diventa la necessità dell’assenza di necessità” (3).

L’uomo durante il suo percorso storico è sempre stato in un rapporto di coappartenenza con l’Essere. Anzi, egli è sempre appartenuto all’Essere. Questi si è dato per una sua necessità all’uomo, in quanto senza un ente che lo pensasse, o lo adorasse o lo custodisse, non avrebbe potuto rivelarsi, sia pure in forma di dono, di verità o come estasi o temporalità. I primi grandi pensatori greci Anassimandro, Eraclito e Parmenide colsero con la loro profonda intuizione il senso della verità rivelata (alethèia) nel lògos (il pensiero autocosciente), ben sapendo che il lògos umano era ben più debole di quello divino per via di una differenza ontologica insuperabile, poiché l’Essere è il Principio, mentre l’uomo è solo un ente. Ma se l’Essere, “donandoci” il pensiero, ci ha fatto un favore, anche l’uomo, divenuto un “esserci coappartenente”, lo ha fatto nei confronti dell’Essere, poiché senza l’esserci non c’era nessun altro ente poteva amarlo o pensarlo o configurarlo. Bisogna precisare che questo privilegio dato all’esserci non implicava l’antropocentrismo, fenomeno culturale che secondo Heidegger nasce con Platone, e si potenzia col Cristianesimo (l’uomo immagine e somiglianza di Dio). L’Essere, quindi, rivelando all’uomo la possibilità della verità e del pensiero, si è “eventualizzato” nella storia stessa. Per cui Esso è l’Evento che ha dato il via alla storia umana. Evento che significa sia caduta nel tempo (un qualsiasi evento avviene sempre nel tempo), sia nascita del pensiero. Hegel dirà, con altre parole, che sarà lo Stato a segnare l’ingresso di dio nella storia, uno Stato reso possibile nella sua concretezza dall’evento del pensiero autocosciente (famosa, a riguardo, la figura del “Servo e del Signore”). Ora, se si ritorna al brano sopracitato, si può notare come il perpetuarsi dell’oblio dell’Essere nella dimensione esistenziale propria dell’esserci, comporti l’abbandono dell’Essere nei confronti dell’esserci soprattutto nell’Occidente. All’oblio subentra  l’abbandono. L’Essere, quasi sempre dimenticato, a causa del fatto che l’esserci nella sua pretesa di onnipotenza ha cercato di sostituirsi a lui, non avverte più la necessità di rivelarsi nell’ente umano: anzi si assenta da questa necessità. L’Essere lascia in balia di se stesso l’esserci, che quindi diventa un semplice Ci.  L’abbandono è il sottrarsi, il ritirarsi dall’uomo. Un evento che è altrettanto grandioso di quello iniziale. Se all’inizio l’Essere si era manifestato  come temporalità e come autocoscienza pensante che viene fatta propria dall’esserci, alla fine si osserva l’illanguidirsi, seppur lento, del pensiero stesso, e così pure la perdita del senso della temporalità col dileguarsi della protensione verso il futuro (che è la dimensione temporale originaria). Ne consegue, infine, l’estinzione del sentimento dell’incanto o dell’estasi che pervadevano sia il pensiero e la temporalità, che si palesavano precipuamente nella dimensione del sacro, dell’arte e della filosofia.

A tal proposito Heidegger scrisse già nella seconda metà degli anni ’30 del Novecento pagine profetiche per il periodo della loro stesura, e soprattutto straordinarie ed inquietanti nel comprendere le cause che hanno segnato l’inizio dell’abbandono dell’Essere nei confronti dell’uomo (4). Assai significativo è il brano che riportiamo.

“Abbandono dell’ente da parte dell’Essere: il fatto che l’Essere si è ritirato dall’ente e che l’ente (cristianamente) è diventato soltanto ciò che è stato creato da un altro ente. L’ente supremo, in quanto causa dell’ente, ha assunto l’essenza dell’essere. Questo ente, un tempo creato dal Dio Creatore, è poi divenuto un artefatto dell’uomo, nel senso che ora l’ente è assunto e dominato nella sua oggettività… l’ente è a tal punto accecato da ciò che è oggettivo e ha il carattere della macchinazione che ormai l’ente gli si sottrae; tanto più si sottraggono l’Essere e la sua verità…” (5).

