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29 ottobre 2018

 

Lotte nella circolazione, riot, comune: intervista a Joshua Clover

 

Intervista all’autore di Riot. Strike. Riot – The New Era of Uprisings (Verso, 2016) realizzata a Buenos Aires durante il workshop Riot as a Global Political Concept.

 

D: Cos’è stato che ti ha portato a concentrati sul tema del riot?

R: Dopo il collasso economico del 2008 ho iniziato ad applicare le mie conoscenze su Marx e di economia politica marxiana alla situazione, cercando in particolar modo di focalizzarmi sull’enorme crescita della finanza e sul suo tracollo. Ho provato in altre parole a capire cos’era successo a partire da questa prospettiva. E c’era un’altra serie di questioni sulle quali stavo riflettendo rispetto ai processi di finanziarizzazione, alle mutazioni nella sfera della circolazione e alle conseguenti trasformazioni dell’economia – ma allo stesso tempo l’attività politica nella zona dove vivo io, nella Bay area, tra Oakland e Berkeley, era particolarmente concitata. C’erano stati due riot, il più grande dopo l’ingiustificata omicidio dell’afroamericano Oscar Grant da parte della polizia, ma anche una serie di occupazioni studentesche delle università. Sono stato coinvolto in vari modi in questi eventi, non ho intenzione di confessare qui nessun reato, ma insomma, ero lì, e ho pensato che tutte le cose che stavo studiando su Marx, sulla teoria del valore, tutte questo cose di taglio astratto, andassero in qualche modo applicate al caso concreto invece che lasciarle in forma teorica come fanno in molti, che ne riflettono sul piano della “coscienza” o cose simili. Io invece volevo applicarle ad azioni concrete, ai riot, alle occupazioni universitarie, e a quelle che da lì a poco sarebbero state le occupazioni delle piazze, a Oakland e in giro per tutto il mondo. Ecco, ho insomma provato a mettere assieme questa dinamica regressiva che stava assumendo l’economia politica e le azioni che si stavano sviluppando sul campo. Da qui è venuto fuori il discorso sul riot e soprattutto il discorso più ampio che sto provando a portare avanti sulle circulation struggles, che provo a sviluppare all’interno di una più complessiva traiettoria storica ed entro un quadro di critica dell’economia politica.

D: Poteresti approfondire un attimo questo tuo discorso delle circulation struggles? Te lo chiedo anche perché negli ultimi anni in Italia c’è stato un importante percorso di lotta all’interno della logistica…

R: Bhè, non è che un discorso solo mio, non è che nessuno crea niente, ci sono molti compagni attivi nelle lotte, sul piano teorico, o entrambi, coi quali ho discusso di questo tema, e crediamo che l’interruzione del rapporto di capitale sia un qualcosa di estremamente importante oggi – riportiamo spesso la frase: “quando si bloccano le strade si apre il mondo”, uno slogan che come tanti altri credo che abbiamo in qualche modo importato dall’ottimo contributo che negli anni è arrivato dall’Italia. Quindi insomma, al di là della mia frase, è importante l’idea che c’è dietro.

Conosco le lotte cui fai riferimento, e già prima avevamo letto riflessioni provenienti dall’Italia come quella di Sergio Bologna (sono parte di quello che stiamo studiando). Allora, l’idea, nella sua formula più schematica, è che nella lunga traiettoria storica del capitale, a prescindere da dove la si voglia far iniziare - nel Quattordicesimo o nel Diciassettesimo secolo – ma soprattutto con la Rivoluzione industriale, il capitale ha avuto i suoi cicli, all’interno dei quali ci sono stati momenti in cui è stato più capace di produrre profitti e plusvalore a partire dalla sua forma tradizionale di manifattura industriale. Quando questa forma diminuisce la sua capacità di generare profitti, si assiste a un passaggio, uno spostamento verso l’ambito della circolazione per produrre profitti. Questo implica una serie di questioni, di cui la più banale è quella che attiene al trasporto delle merci, ma quella di circolazione è una strategia ampia che va dalla circolazione di merci al mercato in sé, fino alla rivoluzione logistica, ma anche la finanza è un luogo di circolazione del capitale dove si genera e alloca altro capitale… Ora, tutte queste trasformazioni si definiscono all’interno del complesso dell’economia, quando il capitale fatica a produrre nuovo profitto dalla produzione industriale e passa alla circolazione – e inevitabilmente anche il proletariato passa alla circolazione. Il lavoro inizia a trovarsi soprattutto lì, e inoltre in questo passaggio si produce molta disoccupazione – e la disoccupazione è un altro modo col quale il proletariato viene gettato nella sfera della circolazione, non avendo più accesso al lavoro industriale e al salario diretto… ma ha ancora la necessità di acquisire beni sul mercato, e li trova nell’ambito della circolazione. Quindi ecco, si determina questo doppio passaggio: i capitalisti e i proletari muovono verso la circolazione. Questo è accaduto in modo drammatico a partire dagli anni Settanta, iniziato probabilmente nei Sessanta, ma negli anni Novanta si era determinata ormai una decisa trasformazione dell’economia su larga scala… Ed è su questo che si inserisce un altro dei miei slogan: “People fight where they are” (“Le persone lottano nel contesto in cui si trovano”), che in questo caso indica che le persone si sono trovate coinvolte in lavori con un grosso carattere logistico, nei servizi, sul piano organizzativo, dello scambio, e qui è dove si trovano oggi la maggior parte dei lavori, oltre alla disoccupazione – tutte dimensioni che possiamo ricondurre al discorso sulla circolazione. Lì si trovano le persone e lì lottano, non possono per lo più fare sciopero in senso classico, e quindi così come anche nelle fabbriche assistiamo soprattutto alla dimensione del blocco, questo si lega al blocco delle pipeline, all’occupazione delle piazze, al blocco dei porti (ci abbiamo provato a Oakland, è una cosa molto ambiziosa, ci siamo riusciti per un giorno). Ecco, queste sono tutte cose che le persone possono fare, e che fanno, non perché si svegliano una mattina e dicono: “voglio fare una circulation struggle”, semplicemente lì si trovano.

