https://www.linkiesta.it/it/
03 novembre 2018
Wu Ming: “Separatismo? Sovranismo? Sciovinismo? O i lavoratori si uniscono o saranno guai”
di Stela Xhunga
Proletkult, il nuovo romanzo del collettivo Wu Ming, è (anche) una riflessione sul concetto di rivoluzione, e una storia esemplare sulla necessità di unirsi dei lavoratori. E sull’importanza di saper leggere la storia
“Oggi avrai davvero una storia interessante da raccontare”, pensò Leonid, uno dei protagonisti di Proletkult, il nuovo romanzo del collettivo Wu Ming. L’altro è Bogdanov, quelBogdanov, il cui vero cognome era Malinovskij. Bolscevichi, entrambi con un piede nel realismo e l’altro nel fantastico, un po’ sulla Terra, un po’ sulla Stella Rossa. In Proletkult, scritto sulle note di “Starman” di David Bowie e della sinfonia “All'Ottobre” di Šostakovi? mentre fuori imperversa la caccia al welfare che non c’è, di bolscevichi ne sfilano parecchi. Uomini stra-ordinari, ma non lontani da Mario Rossi in fila da McDonald’s e da Aboubakar Soumahoro in manifestazione con i braccianti. Altro che categoria novecentesca superata, il proletariato è quanto di più vivo, condiviso emainstreamci sia. Tanto vale chiarirlo: il nuovo romanzo dei Wu Ming non ha niente di anacronistico. Come del resto niente di anacronistico ha la parola “rivoluzione”. Diceva bene Furio Jesi, le rivoluzioni sono così deliberatamente calate nella storia da attraversarla. Complici, catene di esseri umani che non smettono di riunirsi tramite il web (qualunque cosa sia), la cultura (qualunque cosa sia) e il lavoro (qualunque esso sia: precario). L’altra cosa bella delle rivoluzioni è che sono di tutti. “Se un romanzo non aiuta a capire meglio gli esseri umani, non è un buon romanzo”, sostengono i Wu Ming. Proviamo a capirli meglio.
I fautori del Proletkult incitavano a “bruciare Raffaello / distruggere i musei e calpestare i fiori dell’arte” (Kirillov). In effetti la prima azione che compiono nel romanzo è fracassare due pianoforti.
La performance che raccontiamo nel romanzo consiste nello sfasciare l'involucro di legno di due pianoforti, dotati in realtà di un'anima di metallo, da suonare a martellate, come se fosse un enorme glokenspiel. Nell'intento degli artisti c'è la messa in scena di una trasformazione, di una rinascita dalla distruzione. L'Unione sovietica degli anni Venti – e non solo il Proletkult – fu attraversata da un grande dibattito su cosa farsene della cultura pre-rivoluzionaria. Alcuni erano per buttarla al macero, perché avrebbe mantenuto in vita i valori degli aristocratici e della borghesia. I marxisti più ortodossi, come Lenin, pensavano invece che bisognasse tenere quel che c'era di buono, mentre la nuova cultura si sarebbe prodotta da sé, grazie ai nuovi rapporti sociali. Altri, sostenevano una posizione ancora diversa, e cioè che i grandi artisti del passato erano sempre stati in conflitto con la loro epoca, e dunque non erano affattoun patrimonio esclusivo delle classi dominanti. Erano tempi in cui di certe questioni si discuteva sul serio, l'idea di una cultura “alternativa” sembrava possibile.
I lavoratori si riuniscono in continuazione, quando lo fanno acquistano forza. Vedi ad esempio le lotte nel settore della logistica. Quando restano ognuno a pensare ai casi propri, non contano niente. “Divisi siam canaglia”, diceva quel tale
Quali i ‘Raffaello, i musei e i fiori’ da eliminare oggi?
