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11 Giugno 2017

 

Theresa May. Stupidità al potere

di Marco Revelli

 

Un'analisi delle elezioni inglesi

 

Dunque alla fine appena un pugno di voti (13,6 milioni contro 12,8) e un paio di punti percentuali (42,4 a 40) separano i Conservatives dal Labour. Anzi Theresa May da Jeremy Corbyn, perché nel bene (il secondo) e nel male (la prima) sono stati loro due a giocarsi la partita. Nemmeno lo sciagurato maggioritario secco inglese, che allunga in modo sproporzionato le distanze in termini di seggi (una sessantina in più al partito “maggiore” anche se di poco) stravolgendo il principio di rappresentanza, assicura una governabilità certa (mito di tutti gli aspiranti oligarchi). Il parlamento britannico rimane hang, “appeso” come si dice in gergo: in questo caso appeso all’alleanza con gli unionisti irlandesi del DUP (Democratic Unionist Party), che – se la May sopravviverà al voto di fiducia - sosterranno (“caso per caso”) il futuro governo conservatore come la corda sostiene l’impiccato, garantendogli con i loro 10 seggi una risicatissima maggioranza (di 2 voti). Sono fondamentalisti protestanti, ultrareazionari, antiabortisti, omofobi (“right-populists” sono definiti), nemici degli human rights, secondo l’imprinting impostogli negli anni settanta dal fascistoide reverendo Paisley, che lo fondò (insieme alla propria milizia paramilitare) per opporsi strenuamente a ogni tentativo di soluzione concordata della questione irlandese. Non i migliori compagni di strada sul difficile sentiero della Brexit.

 

Ma quello che colpisce, della straordinaria giornata elettorale inglese, e soprattutto della notte che ne è seguita, è il generale rovesciamento di tutte le premesse (e di tutte le promesse). Nulla è andato come previsto all’inizio della campagna. Theresa May le ha “chiamate”, queste elezioni “fuori tempo” e non dovute, senza in realtà averne alcun bisogno. Stava seduta su una propria maggioranza - 330 seggi -, ma per un attacco di bulimia parlamentare ne voleva di più, “voleva tutto”, convinta di poter banchettare con i resti di un’UKIP a cui aveva rubato la bandiera e di poter sfondare su un Labour messo fuori gioco dall’"ingenua” leadership di un uomo considerato anacronistico. È finita a gambe all’aria, perdendo 12 seggi, la maggioranza parlamentare e anche la faccia. Si era giocata la campagna elettorale sullo slogan STRONG AND STABLE: è finita debolissima e totalmente instabile. Voleva affrontare gli “euro-oligarchi senza popolo” di Bruxelles armata di un plebiscitario mandato popolare per imporre manu militari la propria hard brexit. Si trova azzoppata, sola e soprattutto male accompagnata a dover affrontare i sorrisini ironici nelle stanze europee, e le andrà bene se alla trattativa ci arriverà, o se non verrà sostituita durante il suo corso.

 

Dall’altra parte Jeremy Corbin “il rosso”. Il vincitore morale. L’uomo “del miracolo”. Quello che all’inizio, quando il Labour era dato nei sondaggi sotto di 20-25 punti, tutti guardavano con neanche malcelato scherno, l’ "inadeguato”, il “perdente per vocazione”, l’"obsoleto” – magari simpatico nella sua innocenza ma votato irrimediabilmente al disastro suo e del partito che irresponsabilmente era stato chiamato a guidare -, e che invece li ha stupiti (e dimostrato stupidi) tutti. Ha guidato, in meno di due mesi, una rimonta che non ha precedenti nella storia elettorale, ricuperando giorno dopo giorno punti percentuali, a catena, fino a sfiorare il pareggio se non il sorpasso (cosa sarebbe successo se avesse avuto a disposizione un altro paio di settimane, visto il ritmo assunto dalla rincorsa negli ultimi giorni: in fine velocior). Ha guadagnato al suo partito 3 milioni e mezzo di voti in più rispetto alle elezioni del 2015 (Ed Miliband ne aveva presi 9,3 milioni). Ne ha aumentato il peso di 10 punti percentuali (dal 30% del 2015 al 40%, appunto: uno scatto in avanti paragonabile a quello compiuto nel 1945 dal Labour di Attlee). Ha riconquistato 30 seggi, salvando il posto in parlamento anche a un bel po’ di notabili del suo partito che l’avevano considerato con sufficienza e qualcuno anche tentato di sfiduciarlo per nostalgia blairiana. E quanto a Tony Blair è bene ricordare (soprattutto ai suoi nostalgici, quelli che pensano che se ci fosse “ancora Lui” sì che le cose andrebbero diversamente…), che al suo ultimo mandato, nel 2005, non andò oltre i 9 milioni e mezzo di voti (3 milioni e passa meno di Corbyn) e vinse solo perché il suo competitor conservatore Michael Howard era peggio di lui e convinse solo 8,7 milioni di elettori (partecipò al voto allora solo il 61% degli aventi diritto, contro quasi il 70% di oggi).