D: Mi sembra che in qualche modo tu stia richiamando quello che in Italia è stato famosamente definito, nei Settanta, come il passaggio “dalla fabbrica alla metropoli”…

R: Allora, devo subito dire che i miei studi sono legati soprattutto agli Stati Uniti, al Regno Unito e in parte all’Europa occidentale, quindi non sto avanzando un’istanza globale (cosa che tra l’altro credo nessuno dovrebbe fare). E negli Stati Uniti negli anni Sessanta inizia la deindustrializzazione, a partire soprattutto da New York e Detroit, proprio dove si sono verificati poco dopo la metà di quel decennio due dei più grossi riot del secolo. Nei Sessanta è iniziata una lunga ondata di disoccupazione, fortemente razzializzata, che si è accompagnata alla formazione di ghetti neri e al white flight, la fuga di molte persone dalle città verso tranquilli, carini sobborghi, una interessante inversione rispetto all’Europa dove i suburb sono abbandonati e spesso molto poveri e i ricchi vivono invece nei centri. Negli USA invece i neri vengono lasciati nei centri urbani a quell’epoca, in qualche modo vengono ivi rinchiusi, e la metà dei Sessanta è un momento in cui si assiste a una portentosa ondata di riot in tutto il paese, da Los Angeles nel 1965, poi New York, Chicago nel 1968, e tantissimi altri, una massiccia ondata. Solo tra l’estate del 1967 e il 1968 ci furono più di 160 riot. Quindi il progetto di deindustrializzazione e di esclusione dal lavoro della popolazione razzializzata è la condizione con la quale è cominciata l’attuale epoca dei riot.

D: Una delle maggiori critiche che vengono mosse al tuo libro Riot. Strike. Riot è quella di essere troppo schematico, troppo rigido nell’individuare precise e nette scansioni e passaggi storici, cosa ne pensi?

R: Potrei rispondere in molti modi, ma la prima cosa che vorrei dire è che è vero, è una critica corretta. Sempre semplificando, ci sono due modi nei quali si possono affrontare problemi complessi: uno è quello che mira a non produrre mai una linea di lettura netta, e prova a raccogliere tutti i dettagli (cosa che io credo sia impossibile nella complessità della vita) e a elaborare una rappresentazione accuratissima di ciò che accade ricorrendo di continuo a molteplici livelli, dense eterogeneità, variegate traiettorie… e c’è bisogno di libri di migliaia e migliaia di pagin, e che non terminano mai; l’altra cosa che si può fare è quella di proporre modelli, penso in fondo che tutti elaboriamo modelli, che sia impossibile a livello cognitivo non farlo, e per me dunque la questione non è il fatto che con un modello si trasgredisce la molteplicità del reale, perché tutti lo facciamo, e penso che il modello sia utile. Quindi accetto il fatto che si dica che la mia teorizzazione si basa su una fortissima schematizzazione di un problema davvero complesso, e che nel far ciò rimangono fuori molte cose, è indubbiamente vero. Ma ciò detto, nell’Occidente, nella sua storia, credo sia piuttosto innegabile che ci sia stata una fase in cui il riot era la forma dominante di lotta, a cui ha fatto seguito un periodo in cui lo sciopero ha assunto questo ruolo, a partire dalla prima metà dell’Ottocento e per i successivi 150 anni. La situazione poi è cambiata, e sono iniziati ad aumentare i riot e a diminuire gli scioperi. Questo è successo, a prescindere da quale teoria si voglia adottare. Quello di cui io credo ci sia bisogno è di una teoria che ci faccia capire perché ciò è successo, e credo che necessitiamo di una qualche forma di modello per farlo. Io provo a dare un contributo in questa direzione, collocando il riot nel contesto dell’analisi dell’economia politica, guardandolo come una forma di lotta di classe, cercando di legarlo alle trasformazioni della composizione di classe. Certamente rimangono fuori molte cose da questo schema, ma credo che al contempo sia un modo per colmare certe lacune.

