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31 ottobre 2017

 

Dentro la Ue, siamo tutti come i catalani

di Dante Barontini

 

Difficile non capire che con quanto sta accadendo sia completamente cambiato il gioco. Se un governo pressoché al completo – liberamente eletto e confermato da un referendum popolare – è costretto a valutare se chiedere asilo politico a un altro paese dell’Unione Europea, vuol dire che nulla sarà come prima.

Quello che sta avvenendo in questi giorni intorno alla Catalogna e alla sua volontà di indipendenza dalla Spagna è una di quelle “prime volte” che segnano l’evoluzione di un sistema politico e dei relativi equilibri sociali.

E’ la prima volta infatti che l’Unione Europea non riconosce – e anzi condanna – una richiesta di indipendenza certificata da un voto, oltretutto osteggiato con la violenza poliziesca da parte di uno Stato nazionale. Ma è anche la prima volta che questo accade al suo interno, anziché in un paese inserito nella lista dei nemici. Per l’indipendenza di Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia, Kosovo è stata fatta una guerra durissima che ha smantellato l’ex Jugolavia. Ma se la stessa richiesta arriva da un paese membro della Ue, questa diventa “illegale”. Dunque si conferma anche empiricamente che la Ue è un sistema sovranazionale creato a protezione di interessi specifici – quelli del capitale multinazionale, sia industriale che finanziario – che si confronta imperialisticamente con altri sistemi politico-economici. 

E’ dunque la prima volta che l’indipendenza viene proclamata comunque all’interno di un’area rilevante del continente europeo senza essere riconosciuta da nessun altro Stato. Indipendenza formale, non effettiva, perché ovviamente la Catalogna non aveva e non ha la possibilità materiale di far rispettare a tutti questo nuovo status: ossia “piccoli dettagli” come frontiere protette, un esercito o un popolo in armi, una moneta autonoma, controllo sui movimenti di capitale e delle imprese, ecc. In altri termini, per una questione di puri rapporti di forza, che notoriamente prevalgono sulle questioni ideologiche e sulle pure posizioni politiche.

Se saranno confermate le voci, sarà infine la prima volta che dirigenti politici democratici (addirittura del “Partito Democratico”!) chiederanno ufficialmente asilo politico. Per la sottile ironia della Storia, proprio questa fuga riporta la contraddizione all’interno del cuore dell’Unione Europea, a Bruxelles, costringendo gli algidi burocrati a districarsi con il problema di un governo democratico che chiede asilo politico per sfuggire ai mandati di cattura emessi da un paese membro della stessa Unione – la Spagna di re Felipe e del franchista Rajoy – che non viene classificata di certo tra le “dittature”.

Non è invece la prima volta che la rivendicazione di indipendenza assume connotati apertamente progressisti e di classe, invece che quelli “populisti di destra” che tanto piacciono all’establishment europeo per “spaventare” le popolazioni sottoposte alla riduzione di diritti, salari, welfare.

Abbiamo scritto più volte che l’Unione Europea – un sistema di trattati vincolanti, che espropriano gli stati nazionali di molte prerogative-chiave, a partire dal controllo del bilancio pubblico – genera il mostro che dice di voler combattere (razzismo, fascismo, ecc) moltiplicando disuguaglianze reddituali, seminando precarietà e insicurezza sociale che poi cerca di capitalizzare militarizzando la società.

Abbiamo scritto più volte che questa gabbia non può essere “riformata” dall’interno e che dunque l’unica soluzione realistica, per quanto difficile possa sembrare ora, è quella della rottura. 

L’evoluzione rapidissima della vicenda catalana ci ha mostrato dal vivo come ciò sia vero anche nella realtà politica concreta. Certamente la parte maggioritaria e moderata del movimento indipendentista, rappresentata istituzionalmente da Carles Puigdemont, coltivava un’illusione o un equivoco “riformista”. Quello di poter passare da regione autonoma di uno Stato membro della Ue a Stato indipendente, restando completamente dentro le regole Ue già definite. Mantenendo insomma trattati, contratti, moneta, ecc, senza alcun trauma; anzi con la benevolenza della Ue.

E’ assolutamente chiaro che il Governo di Barcellona, dopo aver celebrato il referendum, puntava a un compromesso con il governo centrale spagnolo guidato dall’ex franchista Mariano Rajoy, anche a costo di non tradurre in atti istituzionali formali il mandato popolare (proclamare l’indipendenza).

Ed è dunque altrettanto chiaro che Puigdemont e gli altri dirigenti del PdeCat si sono trovati davanti ad un muro incompreso, imprevisto, sottovalutato, invalicabile. Nessuna “riforma” è possibile, nessun compromesso teso a guadagnare respiro, nessun mutamento delle scelte strategiche decise ai vertici europei (di cui Rajoy è membro di rilievo). 

Proprio questo muro ha costretto il Governo catalano a portare fino in fondo – nelle condizioni date, obtorto collo – il processo istituzionale sfociato nella dichiarazione di indipendenza. Non c’è stata la capovolta di Tsipras, non c’è stata la resa plateale che disarma un intero popolo e soprattutto le figure sociali più colpite dalle politiche europee. Di sicuro la fuga non è un “atto eroico”, anzi, ma non è neppure paragonabile al trasformarsi in macellaio della propria gente, come un Noske del nuovo millennio.

E’ un fatto. E’ avvenuto. Ed è un fatto storico da ascrivere alla continua, potente, incessante mobilitazione di massa del popolo catalano e delle formazioni della sinistra più conseguenti. Che non dubitiamo sapranno trovare le giuste soluzioni contrarie alla reazione autoritaria del governo Rajoy, proseguendo – in condizioni molto mutate – nel processo dovrà portare all’indipendenza della Catalogna.

Ma ogni fatto storico di questa portata cambia la situazione oggettiva. E richiede un corrispondente mutamento nella soggettività che punta alla trasformazione sociale radicale. Per noi, che siamo a un livello di conflittualità politica e sociale assai meno sviluppato, si tratta di trarre lezioni, non di dare “consigli” non richiesti.

Per noi, dunque, si tratta di prendere atto che fino a ieri – l’intero mese di ottobre, dal referendum a oggi – si trattava di chiarire che la “riforma” non è possibile, e che solo la “rottura” rappresenta una prospettiva realistica. Era una battaglia sostanzialmente nel cielo delle idee politiche, ma con scarsi effetti storico-pratici.

Da oggi in poi – dato che la realtà si è incaricata di far vedere plasticamente quanto ciò sia vero – si tratta invece di iniziare a ragionare sul come fare per arrivare alla rottura; ossia di delineare i primi obiettivi strategici e tattici, facendo i conti ad ogni passo con i concreti rapporti di forza, di un percorso che viaggia nel concreto del conflitto politico.

A cominciare dal più importante: qual’è il nemico principale, quello con cui tutti – la classe, le sue (scarse) forze organizzate, i collettivi e i singoli compagni – ci troviamo ad avere a che fare. Magari senza aver ancora capito che (quanto a condizioni oggettive, in questo continente) oggi siamo davvero tutti come i catalani.

Va da sè che a questo punto il dibattito e la mobilitazione “contro” l’Unione Europea non sarà più un dettaglio.

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