Fonte: la Jornada https://comune-info.net/ 30 agosto 2017
Possiamo chiamarci indigeni? di Gustavo Esteva Traduzione a cura di Camminardomandando
La proposta lanciata dal Consiglio Indigeno di Governo e dagli zapatisti, in occasione della candidatura di María de Jesús Patricio Martínez alla presidenza del Messico, non è certo rivolta alla competizione per ottenere voti. Intende portare all’attenzione di tutti le condizioni in cui vivono i popoli indigeni e contribuire a una ricostruzione politica sociale smantellando gli apparati marci dello Stato, spiega Gustavo Esteva. Riapre, però, anche alcuni aspetti della grande questione dell’ identità indigena: gran parte di coloro che fanno parte di popoli indigeni non si definiscono come tali, soprattutto in relazione al significato coloniale della parola, cioè “originario del Paese in questione”. A partire dalla Dichiarazione di Barbados (1971), il termine ‘indigeno’ ha cominciato a essere usato come affermazione politica, il che gli ha dato un significato nuovo, non necessariamente dipendente dalla nascita o dall’affiliazione. Il Consiglio Nazionale Indigeno non è stato creato infatti come un’organizzazione, un partito o una forma di categorizzazione, ma come uno spazio di incontro di coloro che sono assemblea quando sono insieme e sono rete quando sono separati. Inoltre, nel Consiglio Indigeno di Governo potrà entrare qualsiasi persona che si dichiari indigena, secondo il principio di autodefinizione riconosciuto a livello internazionale. Ma che fare con gli altri? Chi sono i “non indigeni”?
La proposta del Congresso Nazionale Indigeno (CNI) e degli zapatisti è un appello molto ampio che viene rivolto all’intera società e che esige risposte chiare e impegnate. Ci chiama innanzitutto a prestare attenzione alla situazione dei popoli indigeni, alla costante aggressione a cui sono sottoposti, alla dignità di cui danno prova sul fronte dell’attuale guerra a cui sono stati condotti. Imparare a vedere con chiarezza quello che si sta verificando con loro è anche un modo per approfondire la comprensione della situazione attuale, che riguarda tutte e tutti. Siamo chiaramente in un momento di pericolo, e prestare l’orecchio al richiamo del CNI è un modo per svegliarci. L’appello è molto esplicito: non è rivolto soltanto ai popoli indigeni. Anche il Consiglio Indigeno di Governo non è soltanto per loro. Cercano alleanze con persone e gruppi molto diversi, con l’immensa gamma di scontenti che sono emersi e in particolare con quelli che condividono la loro scelta anticapitalistica e lottano come loro dal basso e a sinistra. Non si mettono a competere con nessuno per i voti, perché il loro obiettivo è quello di mettere in luce le condizioni attuali dei popoli indigeni e di contribuire alla ricostruzione sociale e politica, smantellando gli apparati marci dello Stato. La proposta riaccende innanzi tutto vecchi dibattiti sull’identità indigena, che possono essere appassionanti e produttivi, ma anche destabilizzanti e pericolosi. Bisogna riconoscere, prima di tutto, che la maggior parte di coloro che appartengono a popoli indigeni non definiscono se stessi come ‘indigeni’. Associano la loro identità fondamentale alle loro matrie [declinazione al femminile del termine patriarcale ‘patria’], ai luoghi della Madre Terra a cui appartengono e ai popoli di cui fanno parte. Sono zapotechi del Rincón o triqui di Chicahuaxtla, o più chiaramente sono ciò che dicono nelle loro lingue quando esprimono ciò che sono stati e sono “gli uomini della vera parola”, ad esempio. Non si chiamano indigeni. Il termine indigeno ha cominciato ad essere utilizzato quando si è riconosciuto che ‘indio’ era un’espressione peggiorativa, ma questo non ha eliminato il carattere coloniale dell’etichetta applicata ai popoli assai diversi che esistevano nel territorio invaso dagli spagnoli. La Reale Accademia mantiene le accezioni peggiorative di ‘indio’ e mette in luce l’equivoco coloniale di ‘indigeno’: “originario del Paese in questione”. I popoli di qui esistevano prima