http://contropiano.org/ Cayenne italiane. Da dove viene la violenza di Genova 2001 Qualche giocoliere della parola, decine di anni fa, scrisse “l’elogio dell’assenza di memoria”. Sembrava quasi un discorso rivoluzionario, perché registrava la rottura della continuità storica del movimento operaio otto-novecentesco e invitava a guardare il futuro senza l’ingombro degli schemi intellettuali passati. Sembrava, appunto. Questo saggio di Alexik, pubblicato in questi giorni da Carmilla, ricostruisce il filo conduttore delle prassi repressive italiche emerse quasi “improvvisamente” – sproporzionate ed abnormi rispetto al tasso di “rivoluzionarietà” del movimento No Global – in occasione di Genova 2001. Prassi consolidate imprintate dalla monarchia sabauda, sviluppate in controllo di massa dall’Ovra fascista, ereditate senza epurazioni – neppure “culturali” – dalla Repubblica nata dalla Resistenza e oggi implementate, appunto, dalle infinite possibilità messe a disposizione da informatica, social network e big data. Tutti strumenti “tecnico-scientifici” la cui funzione sociale non è in sé positiva o negativa, ma “dipende” – marxianamente – dal loro utilizzo. Ovvero dal tipo di soggetto che se ne serve e dal tipo di obiettivi che si vogliono realizzare. La ricostruzione di Alexik è paradigmatica di quel che accade quando un “movimento nascente” – senza strutture, gerarchie, memoria, istituzioni indipendenti, visione, strategia, tattica – va al confronto con un potere che possiede tutto quel che all’avversario manca. “Arrivarono a Genova nel luglio 2001 pensando che bastasse la forza dei numeri per contrastare quella dei potenti, o che si trattasse ancora una volta della simulazione di uno scontro. I più erano immemori o inconsapevoli di quello che aveva dovuto affrontare, circa 20 anni prima, l’ultima generazione che aveva provato seriamente a sovvertire le regole del gioco”. Immemori, ossia nudi e indifesi fin dal momento in cui – per l’insopportabilità del presente – si è costretti a dire “basta, è ora di fare qualcosa”. Nudi e indifesi perché si entra in un mondo di cui si ignorano le strutture fondamentali, si agisce un conflitto ignorando le regole eterne di ogni conflitto (politica e guerra sono compresenti in ogni momento, in proporzioni che “dipendono” dal contesto), si affronta un nemico (che sa di essere tale) come se fosse un normale avversario politico obbligato a comportarsi secondo i princìpi del bon ton. Un nemico che ha invece alle spalle, anche se ben occultate, centinaia di repressioni di massa, decine di migliaia di omicidi, torturati, imprigionati. C’è insomma di che riflettere. Ma se incontrate qualcuno che vi preferisce “senza memoria”, che sogghigna mormorandovi all’orecchio che “così non ricordate le sconfitte e sarete più radicali”… beh, vedete voi come allontanarlo. Definitivamente. “Il cancello si apriva in continuazione. Dai furgoni scendevano quei ragazzi e giù botte. Li hanno fatti stare in piedi contro i muri. Una volta all’interno gli sbattevano la testa contro il muro. A qualcuno hanno pisciato addosso, altri colpi se non cantavano faccetta nera. Una ragazza vomitava sangue e le kapò dei GOM la stavano a guardare. Alle ragazze le minacciavano di stuprarle con i manganelli“. I più erano immemori o inconsapevoli di quello che aveva dovuto affrontare, circa 20 anni prima, l’ultima generazione che aveva provato seriamente a sovvertire le regole del gioco. Pochi avevano memoria diretta della gestione della piazza dei tempi di Cossiga, o delle violenze poliziesche di Voghera1. La quasi totalità non aveva mai conosciuto il carcere, o non aveva fatto sufficiente attenzione a ciò che si muoveva dietro quelle mura. Qui varcarono le soglie di un incubo: Torturato n° 47, straniero. Percosso nel corridoio con calci e pugni, percosso nell’infermeria mentre veniva perquisito e sottoposto a visita medica con un pugno al torace, in conseguenza delle percosse riportava la frattura della costola destra, percosso, ingiuriato e minacciato in bagno da due agenti che lo