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13.12.2018
Ingmar Bergman e il film su Gesù: il dramma di non essere credente
di Giuseppe Feyles
A metà degli anni 70, volendo produrre un film su Gesù, la Rai chiese un progetto a Ingmar Bergman. Non se ne fece nulla: il regista non era credente
Nella lunga storia della creatività umana ci sono idee nate da alcuni artisti e mai sviluppate, come semi non germogliati, di cui si intuisce però la fioritura. Tale è probabilmente il film incompiuto di Ingmar Bergman, a tema di un breve libro curato da Pia Campeggiani e Andrea Panzavolta (Il Vangelo secondo Bergman, Il Melangolo 2018). La circostanza ricostruita dai curatori è poco nota. A metà degli anni settanta, volendo produrre un film sulla vita di Gesù, alcuni funzionari della Rai volarono in Svezia per chiedere un progetto a Bergman. Non molto tempo dopo il regista inviò un piccolo trattamento. In Rai lessero, pagarono il lavoro, ringraziarono e poi fecero fare il film a Zeffirelli.
Campeggiani e Panzavolta hanno ritrovato il progetto di Bergman e oggi lo ripubblicano. A leggerlo si capisce la ritirata della Rai, né in fondo la si può biasimare. Ciò di cui la tv pubblica aveva bisogno era un’opera come quella di Zeffirelli, pregevole, ma classica. Il punto di vista di Bergman era invece quello di un uomo che vive drammaticamente il suo non essere credente. Egli vede Gesù come “un essere umano che parla agli esseri umani e che vive e muore nel mondo degli uomini”. “La santità di Gesù” scrive ancora nella postfazione del trattamento, “mi brilla negli occhi, ma non mi abbaglia, né mi acceca, perché la sua luce è quella di un essere umano”.
Eppure, al di là della sua eterodossia, c’è un fascino e un’attualità nel regista svedese che traspare anche da questo progetto e sta, come scrivono i curatori, nel suo essere ateo, sì, ma senza essere nichilista. Egli accosta Cristo con un timore (e tremore?) tutto nordico. Sceglie perciò di raccontare le ultime quarantotto ore della Passione, ma dal punto di vista dei personaggi di contorno. Quasi non osasse mettere al centro Gesù, per timore di svilirlo aggiungendo rappresentazioni e immagini nuove, ma in fondo riduttive. Caifa, la moglie di Pilato, l’apostolo Giacomo il minore, Maria, il centurione Rufo, la Maddalena e Simon Pietro: questi sette personaggi, più Giuda, coprotagonista del quadro di Caifa, rappresentano l’umanità che deve prendere posizione di fronte a Cristo. Sono tutti personaggi inconsapevoli del dramma cui prendono parte, della sua enormità e di come quello cambierà radicalmente la loro vita. Siamo noi. Il breve trattamento di Bergman è fatto di pennellate veloci, appena accennate, ma in filigrana si intuisce che egli aveva in cuore un’opera che lo coinvolgeva profondamente.
Carlo Mazzantini, filosofo torinese, sulla scorta del neoplatonismo, spiegò come in Dio tutte le virtualità sono perfettamente compiute. Detto in altri termini, mi piace pensare che esista una stanza, una grandissima stanza, in un palazzo dell’aldilà, nella quale si troveranno realizzate tutte le cose iniziate, ma poi non finite. O se non proprio tutte, quelle che il buon Dio riterrà che sarebbero venute bene. Come il film di Bergman. Sarà bello accomodarsi a vederlo.
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1 ottobre 2018
Raccontare un essere umano
di Alessio Scarlato
Il Vangelo secondo Bergman. Storia di un capolavoro mancato di Pia Campeggiani e Andrea Panzavolta.
«Voi chi dite che io sia?» (Mt, 16, 15). La domanda di Gesù a Pietro, presente in tutti i vangeli sinottici, costringe i discepoli, e con essi i lettori, a prendere posizione intorno alla natura ontologica del figlio di Maria. Un ciarlatano, un profeta, il Messia da tanto tempo atteso, o addirittura il figlio di Dio della stessa natura di Dio, come affermerà il vangelo teologico di Giovanni? Questa è la domanda che impegna ogni rappresentazione di Gesù, della storia più raccontata nel mondo occidentale. Tale domanda si ripercuote in duplice modo, rispetto ai Vangeli e alle altre fonti utilizzate per raccontare Gesù. Da una parte, chi risponde a tale domanda deve orientarsi appunto tra fonti antinomiche, che tendono fino alla contraddizione, e decidere su che cosa costruire il proprio racconto. Privilegiare un solo nucleo narrativo, il che significa perlopiù concentrarsi su quello della Natività o quello della Passione, che emergono con più nettezza, o piuttosto cercare di disegnarne la vita, magari attingendo anche alle fonti non canoniche.