del Paese… Anche a causa di queste difficoltà ed equivoci, e per evitare le etichette coloniali, si è cominciato ad usare l’espressione ‘popoli originari’ o ‘nativi’, con cui si intende sottolineare il loro carattere autentico, la loro esistenza precedente alla costituzione dello Stato-nazione. Ma non è un’espressione popolare e comunemente diffusa, e risulta insufficiente. Da anni, e in particolare dalla Dichiarazione di Barbados (1971), il termine ‘indigeno’ ha cominciato ad essere usato come affermazione politica, il che gli ha dato un significato nuovo (1). In questo senso viene utilizzato nella convocazione del Foro Nazionale Indigeno e più ancora nel documento con cui è stato costituito il Congresso Nazionale Indigeno, che ha potuto dichiarare con fermezza: “Mai più un Messico senza di noi”, con il noi chiaro e fermo di tutti quei popoli originari. Il CNI non è stato creato come un’organizzazione, un partito o una forma di categorizzazione, ma come uno spazio di incontro di coloro che sono assemblea quando sono insieme e sono rete quando sono separati. Il CNI ha segnalato che accetterà al suo interno o nel Consiglio Indigeno di Governo qualsiasi persona che si dichiari indigena, secondo il principio di autodefinizione riconosciuto a livello internazionale. Ma che fare con gli altri? Chi sono i non indigeni? Come si costituiscono o si identificano, al di là di categorie astratte come quella di uomini o donne, messicane o messicani? L’esigenza di organizzarsi riguarda anche loro, perché possano costituire dei noi reali, capaci di autonomia e di autogoverno. Rolando Vamos propone che si ‘indigenizzino’, se il termine è inteso come il legame con un luogo. Se infatti gli individui sradicati costruiti dal capitalismo e dallo Stato nazione abbandonano questa condizione di oppressione e mettono radici in un luogo fisico e culturale, se costruiscono matrie a cui decidono liberamente di appartenere, starebbero contribuendo alla ricostruzione della società. Tutto questo richiederà molte demarcazioni, sia a livello di mentalità che nella pratica. C’è inevitabilmente bisogno di tracciare delle linee, perché nella lotta che conduciamo e che si intensifica giorno dopo giorno è importante sapere chi è chi. Non stiamo lottando nel vuoto. Viviamo in guerra. Se non è chiaro da quale parte ciascuno milita, si può trovarsi a collaborare con il nemico. Queste distinzioni saranno sempre più necessarie, indipendentemente dalle identità che derivano dalla nascita o dall’affiliazione.
DECLARACIÓN DE BARBADOS:
«POR LA LIBERACION DEL INDÍGENA»
30 de enero de 1971
Los antropólogos participantes en el Simposio sobre la fricción interétnica en América del Sur, reunidos en Barbados los días 25 al 30 de enero de 1971, después de analizar los informes presentados acerca de la situación de .las poblaciones indígenas, tribales y de varios países del área, acordaron elaborar este documento y presentarlo a la opinión pública con la esperanza de que contribuya al esclarecimiento de este grave problema continental y a la lucha de liberación de los indígenas.
Los indígenas de América continúan sujetos a una relación colonial de dominio que tuvo su origen en el momento de la conquista y que no se ha roto en el seno de las sociedades nacionales. Esta estructura colonial se manifiesta en el hecho de que los territorios ocupados por indígenas se consideran y utilizan como tierras de nadie abiertas a la conquista y a la colonización. El dominio colonial sobre las poblaciones aborígenes forma parte de la situación de dependencia externa que guardan la generalidad de los países latinoamericanos frente a las metrópolis imperialistas. La estructura interna de nuestros países dependientes los lleva a actuar en forma colonialista en su relación con las poblaciones indígenas, lo que coloca a las sociedades nacionales en la doble calidad de explotados y explotadores. Esto genera una falsa imagen de las sociedades indígenas y de su perspectiva histórica, así como una autoconciencia deformada de la sociedad nacional.
