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11 settembre 2018

 

Come monadi sul metrò

di Alessandro Montefameglio

 

Nell'epoca delle iperconnessioni, dei social e dei seguaci è la solitudine a scandire i nostri viaggi metropolitani.

 

Prima di tutto una suggestione proustiana. Il passo è a dir poco celebre ed è collocato in quella sezione iniziale del primo romanzo del ciclo della Recherche che tutti gli amanti dell’autore francese ricordano come il bacio della buonanotte. Il piccolo Marcel riesce a trovarsi eccezionalmente solo con la madre in camera da letto, grazie a un inaspettato gesto d’indulgenza del padre, per ottenere il tanto desiderato bacio. Proust, tramite un esperto gioco narrativo, ci racconta l’aneddoto dal suo presente di autore che scrive. Con la misurata pudicizia di qualche sineddoche ci informa di come niente che si possa toccare o udire di quel mondo che un tempo era stato la sua casa d’infanzia e che era stato il luogo di quel bacio sia ormai rimasto. Proust si ricorda però, concentrandosi, i singhiozzi trattenuti per non farsi sentire dal padre, scoppiati solo una volta trovatosi solo con la madre, quei singhiozzi che – similitudine indimenticabile – ora risuonano come le campane di convento che il clamore della città copre di giorno e si rimettono a suonare nel silenzio della notte. Questo ricordo uditivo così preciso, così unico e flebile, foriero di un cosmo perduto che la memoria e la scrittura tentano di recuperare, è reso possibile solo da una condizione, cioè dal fatto che la vita dell’autore che scrive si è fatta più silenziosa, proprio come la notte in cui è facile udire le campane.

 

Marcel Proust

 

C’è un certo senso di sollievo in questo ricordo proustiano. Chi vede senza sentire dice d’altra parte Benjamin nei Passagge, citando Simmel, è molto più turbato di chi ascolta senza vedere. Il passo appena citato si potrebbe applicare anche ai ricordi, come quelli di Proust, ma si riferisce nella fattispecie a una certa sociologia delle grandi metropoli, dove in molte situazioni, banalmente quotidiane, interviene a inquietarci un certo senso di vertigine: si è in mezzo alla folla in un grande mercato, in un atrio di banche, al pronto soccorso di un grande ospedale, in un locale, persino in chiesa, il luogo del silenzio, o si è seduti sul sedile di un metrò, dove guardando fuori dal finestrino non ci colpisce la gran calca umana che affolla gli spazi, ma i tanti sguardi immobili (tra cui il nostro, riflesso sul vetro) che ci accerchiano. Una situazione che appare diametralmente opposta a quella evocata da Proust.

 

Osservando per esempio Autoritratto con maschere, dipinto nel 1889 da James Ensor, non ci colpisce solo la presenza piena, tangibile e angosciosa della massa dei volti mascherati e mostruosi che circonda il viso della figura che ci osserva, ma lo sguardo del pittore, su cui non ci sono segni di angoscia né di fretta, e di cui percepiamo chiaramente il silenzio pieno di solitudine. La figura è come una presenza muta nel caos di un chiasso indistinto, come quello che si potrebbe udire nel vagone di un metrò o in una metropoli. D’altra parte se spesso utilizziamo il pretesto dell’attesa in un metrò, come già abbiamo sottolineato altrove, per concederci un momento di riposo ristoratore, questo ci è negato paradossalmente anche dal silenzio. Non il silenzio derivato dall’improvvisa interruzione di rumori di pneumatici e clacson, tipico dei luoghi sotterranei, ma da quello che il vociare dei pendolari e della voce metallica che annuncia le fermate sembra paradossalmente generare. Tutti parlano, ma sono tutti muti. Parliamo anche noi. Magari per qualche istante scambiamo qualche riverbero sonoro, se i volti ci turbano spediamo un messaggio vocale, ma non abbiamo detto nulla.

 

Autoritratto con maschere, James Ensor

 

Bisogna essere molto forti per amare la solitudine diceva Pasolini. Sì, ma questa non è la solitudine che si prova una sera d’inverno, non è la solitudine del nomade chiuso nel suo ricovero e non è la solitudine di Proust, al quale il silenzio della sua vita, allora attuale, permetteva di far riemerge il ricordo dei suoi singhiozzi di bambino, come campane che il silenzio della notte fa risentire vive dopo i chiassi del giorno. Noi viviamo nel perenne giorno di quelle campane. Il nostro silenzio e la nostra solitudine sono quelle che nascono per contrasto, in negativo, dal loro opposto; sono quelle che si ascoltano o si provano in luoghi che sono tutt’altro che silenziosi; sono silenzi e solitudini rumorosi, in cui il ricordo di un semplice singhiozzo non è un lusso di facile concessione.

 

Riguardando L’assenzio di Degas, quanto ci suonano lontane quelle solitudini… La donna e il clochard, di fronte al bicchiere di pozione verde, sono seduti a un tavolo, di fronte a una festa che lo spettatore non può vedere. Solitudini mai svanite, certo, e anzi spesso incitate dal mondo globale. Ma di questo già ci parlava Bauman e già ce ne parlava Balzac nelle sue Illusioni perdute, dove perlomeno il ventiduenne Lucièn, solo nella sua povera stanza nel Quartiere Latino, combatte i colpi che il capitalismo della Parigi di metà Ottocento infligge ai suoi sogni letterari con la compagnia di una brigata di giovani altrettanto perduti, amici di letture e di taverna che condividono le solitudini dei quartieri poveri della ville lumière. Non ci stupiamo più di sapere che molto spesso gli stati depressivi, oggi, sono conseguenza di queste solitudini, cresciute esponenzialmente nel corso della nostra storia… Ma stiamo parlando d’altro. Non parliamo di chi è relegato o di chi è costretto a vivere ai margini, ma di chi è immischiato più che mai nei giochi dialettici della società più sociale di tutti i tempi; di chi ha porti dappertutto, collegamenti ovunque, seguaci e sostenitori da ogni parte, amici in ogni lato del globo; dei malati di contatto, di chi la vita la vive appieno e connesso.

