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14 luglio 2017

 

La povertà preoccupa, ma le “soluzioni” sono solo peggiorative

di Claudio Conti

 

Il giorno dopo è quello della preoccupazione. I dati Istat sulla povertà sono stati in prima battuta “normalizzati” (“è stabile, non è vero che aumenta”), nel solito tentativo di raccontare un mondo diverso da quello in cui ognuno di noi vive. Poi, a mente fredda e guardando le disaggregazioni, è salito un brivido su per la schiena anche nelle redazioni più filopadronali.

La povertà è infatti soprattutto un problema giovanile o addirittura dell’infanzia. Il che, detto brutalmente, significa avviare le future generazioni sul sentiero della rabbia cieca, fornendo manodopera alla malavita (organizzata o meno), utenti agli sportelli antidevianza, benzina per ogni conflitto.

I numeri sono effettivamente preoccupanti: i minori in povertà assoluta sono quasi 1 milione e 300.000, ma soprattutto sono 200.000 più dell’anno precedente. Principalmente, com’è ovvio, nelle famiglie con tre o più figli. Un politico serio, di fronte a questi numeri, non farebbe finta di stupirsi sul calo delle nascite, né si metterebbe a discutere di “bonus bebè” triennali (come se un essere umano, dopo i tre anni, fosse in grado di produrre reddito). I figli, in una società avanzata, sono una fonte di spesa crescente in base all’età; dunque, se il reddito prodotto dai genitori è scarso (sempre più spesso è necessario il supporto di nonni che sono costretti a lavorare ancora), se ne fanno il meno possibile. Non è una scelta dettata dalle mode o dal non volersi assumere una responsabilità che non finirà mai: è semplice strategia di sopravvivenza. Individuale.

La conferma arriva da un altro dato: nella fascia tra i 18 e i 34 anni, l’anno scorso, i “poveri assoluti” rappresentano il 10% del totale. Nel 2007, anno di inizio della crisi, erano solo il 2,5. Eppure, da 25 anni a questa parte, ogni governo (di destra o di centrosinistra) ha picconato diritti e contratti di lavoro, contributi previdenziali e tasse per le imprese, allo scopo dichiarato di “favorire l’assunzione dei giovani”. Contemporaneamente, però, allungavano l’età pensionabile, costringendo appunto i nonni a restare al chiodo; bloccando dunque ogni ricambio e soffiando addirittura – per fortuna inutilmente – sul fuoco dello scontro generazionale.

Il risultato è nelle statistiche sulla povertà. Non è certo un caso che le famiglie operaie in “povertà assoluta”, nel 2007 appena l’1,5% del totale, oggi siano arrivate al 12,6%. Anni di incentivi alla precarietà del lavoro hanno compresso i salari – soprattutto dei nuovi assunti – sotto il livello della riproduzione vitale (non si fanno figli). È un fatto indiscutibile, rilevato ormai statisticamente.

Stabilito questo, il “come se ne esce” è un fiorire di ideologie e luoghi comuni. Batte ogni record, al solito, il vicedirettore del Corriere, Dario Di Vico, preoccupato soprattutto di respingere ogni tentazione di “reddito di cittadinanza”, al punto da auspicare una revisione del Jobs Act… in direzione di “incentivi strutturali” alla riduzione del costo del lavoro. Ossia a una maggior dose della stessa droga che ha avvelenato il mercato del lavoro in Italia e altrove.

Manca, negli opinionisti mainstream, qualsiasi analisi concreta della vita vera delle persone, mentre abbondano le citazioni a memoria di quanto letto nei manuali di macroeconomia neoliberista. Proviamo ad aiutarli (anche se pensiamo che dovrebbero piuttosto dimettersi, ritirarsi a vita meditativa e rinunciare – per dare il buon esempio! – ad assegni pensionistici più che d’oro).

Quali sono le spese fisse di una famiglia qualsiasi? Quelle relative alla casa (affitto o mutuo), bollette, servizi sanitari (soprattutto se ci sono figli piccoli), spese scolastiche, assicurazione e manutenzione auto (e non sempre ce n’è una…), alimentazione. Abbiamo lasciato da parte molte voci ormai considerate socialmente “superflue” come abbigliamento (mercatini dell’usato, più che “grandi firme”), libri, spettacoli, ecc.

Bene. Quali politiche sono state perseguite, da oltre 30 anni a questa parte, e con la benedizione dei numerosi Corriere in circolazione, su questi temi?

La casa è stata affidata unicamente alle dinamiche del mercato. Non si è più costruita edilizia residenziale pubblica, da assegnare a canoni agevolati. Anzi, è stato svenduto quel poco di patrimonio residenziale storico (solo in parte agli ex assegnatari). Di conseguenza gli affitti sono saliti a dismisura, al punto da far risultare l’indebitamento con un mutuo “più conveniente” (a livelli alti, naturalmente). Una politica opposta a quella seguita da Germania e Francia, dove l’edilizia pubblica copre quasi il 40% del totale, al punto che un appartamento in affitto a Berlino (Kreuzberg, per esempio) costa quasi come un box auto o un posto letto per studenti fuori sede a Roma (Cinecittà e San Lorenzo, praticamente la Kreuzberg romana). Insomma, la casa si porta via spesso anche più del 50% del reddito disponibile.

Le bollette (luce, gas, acqua) sono le più care l’Europa, perché il regolatore pubblico approva senza fiatare ogni richiesta di aumento avanzata dai gestori. E così le assicurazioni auto, le tariffe autostradali e i servizi bancari (ormai devi avere un conto in banca anche se hai un contratto di lavoro trimestrale). I ticket sanitari, per visite o prestazioni diagnostiche, crescono di anno in anno, al punto da entrare “in concorrenza” (verso l’alto…)  anche con la sanità privata. Le tasse scolastiche, il costo dei libri di testo, sono una croce che ognuno vorrebbe evitare. Gli asili pubblici (tutt’altro che gratuiti, comunque) sono introvabili come l’acqua nel Sahara.

Tutto noto, perché scritto in tanti singoli articoli, anche sui giornali padronali. Ma mai messo in fila per spiegare quale sia la vita concreta di una famiglia monoreddito. Figuriamoci se poi quel reddito è a termine, a progetto, discontinuo, col voucher, ecc.

Ecco, tutto questo noi lo sappiamo e possiamo raccontarlo perché lo viviamo. I Di Vico, invece, fanno chiacchiericcio pseudoeconomico, suggeriscono di tagliare gli stipendi anche agli ultra cinquantenni (nel suo caso saremmo d’accordo), e dunque di “ridurre le disparità” rendendo tutti “poveri assoluti”. 

Del resto, li pagano – e tanto! – per fare questo sporchissimo lavoro…

 

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