D: Nelle conclusioni del tuo libro colleghi il riot alla forma-Comune. Questo legame è interessante perché il problema del riot è che tendenzialmente, perlomeno su un piano esteriore, non costruisce uno sviluppo politico. Questa tua indicazione sembra invece provare ad andare in questa direzione, guardando al riot come un’espressione del politico contemporaneo e cercando di articolarne possibili sviluppi. Potresti quindi dire qualcosa su questo tema, anche magari a partire da qualche esempio storico?

R: Ci sono state molte critiche al riot, sia ultimamente che nella storia. Di cui la principale è che non ci sia nulla di politico in esso, se non la reazione spasmodica a condizioni insopportabili molto specifiche (il prezzo troppo alto dei beni di consumo, la violenza razzializzata ecc..). Quindi il primo passaggio che ho provato invece a fare è il cercare di comprenderlo come parte della dialettica di sviluppo del capitale. Ossia, al di là che ci interessi o meno ragionare del grado di consapevolezza individuale di chi partecipa al riot, il punto è renderlo una forma comprensibile del rapporto sociale di tipo capitalistico. Un qualcosa di condizionato dalla classe, dall’esclusione, come forma della lotta di classe che spesso si intreccia con la linea della razza. I marxisti ortodossi hanno sempre avuto problemi con le lotte legate alla razza, con le lotte delle donne, non considerandole sufficientemente politiche – e il mio è invece un tentativo di invertire questo discorso. Ciò detto, è ovvio che il riot ha molti limiti. Se storicamente era una strategia che mirava a fissare i prezzi dei beni sul mercato e che si determinava appunto sul mercato e non nella fabbrica, nei luoghi della produzione, diviene oggi un progetto per le comunità che sono state gettate nel mercato per sopravvivere alla violenza di Stato ma anche per potersi riprodurre. È per questo che il saccheggio è inscindibile dal riot, è un suo elemento centrale, e deve esserlo. Ma evidentemente la capacità delle comunità di riprodursi attraverso il riot è limitata. Se anche si saccheggiano completamente tutti i supermercati una comunità può in questo modo riprodursi per pochi giorni, poche settimane al limite, ma non è una soluzione di lungo periodo. Questo in particolare dopo la logistics revolution, da quando cioè la produzione è stata disaggregata e non si vive più vicino ai luoghi in cui concretamente si produce il cibo, i vestiti ecc… Questa grossa disaggregazione della produzione rende quindi il riot assolutamente insufficiente in sé, ed è su questo che è necessario inserire un passaggio verso una comune – che significa il risolvere il problema della riproduzione comune. È chiaro: muoversi in questa direzione pone immediatamente una sfida alle forze del capitale. Possiamo immaginarci la comune come una sorta di sconnessione (de-linking), e la comune di Parigi è sicuramente un buon esempio, ma ce ne sono molti altri: quello della comune di Morelos in Messico dal 1915 al 1919, quella di Shangai, quella di Oaxaca nel 2006 e molte altre. Tutte queste situazioni si confrontano con due fondamentali problemi: quello della riproduzione comune al di fuori dei circuiti del capitale, quando non c’è salario né mercato (e nemmeno la comune di Parigi c’è riuscita, ma questo dev’essere l’orizzonte, una politica oltre il lavoro salariato e il mercato) – e dunque se il riot è oltre il salario, la comune è oltre il salario e il valore (price), e il tema è come potersi riprodurre in tali circostanze; la seconda questione è come ci si può confrontare in tale situazione con il capitale, perché il capitale non consentirà che le persone si possano scollegare dicendo “ok, fatevi pure i fatti vostri, producetevi il cibo ecc..”, perché il capitale necessita di lavoro e valore, di organizzare attorno ad essi la popolazione, e di espandersi di continuo. Su questo si innesta il come una comune possa essere anche una macchina da guerra – riprendendo il termine da Deleuze e Guattari, sebbene io non sia un loro particolare ammiratore. Come possiamo riprodurci e al contempo difenderci, insomma.