Questo lavoro di “rimontaggio” dovrà decidere se credere alla possibilità di uno sguardo neutrale, oggettivo, in grado di risalire al di qua delle fonti verso il vero Gesù, o se piuttosto sospendere l’incredulità metodica e accettare la verità del mythos e della sua Wirkungsgeschichte, come fece Pasolini con il suo Vangelo secondo Matteo. Dall’altra parte, chi risponde a tale domanda deve interrogarsi sulla natura ontologica del medium scelto, come difatti il cristianesimo fa dai tempi del conflitto tra iconoclasti e iconofili. Come può l’immagine rappresentare il divino-umano? E come può farlo l’immagine riproducibile tecnicamente, che sembrerebbe rinunciare alla dimensione auratica, sacrale, almeno secondo una lettura (riduttiva) di Benjamin? Essa si propone soltanto di riprodurre una verità teologicamente già elaborata altrove, e quindi si limita a proporsi come una biblia pauperum, o interroga autonomamente la figura di Gesù?
Nel 1974 la RAI propose a Ingmar Bergman una produzione televisiva, in sei puntate, sulla vita di Gesù. Pia Campeggiani e Andrea Panzavolta hanno ricostruito le dinamiche di questo progetto fallito in Il Vangelo secondo Bergman. Storia di un capolavoro mancato (Il Melangolo, Genova 2018), accompagnandolo con la traduzione in italiano della bozza elaborata da Bergman, insieme all’originale in lingua svedese e alla traduzione in inglese, preparata da Alan Blair. La Stiftelsen Ingmar Bergman conserva inoltre i diari di lavoro e la corrispondenza privata del regista e sta lavorando alla pubblicazione di materiale, ancora inedito, tra cui dovrebbero emergere maggiori particolari intorno alla storia del progetto e ai motivi del suo naufragio. Campeggiani e Panzavolta comunque integrano nella Premessa quelle poche informazioni che Bergman ci aveva lasciato in Lanterna magica, la sua autobiografia.
Bergman propose un film di sette episodi, con interni girati a Stoccolma ed esterni in Italia. La RAI gli assicurava totale libertà interpretativa per la stesura della sceneggiatura, che doveva però rispettare la sensibilità religiosa del vasto pubblico. La RAI, dopo la consegna della sceneggiatura, si riservava un mese di tempo per decidere su di essa. Inoltre, sul modello di Scene da un matrimonio (1973), Bergman ne avrebbe dovuto curare anche una versione cinematografica. Oltre alla distanza tra la radicalità della ricerca bergmaniana e l’universo culturale della RAI di impronta democristiana dei primi anni settanta, distanza che però doveva essere nota già all’inizio del tentativo produttivo, un’ipotesi avanzata sul naufragio del progetto è che uno dei produttori (Lew Grade), partner della RAI, non abbia gradito il modo, venato di ostilità e probabilmente anche di qualche pregiudizio, con cui veniva tratteggiata la figura del sommo sacerdote ebreo Caifa.
Senza addentrarci in ipotesi sul mancato accordo, le cui cause potranno probabilmente essere chiarite dalla pubblicazione dei diari di lavoro, come risponde allora Bergman, nella Bozza di un film per la televisione sulla morte e la resurrezione di Gesù e su alcune persone che presero parte a questi eventi, alla domanda «Voi chi dite che io sia?» Bergman intendeva concentrarsi sulle 48 ore che intercorrevano tra l’Ultima cena e la Passione, costruendo ogni puntata attorno a un personaggio: il sommo sacerdote Caifa, difensore di una legalità vuota e al contempo vendicativa; Livia, la moglie di Pilato, che prende consapevolezza dell’assenza di sentimenti del proprio matrimonio e dell’aridità delle proprie esistenza; il discepolo Giacomo, che organizza l’Ultima Cena e si industria perché i suoi commensali ne possano ricavare sollievo; Maria, pronta ad abbandonare tutto per tornare dal figlio; il centurione Rufo, che assiste Gesù sulla croce e, pur confuso, chiede perdono per quello che ha dovuto fare; Maria Maddalena, “strana combinazione di verità, finzione, recitazione, crassa volgarità, calcolo e genuina passione”, e perciò “fatta della stessa materia di cui sono fatti i santi”; Pietro, che rinnega il suo maestro, per poi comprendere che non si può fuggire tutta la propria vita, nascondendo la propria essenza.
