https://www.internazionale.it/ https://www.internazionale.it/ 30 maggio 2017
Non si combatte il terrorismo con uno stato di polizia di Laurie Penny Traduzione di Federico Ferrone
Che cosa siamo disposti a sacrificare per la sicurezza dei bambini? La sera del 22 maggio 22 persone sono state massacrate alla Manchester Arena. Erano perlopiù ragazzine che uscivano da un concerto pop. Alcune ore prima che l’assassino fosse identificato o che il gruppo Stato islamico (Is) rivendicasse l’attentato, il dibattito politico aveva già virato verso la richiesta di vendetta. In nome di quei bambini morti, rispettati opinionisti invitavano a fare un ulteriore giro di vite sui migranti e sulle persone percepite come straniere, a far scendere in strada l’esercito, a creare “campi d’internamento”, il tutto con facce impassibili e la sincera convinzione che chiunque non fosse d’accordo fosse un debole o addirittura simpatizzasse con i terroristi. Un sacco di ragazzine sono state uccise. A che servono oggi la tolleranza e i diritti umani? Nessuno, nell’immediato, può restare del tutto lucido quando decine di bambini vengono mutilati o uccisi. Esistono, tuttavia, individui che sono più pronti di altri a sfruttare l’occasione per portare avanti i loro piani. Le accuse ai progressisti L’idea condivisa è che viviamo in un paese talmente paralizzato dall’inettitudine e dalle inutili chiacchiere dei progressisti, che le persone che pensano in maniera corretta non possono dire cos’hanno davvero in testa. La verità è che nessuno impedisce a nessuno di dire quel che pensa sulla faccenda. Se non mi credete, fatevi un rapido giro su Twitter e vi sarà subito chiaro. La verità è che molte persone si trattengono dal dire quello che credono andrebbe fatto perché sanno benissimo che il loro pensiero è inaccettabile e vergognoso in qualsiasi società sana di mente. Così vergognoso, anzi, che serve un seminatore di zizzania professionista per dirlo ad alta voce. Ed è qui che entra in gioco Katie Hopkins. Non sono solo i troll come lei ad aver invocato una “soluzione finale” all’indomani dell’attentato alla Manchester Arena. L’opinionista del Daily Telegraph Allison Pearson ha dichiarato che dovremmo cominciare a mettere “migliaia” di persone in “campi d’internamento” in nome della protezione dei bambini.
23 maggio 2017 - Allison Pearson: We need a State of Emergency as France has. We need internment of thousands of terror suspects now to protect our children. #Manchester
Il caporedattore di Spiked, Brendan O’Neill, ha usato un tono simile, dando la colpa delle stragi al “multiculturalismo”, e facendo intendere che chiunque invochi calma e tolleranza di fronte al terrorismo non è abbastanza arrabbiato per l’omicidio dei suoi 22 concittadini. “Sta diventando chiaro”, secondo O’Neill, “che la promozione di una vuota ‘unità’ in risposta al terrorismo è un modo di alimentare la passività”. In realtà il Regno Unito è tutto tranne che passivo di fronte alla violenza estremista. Il paese possiede già uno dei più consolidati programmi antiterrorismo del pianeta. Siamo tra le società più sorvegliate del mondo occidentale. Abbiamo un programma antiestremismo, Prevent, che rende obbligatorio in scuole, università e altre istituzioni pubbliche la segnalazione di qualsiasi sospetta attività radicale o “estremista”. Prevent è talmente severo da essere stato condannato da esperti e insegnanti di ogni orientamento come una violazione del diritto di pensiero ed espressione. Le autorità responsabili del controllo e della caccia a questi psicopatici e ai loro simpatizzanti non stanno certo prendendo alla leggera il loro compito.
Il problema è che non esiste alcun modo di rafforzare questo dispositivo, a parte trasformarsi in un vero e proprio stato di polizia. I commentatori che oggi accusano le istituzioni competenti di essere deboli lo sanno benissimo, ed è per questo che uno stato di polizia è esattamente quel che chiedono. Nel farlo lasciano intendere che chiunque non sia d’accordo sottovaluti vergognosamente l’uccisione delle ragazzine e dei loro genitori. Non giriamoci quindi troppo intorno. Cerchiamo di essere chiarissimi su cosa c’è in ballo in questa faccenda. E quindi sì, si potrebbe fare di più per evitare cose del genere, se volessimo. Ma dobbiamo anche pensare se questo è davvero, sul serio, quel che vogliamo. Sì, potremmo fare di più. Potremmo permettere allo stato di arrestare e incarcerare chiunque sia anche lontanamente sospettato di tendenze violente ed estremistiche. Chiunque abbia mai avuto accesso a dei siti web sospetti o abbia letto documenti di dubbia origine.
