http://www.lintellettualedissidente.it/ 19 gennaio 2017
L’Italia che scegliamo di Savino Balzano
Il 15 gennaio Giulio Regeni avrebbe compiuto 29 anni. Le sue scelte vanno ricordate e per questo c’è bisogno dell’impegno di tutti. Quella di Giulio Regeni è una storia che non possiamo permetterci di dimenticare, come pure è importante riportare alla luce con più forza storie straordinarie come quella di Federico Del Prete.
Ogni persona, nel suo percorso esistenziale e umano, è tenuta inevitabilmente a fare delle scelte. A un certo punto poi tutti devono guardarsi indietro, ripercorrere con la mente i giorni vissuti, e non possono esimersi dal vederle, le scelte compiute. Ogni giorno, ogni uomo, sceglie principalmente chi essere e coltiva il giardino della propria vita. Arriva poi quel giorno, il giorno in cui tutto finisce, e il risultato della propria opera esistenziale viene mostrato a chi se ne sta andando. Aldilà di ogni rimorso o rimpianto, guardando il proprio giardino, probabilmente si può morire in due soli modi: col sorriso o col broncio. Questa scelta su chi essere, che non necessariamente manteniamo con coerenza sempre e comunque durante la nostra vita, sicuramente siamo tenuti ad assumerla anche come gruppo, come comunità, come Paese. Una scelta individuale, certamente, ma che attraverso l’affermazione collettiva e l’opera di convincimento e diffusione finisce col diventare una morale popolare, un culto democratico o – per dirla alla Rousseau – una religione civile. Dopotutto, nella realizzazione del nostro contratto sociale, delle scelte dobbiamo farle e con intelligenza dobbiamo individuare cosa scriverci dentro, ogni giorno, a prescindere dalle leggi e dai codici: in ogni momento dobbiamo costruire la nostra costituzione materiale, per dirla alla Mortati. Ogni religione, anche civile, ha i suoi esempi: ogni religione è fatta di passato e di storia e le sue fondamenta stanno proprio in cosa si sceglie, ancora una volta, di ricordare. E viene in mente un filosofo del XIX secolo, Ernest Renan, che una volta affermò: «L’esistenza di una nazione è il plebiscito di ogni giorno. […] Ciò che fa una nazione è comunque un lascito di ricordi. Il culto degli antenati è il più legittimo di tutti, gli antenati ci hanno fatto quello che siamo»
E allora è giusto scegliere di ricordare Giulio Regeni, ora e per sempre, ed è giusto farlo in maniera dolorosa, cruda e terribile, perché tale è stato il prezzo che ha dovuto pagare. Paola Deffendi, sua madre, una volta disse: «Ho riconosciuto Giulio dalla punta del naso. Su quel viso ho visto tutto il male del mondo»
Tanta ammirazione merita una donna che afferma una cosa del genere. Tanta ammirazione merita una donna che dopo aver visto il volto di suo figlio in quello stato, non solo rimane in piedi, ma ne testimonia la vicenda e chiede verità e giustizia. Il corpo di Giulio Regeni è stato ritrovato il 3 febbraio 2016 in un fosso: era mezzo nudo, gli avevano mozzato le orecchie, gli avevano strappato le unghie delle mani, gli avevano strappato le unghie dei piedi. Giulio presentava segni di contusioni e abrasioni su tutto il corpo compatibili con un durissimo pestaggio: era pieno di lividi, probabilmente causati da pugni e calci e bastonate, e si sono registrate circa ventiquattro fratture ossee, tra cui sette costole rotte, così come rotte erano tutte le dita delle mani e dei piedi, le braccia, le gambe e le scapole. Gli avevano rotto cinque denti. Lo hanno accoltellato diverse volte – forse usando un punteruolo o un rompighiaccio – in tutto il corpo, comprese le piante dei piedi. Il corpo era pieno di bruciature, di sigaretta e non solo, e sulla pelle si sono riscontrate molte lesioni, tra cui alcune che sembrano senza una logica apparente tracciare delle lettere. Chissà quanta forza è servita a sua madre per dire che lo hanno usato come una lavagna. Hanno riscontrato un’emorragia celebrale e una vertebra cervicale spezzata: la rottura è stata causata da una torsione violenta del collo, che gli ha con ogni probabilità causato la morte.
Cosi è morto Giulio Regeni.