Con queste parole Heidegger intende dire che quando l’uomo si è creduto antropologicamente privilegiato, in quanto creato ad immagine e somiglianza di Dio (il Dio cristiano), di fatto si è creduto lui stesso Dio. In questa illusione epocale, che sotto certi aspetti potremmo definire demoniaca (il peccato originale nasce in realtà implicitamente col Creazionismo, quando l’uomo Adamo, il prediletto, desidera diventare Dio), si attua la sottrazione vera da parte dell’Essere e quindi della verità che ci donava. Il suo abbandono  implica, di conseguenza,  il completo oblio e la rovina della verità. La necessità dell’Essere di “incarnarsi” nell’ente umano svanisce e quindi di Esso non rimane più nulla, mentre dell’esserci rimane solo il Ci.

A questo punto sorge la domanda: come è stato possibile tale ritiro? Quali avvenimenti lo hanno causato? Heidegger, in questo libro, li individua nella crescente valenza invasiva del calcolo, della velocità, e dalla pretesa di ciò che ha il carattere della massa, con la conseguente denudazione, pubblicizzazione, generalizzazione di qualsiasi stato d’animo. Tutti fenomeni sociali che comunque fanno riferimento al “Gestell ”, cioè a quel Dispositivo o Imposizione tecnica omologante e livellatrice che si è imposta all’interno del modo di produzione e riproduzione capitalistico (6).

Il calcolo, dice Heidegger, è eretto al potere dalla macchinazione tecnica, la quale si fonda epistemicamente nel sapere matematico. Il ragionamento calcolante non si domanda mai  cos’è l’essenza della verità. Esso descrive numericamente la realtà, riducendola a pura quantità misurabile. Ed è inutile qui riportare i limiti enormi di questa dimensione dell’essere puramente quantitativa: pagine chiarissime e fondamentali sono state scritte da Pascal nei suoi “Pensieri”, da Hegel nella “Scienza della logica” nella prima parte riguardante l’Essere, o in Guènon nel suo “Il regno della quantità e il segno dei tempi”. Il calcolo comporta il trionfo dell’organizzazione, che costituisce l’impedimento per il raggiungimento di una qualsiasi trasformazione radicale che cresca liberamente (7). La celerità, invece, è una distorsione temporale, che spinge l’uomo moderno a correre sempre più per raggiungere “obiettivi” sotto il segno dell’efficienza o del profitto. Essa implica il “…rapido dimenticare e lo smarrirsi in ciò che è prossimo” (8). La persona perde se stessa poiché la riflessione su di sé, riguardo il proprio tempo vissuto, si disperde con la velocità nel vuoto che come tale sempre se ne va (9). L’irrompere, poi, di ciò che ha il carattere della massa celebra il “trionfo” del gigantesco numerico e della sua celerità dovuta alla mobilitazione totale del lavoro (in Cina, per esempio, le folle delle grandi città camminano a velocità doppia rispetto 30 anni fa). La massa diventa una folla solitaria  (così la battezzava David Riesman), che non ha nulla di sociale, perchè è composta da individui atomizzati, come si può appunto riscontrare nelle megalopoli.

A queste tre componenti socio-esistenziali che conducono all’occultamento dell’Essere, si aggiunge come corollario un quarto elemento che, “riferito a tutti e tre, assume in sé in maniera evidente la contraffazione e il travestimento della rovina interiore” (10). Questo elemento, come si diceva, è la denudazione, la pubblicizzazione, e la generalizzazione di qualsiasi stato d’animo. Tutto diventa chiasso, falsità, ostentazione. La pubblicità, strumento di propaganda della forma di produzione capitalistica, invade qualsiasi aspetto della comunicazione planetaria (pare che ci somministrino in modo più o meno subdolo almeno 3.000 spot al giorno), e per questo si presenta come l’essenza  mercantile del deterioramento della verità. La vendita di una merce deve essere sempre presentata in modo affascinante, e perciò distorto, per convincere il consumatore. Tutto diviene falso. Una falsità che raggiunge ogni aspetto della vita sociale, a partire dalla politica, per poi arrivare ai rapporti umani più comuni. La verità si decompone e svanisce, come diceva Nietzsche, che  aveva previsto il trionfo del nichilismo nel mondo odierno.  Con ciò egli si propone perciò come il filosofo “più attuale”: il mondo è caos in cui solo la volontà di potenza è la regola generale. Non è vero ciò che è vero, ma ciò che si impone come vero. E qui, in questa profezia avveratasi, sta la tragedia e il naufragio del pensiero nicciano: il super-uomo nichilista perfetto di oggi non è l’artista o il creatore come egli pensava che fosse, bensì il banchiere e il Tecnico al suo servizio (e viceversa).

L’abbandono dell’Essere sancisce in modo incontrovertibile il declino dell’uomo. Tutte le sue attività superiori che lo innalzavano verso il pensiero profondo, verso il sentimento più nobile, e verso la creatività, lentamente scompaiono per essere sostituite da una macchinazione tecnica impostata precipuamente dal pensiero calcolante.