La scelta narrativa fa emergere perciò che quella domanda costringe a prendere posizione, costringe a interrogare l’identità di chi entra in contatto con Gesù.
Un altro grande film non fatto su Gesù, quello che occupò Dreyer per decenni, aveva alle spalle un lavoro filologico intenso, sulle cui basi il regista danese proponeva una risposta netta, tanto più se pensiamo che quel progetto iniziò a prendere vita durante l’occupazione nazista: Gesù è figlio dell’ebraismo e ne esprime la tensione universalista. Anche Dreyer, come Bergman, arresta il suo sguardo prima della resurrezione. Nei suoi scritti, pur avendo messo in scena in Ordet (1955) quella che è probabilmente l’unica resurrezione credibile vista al cinema e pur immaginando di raccontare la resurrezione di Lazzaro, Dreyer mostrava di non concepire Gesù come figura divina. Bergman nella sua Posfazione è ancora più esplicito: «Io non sono un credente. Ogni forma di salvezza ultraterrena mi appare blasfema… Per me Gesù è un essere umano che parla agli esseri umani e che vive e muore nel mondo degli uomini». Ma Dreyer provava a decifrare l’esistenza storica di Gesù, indagandone il suo magistero spirituale e il lavoro di “spostamento” che soprattutto la tradizione paolina aveva compiuto, accusando il Consiglio ebraico dei sadducei e dei farisei dell’arresto e condanna di Gesù, piuttosto che il potere imperiale di Pilato. Bergman non intende decifrare il significato storico di quella vicenda, non si impegna nelle interminabili ricerche filologiche di Dreyer. Al contempo, è lontana anche la prospettiva teologico-politica, e per questo attenta alla dimensione comunitaria, che ha segnato il cinema italiano, a partire dal pasoliniano Vangelo secondo Matteo (1964).
Per Bergman, “Gesù è per sempre l’incontestabile difensore della vita, di tutte le cose viventi, della vita spirituale. Egli compare in un mondo di legge, legalistico, di vuoto, di paura, odio e disperazione mortale”.
Bergman non intende perciò svelare il mistero di Gesù. Questi è in realtà il fatto che costringe i sette personaggi a trasformarsi, ossia a prendere in carico chi sono loro. Dietro questi sette personaggi, emergono figure e dinamiche psicologiche, che Bergman con sguardo sempre più alieno da consolazioni spiritualistiche andava indagando da tempo. Sembrano ritornare in queste pagine della Bozza le viltà, le paure, le incertezze, ma anche gli slanci quantomai “materici” di amore e di tenerezza di Scene da un matrimonio e Sussurri e grida (1972), le opere a cui aveva lavorato negli anni immediatamente precedenti al progetto su Gesù. Il medium scelto, la televisione, che caratterizza tutta l’ultima fase dell’attività bergmaniana, anche pensando alle scelte stilistiche adottate in quegli anni, avrebbe probabilmente esasperato questa confronto solitario di sette esseri umani di fronte a Gesù: questi sette primi piani di fronte alla macchina da presa, oramai priva di qualsiasi dimensione auratica. Non più strumento di un rito, ma macchina radiografica.
La RAI preferì un’altra strada, quella della biblia pauperum di Zeffirelli.
Riferimenti bibliografici
I. Bergman, Il vangelo secondo Bergman. Storia di un capolavoro mancato, a cura di P. Campeggiani e A. Panzavolta, Il Melangolo, Genova 2018.
C.T. Dreyer, Gesù. Racconto di un film, Einaudi, Torino 1969.
F. Netto, Ingmar Bergman. Il volto e le maschere, Ente dello Spettacolo, Roma 2008.
D.E. Viganò, Gesù e la macchina da presa. Dizionario ragionato del cinema cristologico, Luteran University Press, Roma 2015. |