Esta situación se expresa en agresiones reiteradas a las sociedades aborígenes, tanto a través de acciones intervencionistas supuestamente protectoras, como en los casos extremos de masacres y desplazamientos compulsivos, a los que no son ajenas las fuerzas armadas y otros órganos gubernamentales. Las propias políticas indigenistas de los gobiernos latinoamericanos se orientan hacia la destrucción de las culturas aborígenes y se emplean para la manipulación y el control de los grupos indígenas en beneficio de la consolidación de las estructuras existentes. Postura que niega la posibilidad de que los indígenas se liberen de la dominación colonialista y decidan su propio destino.
Ante esta situación, los Estados, las misiones religiosas y los científicos sociales, principalmente los antropólogos, deben asumir las responsabilidades ineludibles de acción inmediata para poner fin a esta agresión, contribuyendo de esta manera a propiciar la liberación del indígena.
RESPONSABILIDAD DEL ESTADO
No caben planteamientos de acciones indigenistas que no busquen la ruptura radical de la situación actual: liquidación de las relaciones coloniales externas e internas, quebrantamiento del sistema clasista de explotación y de dominación étnica, desplazamiento del poder económico y político de una minoría oligárquica a las masas mayoritarias, creación de un estado verdaderamente multiétnico en el cual cada etnia tenga derecho a la autogestión y a la libre elección de alternativas sociales y culturales.
El análisis que realizamos demostró que la política indigenista de los estados nacionales latinoamericanos ha fracasado tanto por acción como por omisión. Por omisión, en razón de su incapacidad para garantizar a cada grupo indígena el amparo específico que el Estado le debe y para imponer la ley sobre los frentes de expansión nacional. Por acción, debido a la naturaleza colonialista y clasista de sus políticas indigenistas.
Este fracaso arroja sobre el Estado culpabilidad directa o connivencia con muchos crímenes de genocidio y etnocidio que pudimos verificar. Estos crímenes tienden a repetirse y la culpabilidad recaerá directamente sobre el Estado que no cumpla los siguientes requisitos mínimos:
1) El Estado debe garantizar a todas las poblaciones indígenas el derecho de ser y permanecer ellas mismas, viviendo según sus costumbres y constituir entidades étnicas específicas.
2) Las sociedades indígenas tienen derechos anteriores a toda sociedad nacional. El Estado debe reconocer y garantizar a cada una de las poblaciones indígenas la propiedad de su territorio registrándolas debidamente y en forma de propiedad colectiva, continua, inalienable y suficientemente extensa para asegurar el incremento de las poblaciones aborígenes.
3) El Estado debe reconocer el derecho de las entidades indígenas a organizarse y regirse según su propia especificidad cultural, lo que en ningún caso puede limitar a sus miembros para el ejercicio de todos los derechos ciudadanos, pero que, en cambio, los exime del cumplimiento de aquellas obligaciones que entran en contradicción con su propia cultura.
4) Cumple al Estado ofrecer a las poblaciones indígenas la misma asistencia económica, social, educacional y sanitaria que al resto de la población; pero además; tiene la obligación de atender las carencias específicas que son resultados de su sometimiento a la estructura colonial, y, sobre todo, el deber de impedir que sean objeto de explotación por parte de cualquier sector de la sociedad nacional, incluso por los agentes de la protección oficial.
5) El Estado debe ser responsable de todos los contactos con grupos indígenas aislados, en vista de los peligros bióticos, sociales, culturales y ecológicos que representan para ellos el primer impacto con los agentes de la sociedad nacional.
6) Los crímenes y atropellos que resultan del proceso expansivo de la frontera nacional son de responsabilidad del Estado, aunque no sean cometidos directamente por sus funcionarios civiles o militares.
