The Nobel Foundation 2017 http://znetitaly.altervista.org/ 5 luglio 2017
di Bob Dylan traduzione di Giuseppe Volpe
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All’inizio, quando ho ricevuto questo Premio Nobel per la Letteratura, mi sono chiesto come esattamente le mie canzoni avessero un rapporto con la letteratura. Volevo riflettere sulla cosa per capire dove stava il collegamento. Cercherò di esporvelo. E molto probabilmente lo farò in modo indiretto, ma spero che ciò che dico sarà utile e significativo. Se dovessi tornare agli albori di tutta la questione immagino che dovrei partire da Buddy Holly. Buddy morì quando avevo circa diciott’anni e lui ne aveva ventidue. Dal momento in cui lo udii per la prima volta lo sentii affine. Mi sentii legato, come se fosse un fratello più grande. Pensai addirittura che gli assomigliavo. Buddy suonava la musica che amavo, la musica con la quale sono cresciuto: country western, rock ‘n roll e rythm and blues. Tre filoni musicali che egli intrecciò e fuse in un unico genere. Un marchio. E Buddy scrisse canzoni, canzoni che avevano melodie stupende e versi poetici. E cantava benissimo; cantava in più che poche chiavi. Fu un archetipo. Tutto ciò che io non ero e che volevo essere. Lo vidi solo una volta e accadde pochi giorni prima che morisse. Dovetti percorrere centinaia di miglia per vederlo suonare, e non fui deluso. Era potente ed elettrizzante e aveva una presenza imponente. Ero solo a due metri di distanza. Era ipnotico. Vidi il suo volto, le sue mani, il modo in cui batteva il piede, i suoi grandi occhiali neri, gli occhi dietro le lenti, il modo in cui teneva la chitarra, il modo in cui stava in piedi, il suo abito curato. Tutto di lui. Sembrava avere più di ventidue anni. Qualcosa in lui sembrava permanente e mi riempì di sicurezza. Poi, come d’incanto, avvenne la cosa più sbalorditiva. Mi guardò proprio dritto negli occhi e mi trasmise qualcosa. Qualcosa che non sapevo cosa fosse. E mi diede i brividi. Penso sia stato un giorno o due prima che il suo aereo precipitasse. E qualcuno – qualcuno che non avevo mai visto prima – mi diede un disco di Leadbelly contenente la canzone “Cottonfields”. E quel disco mi cambiò la vita proprio allora e là. Mi trasportò in un mondo che non avevo mai conosciuto. Era come se ci fosse stata un’esplosione. Come se avessi camminato nel buio e all’improvviso il buio fosse stato illuminato. Era come se qualcuno mi avesse imposto le mani. Devo aver suonato quel disco centinaia di volte. Era di un’etichetta di non avevo mai sentito parlare con all’interno un opuscolo con pubblicità di altri artisti dell’etichetta: Sorry Terry e Brownie McGhee, i New Lost City Ramblers, Jean Ritchie, complessi di strumenti a corde. Non avevo saputo di nessuno di loro. Ma pensai che se erano di quell’etichetta con Leadbelly dovevano essere buoni e perciò dovevo sentirli. Volevo sapere tutto in proposito e suonare quel genere di musica. Ero ancora legato alla musica con la quale ero cresciuto ma a quel punto me ne dimenticai. Non ci pensai nemmeno. A quel punto era sparita da tempo. Non me n’ero ancora andato da casa, ma non potevo aspettare. Volevo imparare quella musica e incontrare le persone che la suonavano. Me ne andai, in effetti, e in effetti imparai a suonare quelle canzoni. Erano diverse dalle canzoni alla radio che avevo ascoltato per tutto il tempo. Erano più vivaci e fedeli alla vita. Con le canzoni alla radio un esecutore poteva fare il botto come ai dadi o alle carte, ma ciò non importava nel mondo del folk. Tutto era un successo. Tutto quello che occorreva fare era essere preparato e in grado di suonare la melodia. Alcune di quelle canzoni erano facili, alcune no. Io avevo una sensibilità naturale per le antiche ballate e per il country blues, ma tutto il resto l’ho dovuto imparare da zero. Suonavo per piccoli pubblici, a volte non più di quattro o cinque persone in una stanza o all’angolo di una strada. Dovevi avere un repertorio vasto e sapere che cosa suonare e quando. Alcune canzoni erano intime, altre dovevi urlare per essere sentito. Ascoltando tutte le canzoni dei primi artisti folk e cantando le canzoni si acquisisce il gergo. Lo si interiorizza. Lo canti nel ragtime blues, nelle canzoni di lavoro, nei canti marinareschi della Georgia, nelle ballate degli Appallaci e nelle canzoni dei cowboy. Senti tutti i punti più delicati e apprendi i dettagli. Sapete di cosa si tratta. Tirar fuori la pistola e rimetterla in tasca. Sfrecciare nel traffico, parlare nel buio. Sai che Stagger Lee era un uomo cattivo e che Frankie era una brava ragazza. Sai che Washington è una città borghese e hai udito la voce profonda di John the Revelator [Giovanni l’apostolo – una tradizionale canzone gospel – n.d.t.] e hai visto affondare il Titanic in un torrente fangoso. E sei amico del selvatico vagabondo irlandese e del selvatico ragazzo coloniale. Hai sentito i tamburi smorzati e le cornamuse suonare lentamente. Hai visto il vigoroso Lord Donald accoltellare la moglie [riferimento a un’altra canzone tradizionale – n.d.t.] e molti dei tuoi compagni sono stati avvolti in sudari. Mi ero digerito tutto il gergo. Conoscevo la retorica. Nulla mi era sfuggito – i trucchi, le tecniche, i segreti, i misteri – e conoscevo anche tutte le strade deserte che avevo percorso. Potevo collegare il tutto e muovermi nella corrente del giorno. Quando ho cominciato a scrivere canzoni mie il linguaggio popolare era il solo vocabolario che conoscevo e l’ho usato. Ma avevo anche qualcos’altro. Avevo principi e sensibilità e una visione informata del mondo. E li avevo da un po’. Imparati alla scuola elementare. Don Chisciotte, Ivanhoe, Robinson Crusoe, I viaggi di Gulliver, Il racconto di due città, tutto il resto, tipiche letture da scuola elementare che ti davano un modo di guardare alla vita, una comprensione della natura umana e un metro con cui misurare le cose. Mi portavo tutto questo con me quando ho cominciato a comporre versi. E i temi di quei libri si sono fatti strada in molte delle mie canzoni, consapevolmente o inconsciamente. Volevo scrivere canzoni diverse da quanto si fosse mai sentito e quei temi erano fondamentali. Specifici libri che mi avevano colpito fin da quando li avevo letti la prima volta alle elementari. Voglio parlarvi di tre di essi: Moby Dick, Niente di nuovo sul fronte occidentale e l’Odissea.
