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16 agosto 2017
Per il NYT Washington passò all’Italia informazioni esplosive sul caso Regeni. Ma roma smentisce
di Enrico Oliari
La presidenza del Consiglio dei ministri ha smentito le dichiarazioni del New York Times secondo cui l’amministrazione Obama era venuta in possesso di “prove esplosive” che indicavano le responsabilità di individui ai vertici dell’Egitto sul caso di Giulio Regeni, e le aveva comunicate alle autorità italiane.
Per il prestigioso quotidiano statunitense, che si è rifatto a non meglio precisate fonti che erano parte della precedente amministrazione Obama, “gli Stati Uniti entrarono in possesso dall’Egitto di prove di intelligence esplosive che indicavano come Regeni fosse stato rapito, torturato e ucciso da elementi della sicurezza egiziana”; inoltre la cosa portò ad un aspro confronto tra il segretario di Stato John Kerry e il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry.
Sempre stando alle fonti del Nyt, il materiale documentativo fu poi girato “al governo Renzi su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca”. Tuttavia “per evitare di svelare l’identità della fonte non furono passate le prove così come erano, né fu detto quale degli apparati di sicurezza egiziani si riteneva fosse dietro l’omicidio”.
Il lungo servizio giornalistico di Declan Walsh ha riportato inoltre che al Cairo venivano continuamente depistati i sette magistrati italiani invitati per le indagini, come pure l’ambasciatore Maurizio Massari si era messo a scrivere le comunicazioni con una vecchia macchina da scrivere a codici criptati in quanto sospettava che le mail e le telefonate fossero spiate, come pure che il personale egiziano dell’ambasciata passasse informazioni al proprio governo.
L’articolo del New York Times è uscito proprio nel momento in cui in Italia sono entrate nel vivo le polemiche ferragostane seguite alla decisione del governo di inviare in Egitto l’ambasciatore Giampaolo Cantini, dopo che l’8 aprile 2016 Massari era stato richiamato a Roma per consultazioni. Decisione del tutto comprensibile, sia perché la Procura egiziana ha inviato in Italia gli interrogatori dei poliziotti che hanno indagato sulla morte del giovane, materiale che era stato richiesto dalla Procura di Roma, dimostrando quindi la volontà di collaborare, sia perché la presenza sul posto dell’ambasciatore Cantini, uomo di ampia esperienza, può proprio favorire un rapporto diretto ed ufficiale ed un maggior coordinamento nelle indagini. Inoltre, si legge in una nota del governo, “In qualità di rappresentante della Repubblica italiana, l’ambasciatore Cantini curerà gli interessi nazionali in Egitto e la nostra importante comunità in quel Paese”, con il quale l’Italia ha una forte cooperazione nel campo energetico ma anche nella lotta al terrorismo jihadista.
L’invio dell’ambasciatore si è trattato per la famiglia di Regeni di “una resa incondizionata”, e per Antonio Marchesi di Amnesty International “di una decisione grave: quella di rinunciare all’unico strumento di pressione per ottenere verità nel caso di Giulio Regeni di cui l’Italia finora disponeva”. Posizione un po’ debole a dire il vero, dal momento che la rappresentanza diplomatica continuava a rimanere aperta, come pure gli interessi italiani in Egitto, le aziende di ogni ordine e grado e gli investimenti nel paese.
Tornando all’articolo del New York Times, fonti presso palazzo Chigi hanno sottolineato “come nei contatti tra amministrazione Usa e governo italiano avvenuti nei mesi successivi all’omicidio di Regeni non furono mai trasmessi elementi di fatto, come ricorda tra l’altro lo stesso giornalista del New York Times, né tantomeno ‘prove esplosive’. Si sottolinea altresì che la collaborazione con la Procura di Roma in tutti questi mesi è stata piena e completa”.
I casi sono quindi tre: o Roma non fu in grado di cogliere appieno l’importanza di tali “prove esplosive” (e se tali non si capisce perché non siano “esplose a Washington” se non altro come ripicca per l’apertura di a-Sisi ai russi); o le prove non erano per nulla “esplosive”, e quindi le autorità italiane non le hanno giudicate di valore; oppure, più probabile, il Nyt ha voluto fare il suo scoop estivo toccando un nervo scoperto italiano, ma trincerandosi dietro le solite, comode, “proprie fonti”.