7) El Estado debe definir la autoridad pública nacional específica que tendrá a su cargo las relaciones con las entidades étnicas que sobreviven en su territorio; obligación que no es transferible ni delegable en ningún momento ni bajo ninguna circunstancia.
LA RESPONSABILIDAD DE LAS MISIONES RELIGIOSAS
La obra evangelizadora de las misiones religiosas en América Latina corresponde a la situación colonial imperante, de cuyos valores está impregnada. La presencia misionera ha significado una imposición de criterios y patrones ajenos a las sociedades indígenas dominadas, que bajo un manto religioso encubren la explotación económica y humana de las poblaciones aborígenes.
El contenido etnocéntrico de la actividad evangelizadora es un componente de la ideología colonialista, y está basada en:
1) Su carácter esencialmente discriminatorio originado en una relación hostil frente a las culturas indígenas, a las que conceptúan como paganas y heréticas;
2) Su naturaleza vicarial, que conlleva la deificación del indígena y su sometimiento a cambio de futuras compensaciones sobrenaturales;
3) Su carácter espurio, debido a que los misioneros buscan en esa actividad una realización personal, sea ésta material o espiritual; y
4) El hecho que las misiones se han convertido en una gran empresa de recolonización y dominación, en convivencia con los intereses imperialistas dominantes.
En virtud de este análisis llegamos a la conclusión que lo mejor para las poblaciones indígenas, y también para preservar la integridad moral de las propias iglesias, es poner fin a toda actividad misionera. Hasta que se alcance este objetivo cabe a las misiones un papel en la liberación de las sociedades indígenas, siempre que se atengan a los siguientes requisitos:
1) Superar el herodianismo intrínseco a la actividad catequizadora como mecanismo de colonización, europeización y alienación de las poblaciones indígenas;
2) Asumir una posición de verdadero respeto frente a las culturas indígenas poniendo fin a la larga y vergonzosa historia de despotismo e intolerancia que ha caracterizado la labor de los misioneros, quienes rara vez revelaron sensibilidad frente a los valores religiosos indígenas;
3) Poner fin al robo de propiedades indígenas por parte de misiones religiosas que se apropian de su trabajo, tierras y demás recursos naturales, y a su indiferencia frente a la constante expropiación de que son objeto por parte de terceros;
4) Extinguir el espíritu suntuario y faraónico de las misiones que se materializa en múltiples formas, pero que siempre se basa en la explotación del indio.
5) Poner fin a la competencia entre confesiones y agencias religiosas por las almas de los indígenas, que da lugar, muchas veces, a operaciones de compra-venta de catecúmenos, y que, por la implantación de nuevas lealtades religiosas, los divide y los conduce a luchas intestinas;
6) Suprimir las prácticas seculares de ruptura de la familia indígena por internamiento de los niños en orfanatos donde son imbuidos de valores opuestos a los suyos, convirtiéndolos en seres marginados incapaces de vivir tanto en la sociedad nacional como en sus propias comunidades de origen;
7) Romper con el aislamiento seudo-moralista que impone una ética falsa que inhabilita al indígena para una convivencia con la sociedad nacional: ética que, por otra parte, las iglesias no han sido capaces de imponer en la sociedad nacional;
8) Abandonar los procedimientos de chantaje y consistentes en ofrecer a los indígenas bienes y favores a cambio de su total sumisión;
9) Suspender inmediatamente toda práctica de desplazamiento o concentración de poblaciones indígenas con fines de catequización o asimilación, prácticas que se reflejan en el inmediato aumento de morbilidad, la mortalidad y la descomposición familiar de las comunidades indígenas;
10) Abandonar la práctica criminal de servir de intermediarios para la explotación de la mano de obra indígena.
En la medida en que las misiones no asuman estas obligaciones mínimas incurren en el delito de etnocidio o de connivencia con el genocidio.
Por último, reconocemos que recientemente elementos disidentes dentro de las iglesias están tomando una clara posición de autocrítica radical a la acción evangelizadora y han denunciado el fracaso histórico de la actividad misional.