Uno a leggere una roba del genere si chiede subito chi fosse in realtà Regeni e cosa possa aver provocato una violenza e una ferocia del genere. Si, insomma, si ammazza e lo si fa da sempre, ma un massacro del genere, uno stillicidio tanto prolungato e feroce, deve per forza nascondere qualcosa di importante, di pericoloso per chi lo ha commesso. Non si conoscono ancora le cause, il movente, della morte di Giulio Regeni: su di lui sono state dette poi tante fesserie e non vale nemmeno la pena di starle a menzionare. Quello che conta è che Giulio il 15 gennaio avrebbe compiuto ventinove anni ed era un italiano straordinario: conosceva molte lingue, era uno studioso brillante, una persona sorridente e piena di amici, un ragazzo solidale e attento. Giulio Regeni ha pagato per ciò che ha scelto di essere. È morto in Egitto e da tempo studiava e descriveva un movimento sindacale autonomo che stava prendendo piede nel paese: molte organizzazioni dei lavoratori stavano condensandosi attorno a un progetto politico unico, a un’idea di lavoro che desse dignità alla gente. L’idea era quella di combattere per la riconquista di diritti persi negli anni precedenti, caratterizzati da un profondo processo di privatizzazioni. Ancora una volta una scelta, una scelta etica e morale rispetto al mondo che voleva e per il quale era disposto a combattere. In un suo articolo, uscito il 14 gennaio 2016 su Near East News Agency, lo studioso evidenziava come certi fenomeni non fossero circoscrivibili al solo Egitto, bensì costituissero una sfida anche per l’Europa e l’Italia. Scriveva: «La strada appare ancora lunga e accidentata, ma è unicamente da questi fermenti sociali che può scaturire la speranza per un Egitto realmente democratico. E gli sviluppi di queste iniziative meritano di essere seguiti con attenzione e vicinanza, anche da questa parte del Mediterraneo. Sono gli stessi sindacalisti egiziani che ce lo chiedono, facendo appello a realtà sociali simili a loro in Italia e in Europa, per sviluppare forme di scambio, solidarietà e cooperazione che possano rafforzarli e incoraggiarli in questa delicata fase storica. Questi esperimenti dal basso potrebbero forse indicare anche a noi nuove traiettorie per un sindacalismo – al contempo combattivo e democratico – al passo con le trasformazioni imposte dalla globalizzazione del ventunesimo secolo»
Probabilmente Regeni è morto per questo, per le sue idee, per il coraggio che ha dimostrato nel portarle avanti, per essersi reso un esempio, per le sue scelte. E adesso tocca a noi scegliere: dobbiamo scegliere di ricordare un nuovo simbolo, un nuovo mito, che aiuti a consolidare l’idea di nazione che vogliamo assumere come nostra.
Magari qualcuno potrebbe dire che alla fine Regeni è morto in Egitto, un paese diverso dal nostro, e che nonostante questo non sarà mai dimenticato: figuriamoci se si può dimenticare la morte di un italiano come Giulio Regeni! Basterebbe scendere per strada e chiedere ai passanti chi fosse Giulio Regeni: presumibilmente in molti saprebbero rispondere correttamente. Oggi si, è vero, ma domani? Tra dieci o vent’anni saprebbero fornirci la stessa risposa? È proprio in questo la differenza tra la cronaca e la memoria ed è proprio in questo la scelta che dobbiamo compiere. Proviamo a scendere per strada e a chiedere ai passanti chi fosse Federico Del Prete: probabilmente nessuno o quasi saprebbe risponderci. Federico Del Prete era un venditore ambulante e un sindacalista, membro di un sindacato autonomo italiano. È medaglia d’oro al valore civile: «Per aver combattuto battaglie di legalità da sindacalista per gli operatori del commercio ambulante e per aver efficacemente collaborato con le Forze dell’ordine, veniva barbaramente assassinato in un vile agguato camorristico. Altissimo esempio di impegno civile e impegno morale spinti fino all’estremo sacrifico» Del Prete è stato ammazzato il 18 febbraio 2002 dalla camorra perché aveva scelto di denunciare le irregolarità amministrative con le quali venivano organizzate le fiere degli ambulanti e aveva scelto di portare alla luce le infinite estorsioni che i suoi colleghi erano costretti a subire. Federico Del Prete aveva scelto, ancora una volta, di essere un sindacalista e di farlo in un certo modo e questo gli è costato la vita. Eppure, nonostante lo scalpore e il clamore che l’omicidio di Del Prete ha provocato, oggi non sono abbastanza quelli che scelgono di ricordarlo. Suo figlio Gennaro e altri cercano di tenere viva la memoria delle scelte di Federico Del Prete, ma purtroppo questo non basta a renderlo quel grande esempio, quel grande mito sociale e collettivo, che meriterebbe di essere. Del Prete è morto in Italia, nel cuore del paese, non in Egitto, ed è morto come Giulio Regeni perché ad un certo punto qualcuno gli ha presentato il conto delle scelte fatte.
Sono storie semplici, di persone per bene che avevano voglia di fare e di cambiare quello che non funziona. Sono storie di italiani che hanno fatto delle scelte, nelle quali altra gente per bene deve potersi rispecchiare. Sono storie che dobbiamo scegliere di ricordare e scegliere di celebrare e sono le stesse storie che devono riempire di significato l’italianità che scegliamo di vivere ogni giorno.
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