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1 marzo 2018

 

Sconfitta e utopia

di Romano Màdera

 

Torna in libreria, per la collana Philo – Pratiche Filosofiche di Mimesis, il primo libro del filosofo e psicoanalista Romano Màdera “Identità e feticismo” (1977), scritto tra il 1975 e il 1976 dopo l’abbandono dell’attività politica svolta dall’autore nell’estrema sinistra e, in particolare, nel Gruppo Gramsci da lui fondato insieme all’amico Giovanni Arrighi. Il volume, intitolato oggi emblematicamente “Sconfitta e utopia. Identità e feticismo attraverso Marx e Nietzsche”, esce corredato da una nuova prefazione e da un saggio del 2011 dedicato alla forma di valore (merce, denaro, capitale) come codice genetico del sistema capitalistico. Sistema che, secondo l’accurata disanima di Màdera, non può essere affatto ricondotto alle sole sfere economica e politica della vita associata, poiché l’accumulazione quantitativa – il capitale che si moltiplica, vero Dio del tempo odierno – è il motore della nostra civiltà anche nei suoi aspetti di relazione tra i generi, psicologici e simbolici, insomma “culturali”. Per Màdera, e per chi scrive, le scoperte di Marx intorno al segreto del capitale hanno offerto all’uomo contemporaneo «una perfetta diagnosi, una mediocre prognosi, una terapia inconsistente». Il movimento dialettico implicito nelle pretese “scientifiche” della critica marxiana (dialettica che rimane in un certo senso hegeliana) si è rivelato ineffettuale e privo di carica trasformativa. Nel libro Màdera descrive in maniera complessa e dettagliata di cosa si nutra l’illusione della rivoluzione e sviscera il perché di un fallimento clamoroso. Il cuore del discorso può essere così sintetizzato: la speranza che il proletariato possa capovolgere il capitalismo, muovendo da rivendicazioni sindacali, politiche ed economiche che affondano nel riconoscimento di comuni interessi materiali, è letteralmente infondata perché le stesse classi subalterne sono messe in forma dal capitalismo e vivono immerse nel feticismo che esso promuove. Feticismo caratterizzato dal predominio del valore di scambio su quello d’uso, del lavoro sociale su quello privato, del lavoro astratto su quello concreto e, soprattutto, dalla reificazione dell’uomo e dalla personificazione delle cose.

 

Guardando indietro ci chiediamo oggi, senza nulla togliere al genio del filosofo di Treviri: come è possibile pensare che la consapevolezza di classe (la “coscienza enorme” invocata da proprio da Marx) possa nascere come effetto della lotta contro i “padroni”, come appendice dell’interesse economico e materiale? Non dovrebbe accadere esattamente l’opposto? Màdera può dunque scrivere, rivolgendo Marx contro se stesso: «[…] l’analisi marxiana, depurata delle purtroppo vane speranze dialettiche […], insegna a capire perché il capitale sia insuperabile, e proprio per il suo carattere feticistico, dalle rivendicazioni economico-politiche dei lavoratori. Marx ha visto lucidamente che lo sviluppo capitalistico riproduce una classe di lavoratori subordinati, perfettamente adattata, disposta a sentire e pensare come “naturale” il rapporto di capitale» (pp. 30-31). La questione decisiva è, ancora oggi, nonostante gli scenari storici siano ampiamente mutati, quella della consapevolezza, di una presa di coscienza collettiva che non può darsi senza un radicalismo antropologico, culturale e spirituale, “radicalismo” perché, come suggeriva lo stesso Marx, la radice di tutto è proprio l’uomo. Lì bisogna arrivare per cominciare a costruire, direbbe Gramsci, una soggettività rivoluzionaria che sia realmente tale.

