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http://www.lintellettualedissidente.it 19 marzo 2018
La fine di tutte le cose? di Luca Negri
La vittoria islamica in Europa prevista da Nostradamus, i due papi di Katharina Emmerick, la fine dell'Occidente di Spengler: studiare le profezie e le previsioni può diventare oggi un ottimo esercizio per comprendere quali ansie agitino il presente.
Non a pochi pare che i tempi ultimi d’Occidente abbiano espresso un rinnovato sentimento di finimondo, resa dei conti, apocalisse. Certo avranno pesato parecchio gli archetipi del tempo e della distruzione ciclici, col transito tra i due millenni, come accadde col sentire del “Mille e non più Mille”, che parrebbe non storicamente fondato ma significativo appunto in quanto archetipo, leggenda. Le stesse vicende storiche hanno rincarato la dose con torri che crollano al centro dell’Impero, migrazioni di massa, clima imbizzarrito, minacce atomiche irrobustite. Se il tempo è ciclico, dalle rovine potrebbe sorgere un mondo nuovo e migliore, e se fosse invece lineare e a termine, pressa l’interrogativo sul dopo, sulla natura di ciò che non è tempo, che ne è fuori, altrove: il Non Essere nella sua paradossale essenza o la pura coscienza atemporale, Dio.
I profeti che dicono di aver visto qualcosa del futuro indirizzano verso la seconda ipotesi, taluni si spingono fino ad identificarla con la prima. Ma non è necessario essere credenti per immergersi ne l’immaginazione profetica esplorata da Alfonso Piscitelli in Profezie e previsioni per il XXI secolo (Solfanelli editore). Perché se sentiamo di attraversare tempi bui, o vorremmo semplicemente una società, una civiltà, più dignitosa, è bene studiare e ragionare sui profeti di disgrazie, sul peggio che pare non aver mai fine, sulla degenerazione, sull’entropia evolutiva e storica. Nel caso anche sorretti dalla fede nella Gerusalemme Celeste o dalla fiducia riposta nei sacri testi e nelle leggende indoeuropee. Se siamo nel Kali Yuga, l’età ultima del ciclo, la più degenerata e lontana dal Principio, il peggio avrà la sua fine, dopo il suo culmine. Forse proprio qui in Occidente, dov’è cominciata, suggeriva Julius Evola, finirà prima mentre l’Oriente deve ancor farne di strada per dare del suo peggio.
Ma l’Età del Ferro cantata da Esiodo e da Ovidio non può che autodistruggersi, demolirsi, sgretolarsi, atomizzarsi. E tornerà poi l’Età dell’Oro, il Satya Yuga, Saturnia Regna dell’egloga virgiliana, Regno di Cronos, dove ci sarà un tempo altro perché il Re stesso è il tempo mentre quello che noi conosciamo e sperimentiamo quotidianamente è già tempo di Zeus. Dunque studiando le apocalissi si coltiva anche l’ottimismo della volontà e Piscitelli ci mette di suo spregiudicatezza, distacco ironico, leggerezza di scrittura con un gran rispetto per lo scibile umano e le varie modalità del suo accrescimento. Profeti e profetesse meritano interesse già solo per ciò che si sa e non si sa ma solo si intuisce delle loro vite. Si tratta comunque di personaggi non comuni.
Pochissimo si sa ad esempio del Venerabile Beda, il monaco benedettino nato in terra d’Albione al quale dobbiamo la datazione centrata sugli anni prima e dopo Cristo ma anche la profezia sulla durata del mondo connessa con quella di Roma, mentre l’Urbe stessa sarebbe legata al rimanere in piedi del Colosseo, forse non solo perché l’anfiteatro simboleggia nella coscienza comune il martirio dei cristiani (che storicamente pare avvenisse altrove, ma conta la leggenda) ma soprattutto l’eredità pagana e italica della nostra terra. Negli ultimi anni però si è parlato più che del Beda delle profezie di San Malachia sull’ultimo papa, il Petrus Romanus ultimo in una lista di 111 motti per ogni pontefice della Chiesa Romana. Anche in questo caso si tratta di leggenda, a vergare quella lista non fu il santo irlandese del XII secolo, ma uno storico, sempre benedettino, alla fine del ‘500. Piscitelli trova con disinvoltura consonanze fra gli ultimi motti della lista e la personalità degli ultimi papi. Ma suggerisce che si vede ciò che si vuol vedere e chi vede il Cattolicesimo in decadenza irrimediabile ha i suoi buoni motivi per dire Bergoglio papa nero perché gesuita, Pietro II che viene a chiuder la baracca.
Già il fatto che il pontificato ad oggi sia doppio dovrebbe mettere in allarme, se nelle visioni della “Cassandra cattolica” Anna Katharina Emmerick un trono di Pietro per due è segno sicuro della fine. La mistica tedesca, beata, stigmatizzata, capace di bilocazione e d’estasi, venne ascoltata con devozione dal romantico Clemens Brentano. Raccontò di aver assistito al matrimonio fra Giuseppe e Maria, alla passione di Cristo con ogni particolare truculento e soprattutto alla fine della Chiesa dopo un suo scivolare progressivo nel protestantesimo. Scivolamento che in effetti non sembra estraneo a Papa Francesco. Roma, il cattolicesimo, la civiltà cristiana potrebbero anche collassare sotto l’attacco dell’Islam, con un Isis inebriato da un hadith di Maometto che prevede la conquista dell’Urbe e di San Pietro. Forse vi è traccia di questo possibile futuro (come di tutti gli altri) nelle centurie di quell’altro incredibile personaggio, medico e alchimista in primis, che fu Nostradamus. Non solo alchimisti hanno previsto la fine della civiltà cristiana per la brama di espansione e conquista di Asiatici e Africani, bastano buoni romanzieri come Robert Erwin Howard, il papà di Conan il Cimmero che firmò la distopia L’Ultimo Bianco e Jean Raspail, autore dell’apocalittico Il Campo dei Santi che si dice letto e riletto con attenzione negli ambienti che contano oltreoceano.
Se Roma e Bisanzio son crollate o comunque crolleranno c’è ancora la terza opzione, la Terza Roma profetizzata dal monaco Filofej, ovvero Mosca. La Russia come depositaria della tradizione latina, occidentale, bizantina e al contempo possibilità di sana comunicazione con l’Oriente, sottolinea Piscitelli ha più di un cantore. Lo stesso laicissimo Oswald Spengler vedeva un futuro slavo dopo l’esaurimento della civilizzazione faustiana di stampo anglo-germanico. Rudulf Steiner si spingeva oltre attribuendo ai popoli slavi futuri un livello superiore di presenza di spirito e una più profonda comprensione del cristianesimo.
Fu proprio un russo, Vladimir Solov’ëv a scrivere alla fine dell’800 il più riuscito apologo apocalittico ne Il racconto dell’Anticristo. Il nemico dell’umanità e del figlio di Dio in quelle pagine si presenta al mondo e lo seduce con tanto umanitarismo, con filantropia tutta orizzontale, con buoni sentimenti pacifisti, scientisti, animalisti. Questo Anticristo verrà sconfitto solo dalle tre confessioni cristiane finalmente riunite e complementari e dagli Ebrei che rifiutano di vedere in lui il Messia. Solov’ëv ci lascia dunque la speranza che il male, per quanto seducente nel suo scimmiottare il bene, non avrà l’ultima parola. Nei tempi più bui si vedono le vere luci, tutto il ferro e piombo di queste età di decadenza possono venir trasformati in oro dagli alchimisti, da chi rimane in piedi fra le rovine, dagli ottimisti per volontà.
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