Tuttavia  il pensiero umano nel corso della storia non si è manifestato solo come pensiero meccanico calcolante: se si fa riferimento ad Aristotele comprendiamo che il lògos è polivoco, nel senso che esiste un lògos che si esplica nelle varie attività umane in modo differente. L’arte (tèchne), scriveva Aristotele, è la capacità, accompagnata da ragione, di produrre un qualche oggetto. La saggezza (phrònesis) è la capacità, congiunta a ragione, di agire convenientemente nei confronti dei beni umani. La sapienza (sophìa) è la capacità, attraverso il pensiero teoretico (theorìa), di cogliere i principi primi delle varie scienze, e di domandarsi sulla loro verità. Kant ribadì, in modo ancor più ampio,  che il sentimento estetico pensa, e che la morale senza guida della ragione conduce al male metafisico. Ed Hegel, di suo, aggiunse che solo la ragione speculativa (la logica dialettica) può cogliere l’unità del tutto.

Da molto tempo si assiste  alla scomparsa del bello, del bene, del domandare profondo:  l’abbandono dell’Essere sta proprio in questa scomparsa.

Ci si domanda allora che cosa potrà succedere al Ci umano senza l’Essere. Gli effetti sono già chiarissimi: l’arte si è separata dal bello, trasformandosi in forme degenerate di esibizioni pratiche spesso volgari che vogliono sorprendere o sbalordire. La pittura,  espellendo l’elemento figurativo, architettonico e plastico diventa puro geometrismo cromatico, astrazione pura;  la rinuncia della rappresentazione e del significato sia nella scultura che nella poesia conduce alla follia dell’insensato; lo strimpellio disarticolato della musica dodecafonica testimonia il suo disordine assordante. E alla fine di questo deliquio si trovano solo cialtroni ed impostori che si spacciano per artisti.

L’etica, come ricerca del bene comune, che cerca di individuare i valori positivi per l’esistere umano, rispetto a quelli negativi, è di fatto scomparsa. Il fraintendimento del pensiero nicciano è stato totale: Nietzsche infatti  si ergeva a paladino di una morale  che si poneva al di là del bene e del male, e tuttavia, come ebbe a scrivere nella “Genealogia della morale”, si dichiarava spinoziano, o ancor meglio seguace di Giordano Bruno, il quale esaltava i valori vitali, quali la creatività, la generosità, la benevolenza, la fatica, la disciplina. Nello stesso tempo Nietzsche denigrava i valori cristiani, considerati da Spinoza “vituperati”, in quanto la compassione, l’umiltà, il pentimento deprimevano la volontà di potenza e quindi erano comportamenti antivitali. C’era quindi nel filosofo una netta demarcazione fra bene (ciò che accresce la voglia di vivere) e male (ciò  la che deprime), sebbene il super-uomo si ponesse al di sopra della comunità. Se si osservano i costumi morali delle attuali società occidentalizzate, si riscontra che su nessun aspetto etico c’è più nessuna differenza fra bene o male. La menzogna si afferma nei vertici delle società politiche e dirigenziali con una veemenza radicale, quasi come se si esaltasse una verità assoluta. L’avidità, la spietatezza, la concorrenza sleale, il vilipendio, la calunnia sono comportamenti accettati dai più. I guadagni spropositati di alcuni sono l’esempio a cui aspirare per i molti e non destano più riprovazione.

La filosofia, che è il pensiero profondo che si interroga sui fondamenti, ossia sui perché primi, è diventata ormai una ancella della scienza fisico-matematica, pura epistemologia. Come se questa fosse in grado di dirci qualcosa sul nostro esistere, sui nostri sentimenti, sul nostro pensare. Infine il narcisismo, il desiderio di essere diversi dagli altri senza aver nessun merito o qualità, aggiunto alla noncuranza e all’indifferenza verso tutto ciò che è comunità, provano la inconfutabilità dell’abbandono dell’Essere. L’unico lògos che ancora ci appartiene è quello calcolante, che però è astratto e che non dice nulla attorno alla vita e alla morte. Le altre forme di pensiero si sono dileguate. Che ne sarà allora del Ci senza essere?

Bisogna prima precisare che per Heidegger l’Essere non è Dio, poiché non plasma in senso platonico e non crea il mondo in senso biblico. Esso è il principio di manifestazione che consente agli enti di esistere. Per questo motivo l’Essere è finito, proprio perché è il principio della manifestazione di enti finiti. Per tale motivo  Dio, l’Infinito assolutamente Trascendente, può manifestarsi come divinità solo nella dimensione dell’Essere, precisamente nella dimensione dell’Evento storico. L’abbandono dell’Essere porta perciò l’umanità al completo smarrimento, alla perdita dell’Autocoscienza e quindi all’assenza del sentimento religioso cioè, come si diceva, del sacro, del bello e del bene.