costringevano a mettersi davanti al wc e gli dicevano “orina finocchio”, e minacciavano di violentarlo con un manganello, con lo stesso manganello lo percuotevano all’interno delle cosce procurandogli ematomi, percuotevano ancora con pugni alla testa e alle spalle. Torturata n° 60, italiana. Accompagnata dalla cella al bagno, costretta a camminare lungo il corridoio con la testa abbassata e le mani sulla testa, colpita da altri agenti con calci, derisa e minacciata, costretta con violenza e minacce a chinare la testa all’interno della turca; insultata con : “puttana”, “troia” e a subire da altri agenti frasi ingiuriose con riferimenti sessuali del tipo “che bel culo”, “ti piace il manganello”, costretta a fare il saluto romano e a dire: “viva il duce”, “viva la polizia penitenziaria” 2. Lo stesso incubo vissuto nelle carceri di questo paese. Volterra, 19 settembre 1970. Sono passati più di 23 anni dal varo della Costituzione repubblicana, quella che prevede che ‘le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità’. Ne mancano più di trenta ai fatti di Bolzaneto, e gli agenti ‘di custodia’ (così venivano chiamati i secondini prima di essere elevati al rango di polizia penitenziaria) non sono certo gli stessi, ma ciò nonostante il loro modus operandi presenta notevoli analogie. Non si tratta semplicemente di esercizi di sadismo da parte di personalità frustrate, di deliri di onnipotenza e vigliaccherie gratuite esercitate nel comodo rifugio dell’impunità. La violenza sui corpi e sulla psiche, anche quando appare immotivata e gratuita, assolve sempre una sua funzione. L’annientamento della personalità del prigioniero è funzionale all’interiorizzazione dei rapporti di potere. E’ una tecnica disciplinare i cui effetti devono estendersi al di là e al di fuori della permanenza nelle patrie galere. Nel vecchio carcere ‘sabaudo’, sopravvissuto fino alla metà degli anni ’70 con le sue segrete medioevali e il suo regolamento fascista, la violenza sui prigionieri era connaturata alla filosofia retributiva della pena, dove la pena è considerata un fine in sé, un valore assoluto che non necessita di altre motivazioni. Il carcere non era stato ancora toccato da filosofie trattamentali di recupero del condannato. “Non esistevano mediazioni o ammortizzatori rieducativi. L’essenziale era punire. Punire e indurre alla rassegnazione quella fetta di popolo che, per una ragione o per l’altra, aveva deragliato dai binari della disciplina sociale”.4 “A Poggioreale si pativa la fame, e alla fame c’era da sopportare inoltre un rigore da campo di concentramento di tipo nazista. Alle celle di punizione, per dare un esempio, fui legato sul letto di forza e malgrado dei dolori acutissimi che mi presero allo stomaco non fui visitato da nessuno … Mentre mi legavano ridevano e tiravano le fasce più che potevano. Il vitto da porci immangiabile, i secondini che trovavano gusto a istigare e oltraggiare fino a quando uno non scoppiava. Veniva quindi portato al palazzo di vetro, così era chiamato il padiglione in cui erano le celle di punizione e i letti di forza. In questo posto le botte erano all’ordine del giorno … Di questo passo si arrivò al luglio 1968 mese in cui pieni di rabbia ci si rivoltò incendiando e rompendo tutto ciò che ci si parava davanti”.5 Con l’avvento della stagione delle rivolte, la violenza dell’istituzione carceraria non dovette più misurarsi con un insieme atomizzato di individui, con le loro ribellioni individuali intrise di disperazione, ma con una forza collettiva capace di organizzarsi, rispondere contrattaccare. Le rappresaglie sui rivoltosi furono durissime: “Mentre eravamo massacrati, gli sbirri ridevano e canticchiavano per deriderci. Davanti alle celle mi fecero spogliare completamente, mi ordinarono di piegarmi a novanta gradi ed io compresi la loro intenzione, in quel momento essendo privo delle manette mi coprii i testicoli con le mani, ma mi ordinarono di non assumere tale atteggiamento, e non appena tolsi le mani una guardia pugliese mi sferrò una scarpata, e svenni… Nelle