 

Parliamo della solitudine che si manifesta quando ci scopriamo, sul sedile di un metrò, assomigliare a quelle che la filosofia di Leibniz chiamava monadi, parola già cara a Plotino e a Bruno, e che il pensatore di Lipsia utilizzava per designare quei particolarissimi atomi spirituali, tanto chiusi ed ermetici da rendere impossibile un loro qualsivoglia rapporto con l’esterno che non sia virtuale e che, paradossalmente, contengono al proprio interno, come in un gioco di specchi, tutto il mondo a loro vietato, il resto, le altre monadi. L’interno e l’esterno… Una dialettica della solitudine se lo si vuole, quando non ci sono porte e finestre che ci permettano di accedere a quell’al di là che il nostro al di qua ci vieta di toccare con mano.

 

Non accade lo stesso quando la tecnologia inverte il modo con cui partecipiamo del mondo? Quando lo vediamo come il riflesso di una camera oscura, in negativo, su uno schermo quattro pollici, lo schermo UHD che riveste le pareti della nostra monade? Lo stesso schermo che ci informa del meteo, della lezione di yoga di una ventenne australiana, del numero dei morti a causa di un attentato terroristico a Parigi e dei compleanni dimenticati? E quando il silenzio si fa chiaro, non più mascherato dalle cuffie e dagli abbonamenti musicali, si scopre per una strana entropia sociale di avere accanto un uomo o una donna, sconosciuti, monadi anche loro (o topi, se stiamo al bel cortometraggio di Steve Cutts, Happiness), identiche a noi, chiuse e connesse col resto solo da un rapporto virtuale. Parliamo pure, se vogliamo, ma la nostra voce è muta, insignificante, coperta come le campane di Proust che il chiasso del giorno nasconde.

 

Fotogramma tratto da Happiness, cortometraggio di Steve Cutts: alcuni topi attendono il metrò

 

Un concetto che ci può venire in aiuto per comprendere definitivamente ciò di cui stiamo parlando ci è offerto dalla riflessione di Jean-Paul Sartre nella sua Critica della ragione dialettica, testo degli anni ’60 in cui Sartre distingue da una parte ciò che chiama serie e dall’altra ciò a cui dà il nome di gruppo. In una serie gli individui sono una molteplicità discreta, una pluralità di solitudini unite da rapporti solo formali, di contingenza, atomi o monadi che si trovano in contatto tra di loro in attesa all’ufficio postale o nel vagone di un metrò. Il loro rapporto è del tutto occasionale e dettato da una necessità che li sorpassa (devo arrivare, in quel luogo, ma dato che lo spazio del vagone è limitato, siederò accanto a questo o quell’individuo).

 

Non c’è una forma reale di comunanza, non c’è comunicazione reale tra gli individui: essi sono alienati per il fatto che le regole che li riuniscono in serie li trascendono, sono inerti e, anzi, in una condizione di potenziale inimicizia. Il gruppo invece è una prassi attivo-intenzionale di soggetti collegati non più alla maniera delle monadi. C’è un carattere di solidarietà, di coesione nel gruppo. Esso nasce in reazione (qui lo spettro di Marx) a una volontà precisa di uscire dalla serialità e di colmarne il vuoto, perché un bisogno spinge a fare questo, un pericolo comune che conduce a una prassi comune (Rousseau chiamerebbe tutto ciò, probabilmente, io comune). Se anzi il gruppo è tanto coeso da diventare quell’unico soggetto in corsa verso la Bastiglia, nella Parigi del 1789, esso diventa in fusione, un gruppo dove tutti sono capi e gregari, dove la fraternità e il moto comune è l’unica cosa che conta, in quello spazio, in quel quartiere. Quello che oggi viviamo lo possiamo chiamare in tutta tranquillità (e inquietudine) serialità.

 

Jean-Paul Sartre

 

Prima dell’avvento degli omnibus, delle ferrovie e dei tram del XIX secolo, dicevano Benjamin e Simmel, la gente non si era mai trovata nella condizione di guardarsi in faccia per minuti o intere ore senza rivolgersi la parola (in serialità, direbbe Sartre). Un mondo ormai superato o semplicemente gli esordi di un processo che oggi ha il suo vertice? C’è dietro gli sguardi muti e alieni di Benjamin un pericolo che inquieta, un pericolo davanti al quale fuggire per ripararsi nella nostra monade, fatta di contatti solo simulati, di sguardi muti. Parlare piuttosto, guardare piuttosto, cercare piuttosto, ma virtualmente, come una buona monade fa. Non si può ignorare tuttavia che tutti quegli sguardi muti sono anche la condizione necessaria di quel metro. Riuscissimo a scoprire nella monade una porta aperta, d’altra parte, a cosa ci porterebbe? Cosa ci troveremmo di fronte? Non vogliamo forzarci a dire, drammaticamente, il volto dell’Altro di lèvinassiana memoria, ma forse, più semplicemente, un volto amabile, una monade aperta, che dall’altro lato del vagone ci mette in soggezione e ricambia lo sguardo, giusto per dichiarare che Mark Twain aveva ragione: L’uomo è l’unico animale che arrossisce. O che dovrebbe arrossire.