 

Tra le tante possibili, due chiavi di lettura mi sembrano, a caldo, prioritarie. La prima è la “questione sociale”. O meglio la questione della società. Margaret Thatcher – la vera lady di ferro a cui la May si ispira – aveva dichiarato che “la società non esiste. Esistono solo gli individui”. Jeremy Corbyn, oggi, la smentisce. Rianimando, con il proprio programma aggressivamente “sociale”, una società non estinta ma costretta al mutismo dall’assenza di politiche adeguate, la rimette al centro della scena. Cambia il volto – o meglio lo scenario – della politica britannica. Riconfigura il discorso politico intorno ai suoi “fondamentali”, alla materialità dei suoi processi, anziché alla sua dimensione mediatico-virtuale. La cifra del suo “inimmaginabile” successo (inimmaginabile per chi vive dentro la bolla virtuale del racconto prevalente) sta nella centralità assegnata nell’ordine del suo discorso ai bisogni, alle domande, al disagio diffuso della “propria gente” e di una parte ampia del proprio “popolo”. Nel suo ritorno a un’origine della sinistra moderna che non si è del tutto estinta ma solo atrofizzata: la vocazione a rappresentare la parte non privilegiata della piramide sociale, il mondo del lavoro e le classi medio-basse: la parte che ha subito il trentennio neo-liberale, che non è più stata né vista né raccontata e tantomeno rappresentata da nessuno in queste “trenta ingloriose”, e che ora ha ritrovato una voce e un “padre”. E’ rientrata, come espressione sociale, in gioco. E insieme ai “bisognosi” il vecchio Corbyn ha riportato in campo i giovani: sta al 66% dei consensi tra quelli sotto i 34 anni (quelli di classe media, acculturati e addottorati, ma anche quelli di periferia, di slum), parlando loro col linguaggio dei rapper arrabbiati, apparendo finalmente “vero” tra tanti avatar che popolano la terra straniera della politica per chi vive tra le pieghe e le piaghe del quotidiano.

 

Se è vero che il neo-populismo che si aggira come il vecchio spettro per l’Europa (e non solo), è la “forma informe del vuoto lasciato dalla sinistra nel passaggio oltre il Novecento” (e io credo che sia vero: è la tesi centrale del mio ultimo libro), allora bisogna dire che l’operazione inglese di Jeremy il rosso ne è il principale antidoto. È il fattore che può riportare la dialettica politica a un suo ordine conflittuale razionale, prosciugando quell’immenso serbatoio di un’ira non dilazionabile né riconducibile a costruzione di un’alternativa (tale è la sindrome populista, dall’incubo americano con Trump alla parabola dell’UKIP inglese fino al nazionalismo sovranista lepeniano in Francia). Corbyn si prende quasi tutta Londra, l’area metropolitana dove il Remain aveva stravinto, le constituencies dei quartieri centrali (tranne quelli degli straricchi, soldi e status, come la City) e quelle dei sobborghi, compresi i più problematici dove la rabbia urbana si era orientata sul Leave). Vince nei distretti industriali del Galles, old working class anch’essa schierata per la Brexit, e a macchia di leopardo nelle midlands, tagliando a metà gli schieramenti referendari grazie al nuovo cleavage sociale chiamato a incrociare e neutralizzare quello neonazionalistico e identitario.

 

È quanto non ha capito la May, la quale invece ha fatto un mortale errore di calcolo quando ha voluto anticipare il voto pensando di potersi aggregare così, grazie alla sua linea hard sulla Brexit, tutto il voto Ukip, considerato espressione di un neo-nazionalismo asociale, o di una vocazione identitaria nazionale e neo-imperiale priva di radici e di motivazioni nell’assetto della società e nelle sue contraddizioni. Non è stato così: la radice “sociale” – il radicamento nel disagio e nella protesta per le proprie “condizioni materiali” del voto per il Leave – è riemersa e si è presa la propria rivincita distribuendo i voti in uscita dall’UKIP lungo la loro discriminante profonda, materiale, e convergendo non solo su un partito conservatore ultra-nazionalista ma anche su un partito laburista di nuovo socialmente rappresentativo e conflittuale.