LA RESPONSABILIDAD DE LA ANTROPOLOGÍA
1) Desde su origen la Antropología ha sido instrumento de la dominación colonial; ha racionalizado y justificado en términos académicos, abierta o subrepticiamente, la situación de dominio de unos pueblos sobre otros, y ha adoptado conocimientos y técnicas de acción que sirven para mantener, reforzar o disfrazar la relación colonial. América Latina no ha sido excepción y con frecuencia creciente programas nefastos de acción sobre los grupos indígenas y estereotipos y distorsiones que deforman y encubren la verdadera situación del indio, pretenden tener su fundamento científico en los resultados del trabajo antropológico.
2) Una falsa conciencia de esa situación ha conducido a muchos antropólogos a posiciones equivocadas. Éstas pueden clasificarse en los siguientes tipos:
a) El cientifismo que niega cualquier vínculo entre la actividad académica y el destino de los pueblos que forman el objeto de esa misma actividad, eliminando la responsabilidad política que conlleva el conocimien
b) La hipocresía que se manifiesta en la protesta retórica sobre la base de principios generales, pero que evita cuidadosamente cualquier compromiso con situaciones concretas.
c) El oportunismo que aunque reconoce la penosa situación actual del indio, niega la posibilidad de transformarla, mientras afirma la necesidad de «hacer algo» dentro del esquema vigente; lo que en última instancia se traduce en un reforzamiento de ese mismo sis
3) La Antropología que hoy se requiere en Latinoamérica no es aquella que toma a las poblaciones indígenas como meros objetos de estudio, sino la que los ve, como pueblos colonizados y se compromete en su lucha de liberación.
4) En este contexto es función de la Antropología: Por una parte, aportar a los pueblos colonizados todos los conocimientos antropológicos, tanto acerca de ellos mismos como de la sociedad que los oprime a fin de colaborar con su lucha de liberación. Por otra, reestructurar la imagen distorsionada que existe en la sociedad nacional respecto a los pueblos indígenas desenmascarando su carácter ideológico colonialista.
5) Con miras a la realización de los anteriores objetivos, los antropólogos tienen la obligación de aprovechar todas las coyunturas que se presenten dentro del actual sistema para actuar en favor de las comunidades indígenas. Cumple al antropólogo denunciar por todos los medios los casos de genocidio y las prácticas conducentes al etnocidio, así como volverse hacia la realidad local para teorizar a partir de ella, a fin de superar la condición subalterna de simples ejemplificadores de teorías ajenas.
EL INDÍGENA COMO PROTAGONISTA DE SU PROPIO DESTINO
1) Es necesario tener presente que la liberación de las poblaciones indígenas es realizada por ellas mismas, o no es liberación. Cuando elementos ajenos a ellas pretenden representarlas o tomar la dirección de su lucha de liberación, se crea una forma de colonialismo que expropia a las poblaciones indígenas su derecho inalienable a ser protagonistas de su propia lucha.
2) En esta perspectiva es importante valorar en todo su significado histórico la dinamización que se observa hoy en las poblaciones indígenas del continente, y que las está llevando a tomar en sus manos su propia defensa contra la acción etnocida y genocida de la sociedad nacional. En esta lucha, que no es nueva, se observa hoy la aspiración de realizar la unidad pan-indígena latinoamericana y, en algunos casos, un sentimiento de solidaridad con otros grupos oprimidos.
3) Reafirmamos aquí el derecho que tienen las poblaciones indígenas de experimentar sus propios esquemas de auto-gobierno, desarrollo y defensa, sin que estas experiencias tengan que adaptarse o someterse a los esquemas económicos y socio-políticos que predominen en un determinado momento. La transformación de la sociedad nacional es imposible si esas poblaciones no sienten que tienen en sus manos la creación de su propio destino. Además, en la afirmación de su especificidad socio-cultural las poblaciones indígenas, a pesar de su pequeña magnitud numérica, están presentando claramente vías alternativas a los caminos ya transitados por la sociedad nacional.
Barbados, 30 de Enero de 1971.
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