fonte: La Jornada http://comune-info.net/ 10 gennaio 2017
Il potere de abajo di Raúl Zibechi Traduzione di Marco Calabria
Che i popoli indigeni del Messico decidano di creare un consiglio di governo sembra un fatto grande importanza. Milioni di uomini e di donne stabiliscono il proprio autogoverno in modo coordinato, in un solo consiglio, che rappresenta tutti e tutte. È uno spartiacque per gli indigeni, che potrebbe avere ripercussioni in tutta la società, come avvenne nel gennaio del 1994. Raúl Zibechi commenta con ottimismo la decisione presa dall’Ezln e dal Congresso Nazionale Indigeno dopo l’ampia consultazione e l’approvazione della proposta da parte di 43 diversi popoli. L’attenzione dei media “a pagamento” si è concentrata e si concentrerà sulla portavoce indigena che verrà candidata nelle elezioni messicane del 2018 ma la cultura politica che praticano gli zapatisti e il CNI consiste nel promuovere l’autogoverno di tutti i settori della società, non hanno mai voluto governare gli altri. E non hanno alcuna intenzione di competere con i politici professionisti, perché – dicono – “non siamo la stessa cosa” Non era mai accaduto, in América Latina, che decine di popoli e nazioni indigene decidessero di dotarsi di un proprio governo. La recente decisione del quinto Congresso Nazionale Indigeno (CNI) di creare un Consiglio Indigeno di Governo che si propone di “governare questo paese” avrà profonde ripercussioni in Messico e nel mondo. La decisione è stata presa sulla base della consultazione e dell’approvazione di 43 popoli. Come segnala il comunicato “¡Y retembló!“, siamo di fronte a decine di processi di trasformazione radicale, di resistenze e ribellioni che “costituiscono il potere del basso”, che ora si esprimerà nel Consiglio di Governo. Allo stesso modo, quell’organismo avrà come portavoce una donna indigena, che sarà una candidata indipendente nelle elezioni del 2018. È il modo che i popoli hanno trovato perché “l’indignazione, la resistenza e la ribellione figurino nelle schede elettorali del 2018”. In questo modo, pensano di poter “scuotere la coscienza della nazione”, per “demolire il potere dell’alto e ricostituirci, non più solamente come popoli ma come paese”. L’obiettivo immediato è fermare la guerra, creare le condizioni per organizzarsi e superare in modo collettivo la paura che paralizza e provoca il genocidio (da parte di quelli) in alto. Nella parte finale, il comunicato sottolinea che questa potrebbe essere forse “l’ultima opportunità, come popoli originari e come società messicana, di cambiare in modo pacifico e radicale le nostre stesse forme di governo, facendo sì che la dignità sia l’epicentro di un mondo nuovo”. Fin qui, per grandi linee, la proposta e il percorso da seguire per renderla realtà. Guardando a distanza, chiama l’attenzione che le discussioni da ottobre in poi si siano centrate sulla questione della portavoce indigena come candidata nelle elezioni del 2018, lasciando da parte un tema fondamentale come (credo sia) la formazione del Consiglio Indigeno di Governo. È evidente che non si può comprendere la nuova cultura politica che incarnano il CNI e l’EZLN con i paraocchi della vecchia cultura centrata su discorsi mediatici e sulle elezioni come forma pressoché unica di fare politica. Che i popoli indigeni del Messico decidano di creare un consiglio di governo sembra un fatto della più grande importanza. Si tratta di popoli e nazioni che non saranno più governati da altri che non loro stessi. Milioni di uomini e di donne stabiliscono il proprio autogoverno in modo coordinato, in un solo consiglio, che rappresenta tutti e tutte. È uno spartiacque per gli indigeni, che avrà ripercussioni in tutta la società, come le ebbe la sollevazione del primo gennaio del 1994. E’ qui che conviene fare alcuni chiarimenti di fronte alle più disparate interpretazioni e, se mi sto sbagliando, anticipo le mie scuse. La cultura politica che praticano lo zapatismo e il CNI consiste nel promuovere l’autogoverno di tutti i settori della società: rurali e urbani, indigeni, contadini, operai, studenti, professionisti e tutti gli altri settori che si vogliono aggiungere. Mai hanno voluto governare gli altri, non vogliono soppiantare nessuno. Il “comandare obbedendo” è una forma di governo per tutti gli oppressi, che ciascuno sviluppa a modo suo. Il comunicato chiarisce che gli zapatisti non vogliono competere con i politici professionisti, perché “non siamo la stessa cosa”. Nessuno di coloro che hanno conosciuto almeno un po’ lo zapatismo, lungo questi 23 anni, può immaginare che si mettano a contar voti, a inseguire incarichi nei governi municipali, statali o federali. Non si dedicheranno ad aggregare né a dividere le sigle elettorali, perché vanno per un’altra strada. In tempi di guerra contro quelli in basso, credo che la domanda che si fanno il CNI e l’EZLN sia: come contribuire a far sì che i più diversi settori del paese si organizzino? Non è in discussione il fatto che siano loro a organizzarli, quel compito è di ciascuno di essi. Si tratta di capire come appoggiare, come creare le condizioni perché questo sia possibile. La candidatura indigena va in quella direzione, non come un “acchiappavoti”, bensì come possibilità di dialogo, perché altri e altre sappiano come hanno fatto. La creazione del Consiglio Indigeno di Governo è la dimostrazione che è possibile autogovernarsi; se milioni di persone di popoli e nazioni possono, perché non dovrei poter io nella mia comunità, nel mio distretto, ovunque sia? Così come la sollevazione del 1994 ha moltiplicato le ribellioni, ha contribuito alla creazione del CNI e di molteplici organizzazioni sociali, politiche e culturali, così adesso può accadere qualcosa di simile. Niente è potente quanto l’esempio. Quest’anno celebriamo il centenario della Rivoluzione d’Ottobre. L’ossessione dei bolscevichi e di Lenin, che trova conferma nel meraviglioso libro di John Reed I dieci giorni che sconvolsero il mondo, era che tutti si organizzassero in soviet, anche coloro che fino a quel momento li combattevano. Chiamavano perfino i cosacchi, nemici della rivoluzione, a creare i propri soviet e a inviare delegati al congresso di tutta la Russia. “La rivoluzione non si fa, ma si organizza”, diceva Lenin. Indipendentemente da quel che si pensi sul dirigente russo, quell’affermazione è il nucleo di qualsiasi lotta rivoluzionaria. Il passare dall’indignazione e la rabbia all’organizzazione, solida e persistente, è la chiave di ogni processo di cambiamenti profondi e radicali. Di rabbia ce n’è anche troppa in quei momenti. Serve organizzarla. Potrà la campagna elettorale messicana del 2018 trasformarsi in un salto in avanti nell’organizzazione dei popoli? Nessuno può rispondere. Ma è un’opportunità che il potere del basso si esprima nelle forme più diverse, perfino in atti e schede elettorali, perché la forma non è l’essenziale. Pensandoci bene, invece di accusare il CNI e l’EZLN di creare divisioni, i critici, che non sono pochi, potrebbero riconoscerne l’enorme flessibilità. Sono capaci di fare incursioni in terreni che finora non avevano calpestato e di farlo senza abbassare le bandiere, mantenendo in alto i principi e gli obiettivi. I mesi e gli anni a venire saranno decisivi per delineare il futuro delle oppresse e degli oppressi del mondo. È probabile che in pochi anni potremo valutare la formazione del Consiglio Indigeno di Governo come il cambiamento che stavamo aspettando.
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