Noi siamo stati adolescenti quando ancora si parlava di controcultura e di underground, concetti che oramai nessuno usa più, perché molti tratti distintivi di quell'altrove culturale sono oggi moneta corrente. L'autoproduzione fai da te – il cosiddetto DIY – è alla portata di tutti, grazie al computer, alla Rete, al crowdfunding, e vi ricorrono anche artisti affermati, parte di quello che si chiamava establishment, o mainstream. Ma nel contempo, lo stesso mainstream si è ridotto, è una nicchia più grande delle altre, mentre anche il prodotto più estremo, sperimentale e remoto è diventato raggiungibile e fruibile da chiunque, non più soltanto dagli adepti. Da un lato, non abbiamo nessuna nostalgia per una cultura sotterranea che spesso si auto-rinchiudeva nella sua riserva indiana, per godere della propria marginalità, quasi fosse un certificato di garanzia. Dall'altra, ci sembra che l'omologazione del gusto e degli stili abbia raggiunto livelli insopportabili: nonostante la Rete metta a disposizione di tutti un illimitato menu culturale, il consumo di prodotti dallo stesso sapore sembra essere l'unica terapia contro l'ansia della scelta.
“Proletari, riunitevi!”. Davvero esistono ancora i proletari? I consumi hanno annullato classi e differenze. E poi, se anche ci si riunisse tra proletari, che si fa?
Il consumismo è per tutti, certo. Tuttavia non ha cancellato le classi sociali, bensì soltanto la percezione che queste hanno di se stesse. In realtà il dislivello nella suddivisione della ricchezza non è mai stato così alto come in questa epoca storica. Non è questione di grado di istruzione, ma di condizioni lavorative e di vita, di garanzia o precarietà, di profitti e di sfruttamento. Nulla di tutto questo è scomparso. Tutt'altro. Se dico "sicurezza sociale", oggi si pensa a tanta polizia per strada come deterrente per i delinquenti. Io invece penso al ripristino del welfare, cioè alla garanzia di servizi pubblici universali che allevino la precarietà esistenziale delle persone e riducano il malessere. Perché, come dice il nostro protagonista, la forza di una catena è data dal suo anello più debole; la salute di una società, dalla sofferenza degli ultimi. Se dico "welfare", oggi si pensa a qualcosa che non possiamo più permetterci perché c'è la crisi economica. Eppure la ricchezza non è sparita, si è polarizzata: sempre meno gente è sempre più ricca. Dunque welfare, per noi, significa ridistribuzione, riequilibrio. Se dico "proletariato", oggi suona come una parola strana, almeno nelle società opulente. Basterebbe ricordare come il celebre motto marxiano venne reso in inglese. Sulla tomba di Marx a Londra c'è scritto: "Workers of all the word, unite!". Lavoratori suona meglio? I lavoratori si riuniscono in continuazione, per altro, e di solito quando lo fanno acquistano forza. Vedi ad esempio le lotte nel settore della logistica, che coinvolgono facchini e braccia di molte nazionalità diverse. Quando invece restano ognuno a pensare ai casi propri, non contano niente. “Divisi siam canaglia”, diceva quel tale.
Il consumismo è per tutti, certo. Tuttavia non ha cancellato le classi sociali, bensì soltanto la percezione che queste hanno di se stesse. In realtà il dislivello nella suddivisione della ricchezza non è mai stato così alto come in questa epoca storica
“Bogdanov si alza. L’allegoria marziana continua a sorprenderlo. Parlare della Stella rossa è sempre un modo per parlare della Terra e capirla meglio”. L’impressione è che l’intero romanzo sia un’allegoria, un modo per capire meglio gli esseri umani.
Se un romanzo non aiuta a capire meglio gli esseri umani non è un buon romanzo. Questo non significa che debba essere un racconto di azioni e gesta simboliche da interpretare in maniera diversa dal loro significato letterale per coglierne uno nascosto. Non abbiamo pensato a un “messaggio segreto” per poi codificarlo con una “chiave di lettura”, che dev'essere colta e utilizzata per recuperarlo. Più semplicemente, abbiamo raccontato una storia che ci sembrava interessante, e come sempre accade in narrativa, questa storia si serve di individui e luoghi particolari per alludere all'universale. Se in un romanzo metto in scena la famiglia Rossi, di sicuro do corpo, anche inconsapevolmente, al mio giudizio sulla famiglia in generale, come istituzione, e il lettore coglierà questo aspetto, senza però che la famiglia Rossi diventi per questo un'allegoria. Per quanto possibile, cerchiamo sempre di evitare di vincolare il romanzo a un'unica interpretazione, quella codificata dall'autore. Preferiamo che il lettore sia libero, e che il testo parli anche a prescindere dai riferimenti che avevamo in testa mentre lo scrivevamo, e che probabilmente saranno scomparsi tra venti o trent'anni. L'ambizione sarebbe quella di poter essere letti anche quando quei riferimenti non ci saranno più e il mondo sarà di molto cambiato.