 

Sbaglierebbe, comunque, chi confondesse questa prassi “radicale” con l’estremismo dei proclami, con l’antagonismo puro e duro, con la rabbia fine a se stessa e inconsapevole dell’ombra che si porta dietro. Màdera pensa piuttosto, e lo dimostra il suo percorso umano e professionale nel corso degli ultimi quarant’anni, a una contaminazione feconda tra filosofia, psicologie del profondo, spiritualità laica ed eutopie che anticipano nel presente modi di vivere e di condividere non capitalistici. È però nelle pagine della nuova prefazione che l’autore esprime le sue convinzioni più intime del presente. Qui leggiamo una presa di distanza inevitabile dalle passioni giovanili (passioni tese a semplificare idealmente la complessità umana e le contraddizioni che la costituiscono) e il concomitante tentativo di tracciare una via, sottile e impervia ma non meno necessaria, per vivere con misura e saggezza la fedeltà ai propri ideali “rivoluzionari”: «La rivoluzione che rimane la stella cometa è una tendenza, non uno stato di fatto, significa che l’utopia indica una direzione, non un progetto da realizzare. La volontà di concretizzare le utopie è compagna delle forzature che le trasformano facilmente in distopie, come il mio album di famiglia comunista ha più che sufficientemente dimostrato. E lo spostamento è dimensionale prima di tutto: la rivoluzione è culturale, non politica, in questo assomiglia molto di più alla simbolica di certe spiritualità, quella ebraica e quella cristiana, o quella buddhista mahayana, che non a quella delle tradizioni social-comuniste o anarchiche. Una dimensione che implica una diversa concezione del tempo che elabori il lutto di tutte le speranze-utopie moderne, comprese quelle liberali e democratiche: non si lavora per vedere la ricostruzione del Tempio, ma per partecipare, portando il proprio mattone, alla speranza che un Tempio, dedicato a un’umanità redenta da se stessa, e dal suo retaggio d’orrori, ci possa mai essere» (p. 16).

Il libro di Màdera, che consiglio vivamente, è senza dubbio un mattone solido e stabile. Se un limite devo trovare al suo ragionamento, ferma restando la continuità di intenti e di ideali che ci unisce da anni in un’avventura comune sul piano culturale e professionale, è la sensazione che la politica politicata (quella delle lotte sociali, della rappresentanza parlamentare e dei referendum) esca dal suo discorso essenzialmente marginalizzata, con il rischio di pensarla in chiave timidamente riformista. Penso, con un leggero ma non insignificante scarto rispetto alle opinioni di un pensatore profondo come Romano Màdera, che sia indispensabile da subito tenere insieme tutti i versanti della resistenza al tecnocapitalismo. Ecco perché mi piace chiudere questa recensione mettendo, rispettosamente, l’autore in collisione con se stesso, come lui ha fatto esemplarmente con i suoi maestri (Marx e Jung). Riporto dunque una frase proprio di Màdera, scritta nel 2006 in un libro dedicato alla figura di Epicuro,[1] e per me tuttora condivisibile nello spirito e nella lettera: «La lotta di classe non solo non è bastata e non basterà ma, senza una profondissima terapia delle passioni, è destinata a ricreare continuamente ciò che dovrebbe abolire: avidità, potere, onori restano padroni del campo. E tutto sempre ricomincia già dal momento dell’organizzazione in partiti, sindacati o movimenti. La farmacia di Epicuro deve essere usata prima, durante e dopo qualsiasi trasformazione sociale, come sua condizione necessaria. […] Filosofia è certamente comprendere il mondo, ma filosofia è anche porsi il compito di trasformare il mondo. Non si tratta di scegliere la comprensione o la trasformazione, perché si possono cercare insieme, seguendo il nuovo detto: trasforma te stesso, e con ciò capirai e trasformerai il mondo che ti è dato di essere e di incontrare». Ecco, una trasformazione lenta, progressiva, ma a trecentosessanta gradi; una trasformazione che – senza smanie ridicole di onni(m)potenza – non disdegni quel poco di politica che ci resta e che andrebbe rifondata. Una politica che si impegni, ora e subito, a contrastare gli effetti del neoliberismo, a togliere consenso al potere infelicitante del nostro tempo, a difendere il difendibile in nome dell’umanità e del pianeta.


Nota

[1] R. Màdera, Il nudo piacere di vivere, Arnoldo Mondadori, Milano 2006, pp. 69-70.