Sospetto che oggi ci sia una voce rabbiosa che grida: chiudiamo i confini e costruiamo i campi Dovremmo incarcerare queste persone per molto tempo, naturalmente, perché se c’è una cosa che sposta effettivamente la gente da un interesse temporaneo per la violenza a un fanatismo in piena regola, è un’oppressione attiva da parte dello stato. Potremmo vietare l’ingresso nel paese a chiunque sia mai stato in qualche modo legato a delle ideologie violente, compresi quelli che stanno a loro volta sfuggendo dalla violenza. Potremmo istituire una sorveglianza totale delle attività di chiunque in rete. Potremmo davvero costruire quei campi d’internamento. Visto che costerebbero caro, sarebbe assolutamente equo che i potenziali attentatori e i loro sodali fossero obbligati a lavorare alla loro manutenzione. Naturalmente nessuno vorrebbe che campi simili fossero presenti su tutto il territorio: sarebbe meglio che gli internati fossero concentrati in un unico luogo. Come potremmo chiamare dei campi simili? Sono sicura che troveremo un nome. Senza garanzie per il futuro La vera domanda non è se una cosa del genere sia fattibile. Certo che lo è. È già successo che dei paesi europei istituissero uno stato di polizia paranoico, freddo e di assoluta vigilanza e se c’è un paese al mondo che oggi possiede le infrastrutture necessarie a farlo funzionare è il Regno Unito: una piccola isola con un capillare sistema di sorveglianza, una popolazione perlopiù urbana, un governo conservatore che cerca di essere rieletto con un programma improntato al rigore e capace di fare a meno di un fastidioso diritto d’espressione. Possiamo farlo se lo vogliamo. Certo che possiamo. La vera domanda è se sia il caso di farlo. Se ne vale la pena. Vale la pena, per evitare la perdita di una o più giovani vite, la distruzione di un’altra famiglia? Non rispondete ora. Aspettate almeno qualche giorno, perché adesso sarebbe emotivamente molto sensato dire che sì, sì, sì, ne vale la pena. Qualunque cosa permetta di evitare che qualcosa di simile accada in futuro. Per salvare anche un solo bambino. Per evitare che migliaia di altri siano traumatizzati a vita solo perché sono stati a un concerto pop con i loro amici.
Ci vuole un’immensa forza d’animo per non cedere alla paura Sospetto che oggi, spinta dall’isteria collettiva di molte persone altrimenti perfettamente tolleranti e oneste, ci sia una voce rabbiosa e spaventata che grida: certo, facciamolo. Chiudiamo i confini e costruiamo i campi. Magari non sarà una bella cosa, magari sarà anche sbagliata, ma queste folli teste di cazzo stanno uccidendo dei bambini e quindi, francamente, la convenzione di Ginevra se ne può anche andare affanculo. A questo istinto rabbioso e spaventato è necessario dare un nome se vogliamo trattarlo da adulti. Questa paura e questa rabbia sono reali e legittime, anche se in troppi le stanno sfruttando per portare avanti dei piani razzisti e xenofobi. È normale essere arrabbiati e rabbiosi. Ma non è giusto permettere che queste emozioni dettino delle politiche pubbliche. Oggi, mentre i volti delle bambine assassinate sono in tutti i notiziari, non è il giorno giusto per chiedere a una qualsiasi persona cosa sia disposto a sacrificare per fare sì che una cosa simile non accada più. Perché la verità è che l’unico modo per fermare un simile orrore è diventare come questi mostri. L’unico modo per essere sicuro che nessun estremista fanatico che odia la vita, la libertà e la gioia incontrollata dei giovani al punto di essere pronto a farsi saltare in un concerto pop pieno di adolescenti rifaccia una cosa simile è accettare quel genere di apparato statale che è l’opposto della gioia, della libertà e della vita, quel genere di apparato statale nel quale nessun bambino dovrebbe crescere. È per questo che i luoghi comuni sull’unità, sul non permettere che l’odio vinca, sul mantenersi compatti e cercare che i nostri peggiori istinti non prevalgano non sono affatto, in realtà, dei luoghi comuni. Non sono banali. Non sono vuoti. Ci vuole un’immensa forza d’animo, in tempi come questi, per non cedere alla paura, alla rabbia e alla logica della vendetta. I cittadini di Manchester stanno mostrando questa forza dopo una delle stragi più orribili che questo paese nervoso e diviso abbia mai conosciuto. Dobbiamo a loro, alle vittime di quest’attentato e alle loro famiglie il fatto di non infangare la loro memoria arrendendoci alla logica dell’intolleranza. È in momenti come questo che una comunità dà prova del suo carattere. È in epoche come queste che è più, e non meno, importante rifiutare le idee fasciste e razziste. Tolleranza non significa passività. Gentilezza non significa debolezza. Non c’è vigliaccheria nel tenersi dentro la nostra rabbia e il nostro dolore e rifiutare che queste emozioni spazzino via il nostro attaccamento alla dignità umana. O nel pensare intensamente a un’orribile vendetta, decidendo poi di non ricorrervi. È una dimostrazione di forza. Una forza più profonda e umana di quanto possano comprendere i fondamentalisti di ogni fazione. Se ci stringiamo intorno a questa forza queste persone non potranno mai e poi mai vincere.
|