D: Qual è per te oggi la dimensione globale di questo discorso, e quali sono le specificità che invece si definiscono alle differenti latitudini.

R: C’è una grossa differenza a partire dalla specifiche dinamiche temporali di sviluppo capitalistico che si definiscono in Argentina, in Cina o negli Stati Uniti. C’è una differente temporalità dello sviluppo e della composizione di classe, nelle forme di lavoro, nel tipo di precarietà, nella struttura del salario, che variano di luogo in luogo. Ma ci sono anche specifiche relazioni: i piqueteros di fine anni Novanta e primi Duemila sono stati un’ispirazione per Oakland nell’ultimo decennio ad esempio, e comunque questo passaggio del capitale alla circolazione è un qualcosa di globale, che avviene in modo differenti ma non indipendenti tra loro a livello globale. Se si pensa ai riot nelle banlieue, agli UK riots del 2011, ciò che vediamo che hanno in comune è che assistiamo spesso a una sorta di doppio riot, molto vicini tra loro ma agiti da popolazioni differenti. L’anno prima dei riot di Tottenham c’erano stati importanti riot studenteschi a Londra, e similarmente nel 2005 ai riot delle banlieue erano seguite le lotte studentesche contro il CPE. Uguale in California: riot nel 2009 contro l’omicidio di Oscar Grant agito soprattutto da parte del proletariato nero e poi dei riot studenteschi. Questa dinamica di riot ravvicinati tra una composizione studentesca per lo più bianca e una composizione proletaria per lo più razzializzata ci parla di due dimensioni differenti. Da un lato c’è una composizione giovanile, mobile, impaurita dalla perdita di futuro, e dall’altra c’è una componente di esclusione, che non si pone il problema della mobilità sociale essendo avvitata in una dinamica di impoverimento. La questione allora è se queste due composizione, quella giovanile e mobile e gli esclusi, possano trovare percorsi di convergenza, ed è in quel caso che si definiscono gli ingredienti per la possibilità di una comune, quando queste due soggettività trovano non tanto una reciproca solidarietà, ma una vera e propria unità politica e progettuale, una forma di lottare assieme che possa definire dinamiche collettive, che possa appunto operare come una comune.

D: Un’ultima domanda: potresti parlare un po’ della situazione negli Stati Uniti?

R: È interessante, anche se diciamo un po’ nuvolosa. Le cose sembravano chiare nel 2011, quando c’era il movimento Occupy, che era possibile leggere in connessione con tutte le piazze in occupazione, che era possibile inserire all’interno della storia delle occupazioni, e questa forma di convergenza di tante persone consentiva di conoscersi, non solo nelle singole piazze ma anche tra differenti persone a New York, Philadelphia, Chicago… Ma da allora in qualche modo il movimento è diventato più ambiguo, ma anche più impressionante. Ci sono in particolare due esperienze, quella di Standing Rock che lottava per bloccare la costruzione di una pipeline, e Black Lives Matter. Ed entrambi sono parzialmente ambigui, per esempio BLM ha almeno tre correnti al suo interno, molto diverse: una interessata alla politica istituzionale, a incidere sul piano legislativo, legata a un discorso di razza; un’altra in qualche modo nel mezzo; la terza è quella dei rioters a Ferguson, Charlottesville, Baltimore… La prima è alla ricerca di un potere all’interno dello Stato, la seconda si muove verso un discorso tutto centrato sull’organizzazione, mentre la terza si concentra solo sul riot. E questo è Black Lives Matter… un fenomeno estremamente complesso, che ancora facciamo fatica a conoscere, ma è chiaramente estremamente significativo, forse il più importante negli USA. Ciò detto, penso che il momento più potente negli ultimi anni sia stato il blocco a Standing Rock, perché penso che il futuro di una politica dell’azione diretta – in parte per la contrazione della sfera della produzione negli Stati Uniti – sarà sempre di più legato alla circolazione e al territorio piuttosto che alle fabbriche e alla produzione. Quindi penso che nei prossimi anni vedremo molti di questi fenomeni, di decise circulation struggles che coinvolgono grandi progetti infrastrutturali mettendo in agitazione ampie fette di popolazione – a partire dalla popolazioni “indigene” in lotta per la loro terra, per il territorio, che reclamano una forma di sovranità e una gamma di questioni ben lontane dal discorso dei diritti sul lavoro. E credo che questo sarà l’orientamento di molte delle lotte più importanti negli Stati Uniti nei prossimi 5-10 anni.