Nel romanzo si fa strada una ragazzina che si presenta come figlia di un terrestre bolscevico e di una donna di un altro pianeta, i cui abitanti vogliono instaurare un socialismo dei pianeti, un “interplanetarismo”. Oggi c’è bisogno di internazionalismo?
Tra l'unionismo dei mercati finanziari da un lato e il separatismo dei nuovi sciovinisti dall'altro, non pare esserci una risposta più attuale dell'internazionalismo, cioè della solidarietà trasversale tra coloro che si vedono scaricare addosso il peso sociale della crisi economica. Se il capitale si globalizza, se la finanza non conosce confini, anche la lotta deve fare altrettanto. Pensare che i migranti rubino il lavoro agli autoctoni è una fesseria e nessuno la dice più. Si preferisce sostenere che rubano i diritti, perché sarebbero disposti a lavorare in condizioni di sfruttamento. Ma allora, invece di respingerli, bisognerebbe coinvolgerli nelle rivendicazioni. Il razzismo e il sovranismo servono proprio ad evitare che questo accada, con tutto vantaggio degli sfruttatori.
L’effetto dello straniamento in Proletkult è molto forte e al contempo elegante. Avevate dei modelli letterari oltre alla letteratura fantascientifica?
Scrivendo il romanzo non avevamo in mente particolari modelli. Il nostro è un narratore discreto, molto vicino ai protagonisti del racconto e in particolare a Bogdanov, al punto che entra nella sua testa senza chiedere permesso. Ma questo non significa che gli autori siano altrettanto vicini al loro personaggio, o addirittura che sposino le sue teorie. Abbiamo cercato di calibrare il gioco delle distanze in modo che non fosse scontato o prevedibile. Rispetto invece alla letteratura fantascientifica, volevamo superare l'alternativa tra l'archetipo dell'alieno invasore e quello dell'alieno buon esploratore. Volevamo che i nostri alieni fossero più complessi, e fossero portatori di una contraddizione, tanto quanto la società terrestre. In realtà, abbiamo fatto collidere "Stella Rossa", il romanzo di Bogdanov, con il romanzo di Walter Tevis "L'uomo che cadde sulla Terra", mentre ascoltavamo “Starman” di David Bowie e la sinfonia “All'Ottobre” di Šostakovi?.
Ne esce fuori un Lenin titubante, che “ha un’idea passiva della conoscenza”, che si compiace di non morire stupidamente su una lastra di ghiaccio. Enervato di flessibilità mentale, lontano dal mito e dallo stesso Bogdanov. E però un ottimo politico, “il piú brillante della loro generazione”. Non è che la rivoluzione russa ha avuto troppi filosofi e pochi politici?
Secondo Bogdanov era vero il contrario: troppi politici e pochi filosofi, o cattivi filosofi. Il Lenin raccontato nel romanzo è quello visto con gli occhi di Bogdanov, quindi da un'angolazione molto particolare. Bogdanov lo vede come un grande politico e un pessimo filosofo. Ma non abbiamo scritto un romanzo per dare un giudizio storico, né su Lenin né sulla rivoluzione russa. Nel romanzo Lenin è l'antagonista, perché questo fu per Bogdanov, e la diatriba tra loro è prima di tutto quella tra due visioni della conoscenza, che sono politiche solo di conseguenza. Crediamo che in questo risieda un motivo di interesse, e di fascino, della storia che abbiamo raccontato. Ci sono due bolscevichi, che vivono in esilio, fuggono dalla polizia zarista, organizzano rapine e scuole per operai, e allo stesso tempo trovano di fondamentale importanza discutere di che cos'è la materia, e trovare un accordo, pena la rottura di ogni relazione, politica e d'amicizia. Ora è chiaro, e noi lo raccontiamo, che il dissidio filosofico faceva da catalizzatore – e da paravento – per divergenze su questioni più immediate, tattiche. Eppure anche così la meraviglia non arretra, se si pensa che oggi a far da catalizzatori e paraventi per questioni politiche ci sono episodi di gossip e slogan ad effetto.
