http://www.affarinternazionali.it/ 27 Set 2017
Catalogna: referendum una prova nazionale, ma anche europea di Eleonora Poli ricercatrice dello IAI
Localismi e regionalismi sono da sempre tratti caratterizzanti dell’Unione europea, in un unicum di eterogeneità, pluralità di lingue, religioni, etnie e culture. Le spinte indipendentiste, come quella registrata in Catalogna, non sono quindi un fenomeno nuovo; anzi è da tempo che il governo centrale di Madrid tenta di contenerle.
Una storia di rigidità e d’incomprensioni Nel 2014 durante una consultazione non referendaria – non ufficiale e non vincolante – 1,8 milioni di persone aveva sostenuto l’indipendenza della Comunità autonoma catalana. In seguito, nel 2015, i partiti Junts pel Sí (Jxs) e Candidatura d’Unitat popular (Cup) avevano ottenuto rispettivamente il 39,5% e l’8,2% dei voti proprio con una campagna elettorale a favore dell’indipendenza, che oggi sembra essere appoggiata dall’80% della popolazione. Forte di questi presupposti, la decisione del presidente della Regione Carles Puigdemont di indire un referendum per l’indipendenza fissato per il 1° ottobre 2017 ha scatenato una dura reazione del governo centrale spagnolo. Essendo il plebiscito incostituzionale, il governo ha tentato di bloccarlo, prima minacciando e poi effettivamente eseguendo arresti e perquisizioni negli uffici e dipartimenti del governo catalano. Decisione quest’ultima che rischia di infiammare ancora di più gli spiriti nazionalisti sia catalani sia spagnoli e che potrebbe spingere Puigdemont a dichiarare l’indipendenza unilaterale della Catalogna dalla Spagna nel caso in cui la maggior parte dei cittadini votino a favore della secessione.
La crisi politica spagnola in un contesto degenerativo europeo
Il ruolo e le remore dell’Ue Inoltre, se l’autodeterminazione dei popoli rimane un principio fondamentale del diritto internazionale, non esiste nessuna disposizione europea che affronti la disintegrazione di uno Stato membro. Anzi, un’eventuale secessione catalana andrebbe a contraddire il tanto dibattuto principio fondamentale di “un’Unione sempre più stretta”, intesa come comunità di Stati che cooperano in maniera più stringente fino ad arrivare ad un’Unione in chiave politica.
L’arma di deterrenza dell’appartenenza all’Ue Rimane quindi da chiedersi se la membership sia un deterrente efficace, come in parte si è rivelato nel referendum scozzese del 2014 (che, a differenza della consultazione catalana, era stato “concesso” dal governo centrale). Sebbene il trend di euroscetticismo si stia riducendo – merito anche del caos politico in cui sembra essere precipitata la Gran Bretagna a seguito della Brexit -, non basta che il 56% dei cittadini sia pro-europeo, come indicato dai dati dell’Eurobarometro, per ridare all’Unione legittimità, se la maggioranza assoluta ritiene che le scelte politiche comuni siano sbagliate. Anzi proprio a fronte dell’entrata di partiti nazionalisti in numerosi parlamenti nazionali, ora più che mai servono azioni europee concrete per fare fronte a spinte indipendentiste e nazionaliste che tentano di riflettere un disagio sociale che ha radici profonde. Mentre le crisi che affliggono tutti i cittadini europei sono relative a problemi di sicurezza, alle ondate migratorie e al welfare sociale, l’area dove l’Unione ha maggior potenziale di azione è proprio quella economica, dove si è in effetti raggiunto una crescente integrazione.
Il fattore economico importante, ma non esaustivo Nel suo recente discorso sullo stato dell’Unione europea, Juncker ha espresso la necessità di un sostanziale rilancio, che porti avanti una visione comune e che dia risposte alle necessità dei cittadini tramite la creazione di garanzie sociali. Bisognerà poi vedere se questa ondata di ottimismo porti a delle risposte concrete da parte degli Stati membri. Al momento, il referendum catalano, oltre a dimostrare quanto sia forte lo spirito indipendentistico potrebbe anche rispondere alla domanda di quanto conta la membership agli occhi dei cittadini.
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