La filosofia heideggeriana diventa la descrizione del naufragio dell’umanità scritta su un giornale di bordo (11). Tuttavia questo grande pensatore riteneva che “…quanto più ci si avvicina al pericolo, tanto più chiaramente cominciano ad illuminarsi le vie verso ciò che salva” (12). In realtà egli approdò, verso la fine del suo percorso, alla convinzione che “ormai solo un dio ci può salvare”.  Frase che poi sintetizza il suo ultimo scritto apparso sulla rivista tedesca “Der Spiegel” nel 1976 (un testo che in realtà era il riassunto di una intervista fatta da Richard Wisser nel 1969). Questa frase è diventata poi famosissima come emblema dello scacco del pensiero filosofico, in cui si annuncia il ritiro per impotenza da qualsiasi forma di azione pratico-teoretica con la conseguente consegna alla rassegnazione spirituale. E’ vero che Heidegger riteneva pur sempre necessario il domandare, ma il suo pensiero si disperdeva in una vaga nebulosità, sebbene nei “Contributi” egli si soffermasse sulla visione di un ultimo Dio.

Questo ultimo Dio, dice Heidegger, sarà diverso rispetto agli dèi già stati, specie rispetto al dio cristiano. Ci saranno, prevede il filosofo, uomini venturi che prepareranno l’avvento dell’ultimo dio (13). Questi venturi (die Zukünftigen) saranno coloro comprenderanno che “…nel ritegno disposto al sacrificio, giunge il segno e il capitare dell’allontanarsi e dell’avvicinarsi dell’ultimo Dio”(14). In un sussulto ottimistico Heidegger afferma che la massima vicinanza dell’ultimo Dio avviene tanto più si intensifica il rifiuto di Dio: sembra quasi che egli, contraddicendosi, aderisca alla concezione teologica del cristiano-luterano Dietrich Bonhoeffer, il quale riteneva che tanto più Dio è impotente nel senso che ci ha abbandonato, tanto più Dio è vicino a noi. Un Dio che non è un Tappabuchi provvidenziale pronto per l’uso quando soffriamo, ma che si rivela proprio quando ci abbandona. Certo, secondo Heidegger, finchè non si riaprirà la via verso la verità dell’Essere, sconfiggendo la menzogna peccaminosa del nostro attuale periodo storico nessun Dio ci potrà salvare. Dio “aspetta” questa rifondazione della verità, e se questo non accadrà,  non ci potrà essere nessun nuovo Evento. Egli quindi sottintende che solo con la rinascita di nuova metafisica, che ripristini un nuovo rapporto con l’Essere, ciò sarà possibile. In altre parole è implicito che si aspira al ritorno alla Tradizione antica fondata sulla comunità e sulla sacralità della natura.

 

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Note:

TOVO Flores, Sull’oblio dell’essere, Ereticamente 29-9-2015.

IDEM, Tecnica e nichilismo, Ereticamente, 8-2-2015.

HEIDEGGER, Nietzsche, p.856, ed. Adelphi, Milano 1994.

IDEM, Contributi alla filosofia (Dell’evento), pp.130-160, ed. Adelphi, Milano 2007.                      IDEM, op.cit., p.131.

IDEM, La questione della tecnica, sta in “Saggi e discorsi” pp.5-27, ed. Mursia, Milano 1993.

IDEM, Contributi… cit., p.139.

IDEM, cit., p.140.

HEIDEGGER, op. cit., p.141.

Si veda: D. FUSARO, Essere senza tempo, ed. Bompiani, Milano 2010.

HEIDEGGER, Contributi…cit., p.141.

Si veda: F. VOLPI, Heidegger e Aristotele, ed. Laterza, Bari 2010.

HEIDEGGER, La questione… cit., p.27.

TOVO Flores, Gli uomini venturi, Ereticamente, 3-10-2012.

HEIDEGGER, Contributi, cit., p.387.

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Opere consultate:

ANDERS, L’uomo è antiquato, vol. I e II, ed. Bollati Borighieri, Torino 2015.

GUENON, Il regno della quantità e il segno dei tempi, ed. Adelphi Milano 1982.

HEIDEGGER, Segnavia, ed. Adelphi, Milano 1987.

IDEM, Ormai solo un Dio ci può salvare, sta in “Risposta a colloquio con Martin Heidegger”, Guida Editori, Napoli 1992.

 

Fonte: Comedonchisciotte.org

21.04.2018