Secondo Furio Jesi la differenza tra rivoluzione e rivolta sta nella “diversa esperienza di tempo”. Mentre la prima è calata nel suo tempo storico, la seconda lo sospende, e instaura repentinamente un tempo in cui tutto ciò che si compie vale di per se stesso. Quale ci vorrebbe ora?
Non ha granché senso chiederselo, almeno da un punto di vista storico e materialistico, dato che non siamo noi a determinare a piacimento i casi della storia. Soggettivamente possiamo soltanto agire nelle condizioni date, provando a fare la nostra parte in base a ciò che riteniamo giusto. Possiamo provare a sperimentare altri tempi, altre culture, altri modi di stare insieme e di produrre. Non solo il mondo sospeso della rivolta, ma anche il mondo “parallelo” di vite diverse, di scelte collettive che rompano gli automatismi.
L'analfabetismo storico dipende dagli occhiali che uno indossa per osservare le vicende del passato. Se gli occhiali lo ingannano, se non è consapevole di portarne un paio, a ben poco vale mostrargli prove, esibire fonti, squadernare archivi. Vedrà quel che ha imparato a vedere, e tutto il resto gli sembrerà appena un'ombra
Un esempio di mondo “parallelo”, di vita diversa?
Nel campo dell'agricoltura è in corso una riflessione molto interessante su come trovare un'alternativa alla produzione industriale, alla grande distribuzione organizzata, alle logiche di mercato. Da Genuino Clandestino ai gruppi d'acquisto, dal sostegno di comunità a SOS Rosarno. “Rotture” di questo genere esistono e si fanno strada, ma un conto sono gli esperimenti felici, e un altro è diffondere un nuovo modello, che coinvolga l'intera collettività.
La struttura ternaria di Proletkult ricalca il metodo della dialettica. Quali tesi contrappone il romanzo?
Da un lato materialismo ed empiriomonismo, la diatriba che vide contrapposti Lenin e Bogdanov. Nei termini di 110 anni fa può suonare superata, ma è una dialettica ancora attuale, tra chi pensa che le cose esistono “in sé” e quanti invece ritengono che esse esistono solo “in relazione” le una alle altre. Da queste due posizioni, discendono grandi differenze su quel che si ritiene vero, oggettivo, scientifico. Differenze anche molto pratiche, che influenzano ad esempio la nostra idea di pluralismo e di dialogo. Se le cose non esistono in sé, non si può “dire la stessa cosa con parole diverse”, nemmeno la verità, che infatti diventa molteplice, dinamica, continuamente negoziata. L'altra opposizione è quella tra realismo e fantastico, la diatriba che perdura tutt’ora tra i fautori di due poetiche letterarie contrapposte. In questo caso la sintesi che proviamo a proporre è il romanzo stesso, con la sua mescolanza dichiarata di entrambe le attitudini.
Si parla molto degli analfabeti funzionali. Poco degli analfabeti storici.
L'analfabetismo storico non è tanto una questione di ignoranza. Spesso, per descriverlo, si citano adolescenti convinti che la strage di Piazza Fontana sia da imputare alle BR o adulti che non saprebbero citare una sola ex-colonia dell'Italia. In realtà, l'analfabetismo storico è molto più complesso, perché in realtà dipende dagli occhiali che uno indossa per osservare le vicende del passato. Se gli occhiali lo ingannano, se non è consapevole di portarne un paio, a ben poco vale mostrargli prove, esibire fonti, squadernare archivi. Vedrà quel che ha imparato a vedere, e tutto il resto gli sembrerà appena un'ombra, un'interferenza, tutt'al più un errore da correggere. Inventerà qualunque teoria del colore e della percezione, pur di non pulirsi gli occhiali, o di sostituirli con un paio più adatto. E' così che si sono diffuse e mantenute narrazioni distorte come quella degli “italiani brava gente”, che incorniciano qualunque racconto del passato, esaltandone solo alcuni aspetti e censurando, oppure rimuovendo, ogni contraddizione. L'esempio della storia dimostra quanto abbiamo bisogno di una cultura nuova e non solo di piccoli emendamenti a quella ufficiale, frammenti sparsi di un racconto alternativo che finiscono per correggere la vulgata, permettendole di occupare ancora il centro della scena. Se le cose “in sé” non esistono, se tutto si dà solo “in relazione”, allora non si può correggere un singolo elemento, lasciando inalterato l'intero sistema.