celle di punizione … tre giorni alla settimana il vitto consisteva in 200 grammi di pane e acqua… per sfregio ci rapavano i capelli a zero”.7 Ma il tentativo di sedare le sommosse attraverso un intensificazione della violenza non ebbe che l’esito di farle esplodere ancora di più, con un crescendo rivendicativo che partiva dalle richieste parziali (su ora d’aria, colloqui, vitto, isolamento, punizioni …), per estendersi a quelle generali (riforma carceraria, amnistia), fino a riprendersi la libertà con le evasioni.8 Lo Stato decise di condurre lo scontro sociale all’interno delle galere secondo logiche di differenziazione, riservando il pugno di ferro alle avanguardie, e allo stesso tempo avviando un processo di apertura per disinnescare la polveriera delle carceri. Il 9 maggio del ’74, Carlo Alberto dalla Chiesa guidò l’assalto di polizia e carabinieri per sedare una rivolta nel carcere di Alessandria, lasciando in terra sette morti fra detenuti e ostaggi. Era il segnale di un cambio di fase: le ribellioni non sarebbero più state tollerate. La violenza quotidiana nei penitenziari del circuito ordinario acquisì in questo modo nuove possibilità ricattatorie, visto che ogni reazione a un sopruso di un carceriere poteva inibire al detenuto l’accesso ai permessi, o interrompere il percorso verso la semilibertà. Le misure per l’attuazione pratica di tale previsione di legge vennero affidate direttamente ai carabinieri, in virtù degli ‘ottimi risultati’ ottenuti ad Alessandria. Dalla Chiesa dispose la creazione di un circuito speciale di prigionia formato dalle carceri più invivibili, preferibilmente nelle isole,9, dove vennero trasferiti i prigionieri ribelli, i militanti della lotta armata e della sovversione sociale di quegli anni, assieme ai detenuti comuni ritenuti più pericolosi. In pratica dalla Chiesa mutuò, riattualizzandolo, il vecchio modello delle ‘carceri di rigore’ del regolamento del ’31. L’ordinamento penitenziario fascista che sembrava fosse uscito dalla porta, rientrava così dalla finestra. Il rigore era attentamente garantito. L’assistenza sanitaria era inesistente: “Fabrizio Pelli, delle BR, contrasse la leucemia a Fornelli, ma il medico del carcere si guardò bene dal diagnosticarlo, condannandolo scientemente a una morte terribile“.11 La sicurezza esterna era affidata ai carabinieri sotto il comando di dalla Chiesa, che potevano intervenire anche all’interno della prigione con ampia autonomia, sedando eventuali rivolte tramite il GIS (Gruppo di Intervento Speciale), corpo speciale nato per l’occasione. Ma la gestione ordinaria della violenza all’interno dello speciale era affidata ancora ai secondini. “Di notte le guardie si impegnavano per non farci dormire. Tenevano le radio accese a tutto volume. Sbattevano i manganelli contro le porte blindate delle celle e facevano scorrere le canne dei mitra sulle sbarre delle finestre. Di giorno le grida, gli insulti e le minacce si sprecavano, conditi talvolta da qualche colpo di arma da fuoco sparato in aria a scopo intimidatorio. Le perquisizioni corporali erano continue, venivano ripetute più volte al giorno e sempre con il rito dello spogliarello integrale e delle flessioni sulle ginocchia. Le ispezioni nelle celle erano occasione per fare scempio dei pochi effetti personali consentiti ai detenuti, e spesso si concludevano con dei pestaggi somministrati per un nonnulla“.12 Anche ai familiari in visita negli speciali erano destinate perticolari vessazioni: Eppure i secondini sapevano che a questo tipo di violenza sessuale sarebbe seguita l’ulteriore violenza dei vetri divisori nei colloqui, che impedivano ogni possibilità di passarsi qualcosa. Oltre ad ogni legame corporeo, ad ogni contatto affettivo. La violenza dei guardiani era funzionale alla creazione di pentiti, o in subordine, in mancanza di ‘pentimento’, all’annientamento del nemico. Se nel vecchio carcere ‘sabaudo’ l’obiettivo era l’annullamento dell’identità personale del prigioniero, ora si lavorava per sconfiggerne l’identità politica. (Continua) Note |