 

Il che ci porta alla seconda chiave. Meno nettamente definibile, ma non per questo meno visibile. Non so bene come chiamarla: “Cognitiva”? “Intellettiva”? “Mentale”? Mi viene in mente un passaggio dell’ultimo libro di Luciano Gallino – un testamento, per certi versi – che mi colpì molto quando lo lessi: si riferiva ai due crucci che, in quel suo ultimo tratto di vita, lo tormentavano e che indicava come il “trionfo della stupidità” e la fine dello “spirito critico”. Il primo, soprattutto mi è tornato in mente, nella giornata e nella serata di giovedì 8 giugno, seguendo sulla BBC lo spoglio in diretta da Londra, ma anche sulla stessa rete l’interrogatorio di Comey a Washington, e – si parva licet – l’esito caotico del voto sulla legge elettorale a Montecitorio. Ovunque messaggi da “teoria del caos”. Perdita di controllo sugli eventi. Tendenziale entropia. E su tutto l’insufficienza – meglio, l’"inadeguatezza” – delle classi dirigenti, spinta fino all’autolesionismo. Al suicidio neppur troppo assistito. Verrebbe da dire la “stupidità” delle classi dirigenti. Stupidità non in senso letterale, come deficit di QI (in qualche caso anche questo), ma in senso funzionale. Incapacità di comprensione strategica. Di misurazione delle conseguenze del proprio operare se non nel tempo brevissimo o istantaneo. Di previsione sistemica. Così è stato per Theresa May, ma allo stesso modo era stato per David Cameron, che aveva lui stesso indetto il referendum sulla permanenza in Europa che ha decretato la sua rovina; e per Matteo Renzi con la riforma costituzionale e il referendum che allo stesso modo di Cameron l’ha travolto (anche se lui a differenza dell’altro non è sparito dalla scena politica come aveva invece annunciato e promesso). E così sta avvenendo con Donald Trump negli Usa, che prometteva un’America Great Again e che la sta portando nella peggior crisi istituzionale della sua storia. O per Hollande, che in cinque anni di Presidenza (apparentemente un punto di forza per un politico di mestiere) è riuscito a distruggere il proprio partito conducendolo all’irrilevanza. E l’elenco potrebbe allungarsi. In tutti questi casi quella che sembra prevalere è la figura che Alain Deneault (filosofo canadese dalla penna tagliente) ha definito lo “stupido funzionale” o come sintetizza nel titolo il “mediocre”: uno che fa tutto a quello che sembra il momento giusto, perché così è richiesto dai suoi pari, e che però produce come risultato disastri (per sé e per gli altri).

 

“Non c’è stata nessuna presa della Bastiglia – scrive Deneault -, niente di paragonabile all’incendio del Reichstadt, e l’incrociatore Aurora non ha ancora sparato un sol colpo di cannone. Eppure di fatto l’assalto è avvenuto, ed è stato coronato da successo: i mediocri hanno preso il potere”. E quando parla di potere pensa a quello economico, banca e finanza soprattutto; a quello universitario (le pagine sulla degenerazione dell’universo accademico sono tanto più feroci quanto più espressione di un’esperienza vissuta); a quello giornalistico ed editoriale; oltre naturalmente a quello politico. L’ambito in cui l’impatto della mediocrità in quanto “stupidità funzionale” è più devastante. Ed è il prodotto temo “sistemico” – dunque scarsamente contrastabile con misure di semplice restyling istituzionale o con settoriali “riforme” – di un fondamentale meccanismo della nostra vita pubblica: la sconnessione drammatica tra livello istituzionale e livello sociale. Per dirla con Carlo Galli, nel suo ultimo interessantissimo libro sulla Democrazia senza popolo, il fatto – terminale – che “le istituzioni stanno funzionando senza saper analizzare la realtà sociale (e quindi senza saperne risolvere i problemi) e anzi respingendola come un fattore di disturbo e cercando di sopperire con ‘narrazioni’ agli esiti disastrosi delle politiche che impongono”.

 

Si spiega solo così, con questa secessione dell’"alto” e del “dentro” (all’interno delle casematte del potere istituzionale ma anche mediatico) rispetto a tutto ciò che sta in “basso” e nel “fuori” (da quei cerchi magici che sembrano possedere il monopolio della validazione sociale), da una parte l’ostilità senza risposta, spesso il rancore, il deficit di rappresentanza che produce le tante “insorgenze” cosiddette populiste. E dall’altra parte la vacuità, l’inefficacia, la contraddittorietà e l’insensatezza del discorso “ufficiale”, delle “verità sistemiche” assunte dalle “sedi autorevoli” e propagate dai media mainstream ma puntualmente smentite dall’evolversi dei fatti. La nostra memoria pubblica è corta, effimera, ma non più di un paio di anni fa, quando l’ondata giovane alle primarie del Labour aveva portato alla leadership Corbyn, il coro degli autorevoli si era scatenato, nelle forme più pittoresche: si andava dal “Corbyn … perderà a manetta” (Gianni Riotta) a “Al Labour piace perdere” (Matteo Renzi) fino al “Chi sarà più felice, Ken Loach o Cameron?” (Sergio Staino)…  Tutti chiusi nel proprio involucro stagno, impegnati a confermarsi a vicenda nella damnatio imaginis dell’unico che da quella loro bolla stava fuori, e per questo poteva indicare una via diversa. Difficilmente rinunceranno a pontificare ancora. Ma più difficilmente potranno continuare a monopolizzare la comunicazione pubblica e impedire di “cercare ancora” uno spiraglio di alternativa.

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