*** Moby Dick è un libro affascinante, un libro pieno di scene di elevata drammaticità e di dialoghi drammatici. Il libro pone domande. La trama è semplice. Il misterioso capitano Achab – capitano di una nave di nome Pequod – un egomaniaco con una gamba di legno che insegue la sua nemesi, la grande balena bianca Moby Dick che gli ha tolto la gamba. E lui la insegue per tutto il percorso dall’Atlantico, attorno alla punta dell’Africa e nell’Oceano Indiano. Insegue la balena lungo entrambi i lati della terra. E’ un obiettivo astratto, nulla di concreto o definito. Egli chiama Moby l’imperatore, vede in essa l’incarnazione del male. Achab ha una moglie e un figlio a Nantucket di cui di tanto in tanto si ricorda. Si può prevedere quello che accadrà. L’equipaggio della nave è composto da uomini di razze diverse e a chiunque di loro avvisti la balena sarà data in premio una moneta d’oro. Molti simboli zodiacali, allegorie religiose, stereotipi. Achab incontra altre baleniere, sollecita i capitani per dettagli a proposito di Moby. L’hanno vista? C’è un profeta pazzo, Gabriele, su una delle navi, ed egli predice la condanna di Achab. Dice che Moby è il dio incarnato degli Shaker [un gruppo religioso statunitense – n.d.t.] e che aver a che fare con lui porta al disastro. Lo dice al capitano Achab. Il capitano di un’altra nave – il capitano Boomer – ha perso un braccio a causa di Moby. Ma lo sopporta ed è lieto di essere sopravvissuto. Non può accettare la sete di vendetta di Achab. Questo libro racconta come uomini diversi reagiscono in modi diversi alla stessa esperienza. Una quantità di Vecchio Testamento, allegorie bibliche: Gabriele, Rachele, Geroboamo, Bildah, Elia. Anche nomi pagani: Tashtego, Flask, Daggoo, Fleece, Starbuck, Stub, Martha’s Vineyard. I pagani sono adoratori di idoli. Alcuni adorano piccole figure di cera, altri figure di legno. Alcuni adorano il fuoco. Pequod è il nome di una tribù pellerossa. Moby Dick è una storia di mare. Uno degli uomini, il narratore, dice: “Chiamatemi Ismaele”. Qualcuno gli chiede da dove viene e lui dice: “Non compaio sulle mappe. I posti veri non ci sono mai”. Stubb non attribuisce significato a nulla, dice che tutto è predestinato. Ismaele ha trascorso sulle navi la sua intera vita. Chiama le navi le sue Harvard e Yale. Si tiene a distanza dagli altri. Un tifone colpisce il Pequod. Il capitano Achab pensa sia un buon presagio. Starbuck pensa sia un presagio cattivo, medita di uccidere Achab. Non appena la tempesta finisce un membro dell’equipaggio cade dall’albero della nave e annega, presagio di ciò che accadrà. Un prete pacifista quacchero, che in realtà è un affarista assetato di sangue, dice a Flask: “Alcuni dei colpiti sono portati a Dio, altri sono condotti al rancore”. Tutto è mischiato. Tutti i miti: la bibbia giudeo-cristiana, miti indù, leggende britanniche, San Giorgio, Perseo, Ercole, sono tutti balenieri. Mitologia greca, la sanguinolenta attività di macellare una balena. Un mucchio di fatti in questo libro, di conoscenza geografica, olio di balena – buono per l’incoronazione dei monarchi – famiglie nobili nell’industria della caccia alla balena. L’olio di balena è usato per ungere i re. Storia della balena, frenologia, filosofia classica, teorie pseudoscientifiche, giustificazione della discriminazione, tutto buttato lì e nulla di esso particolarmente razionale. Intellettualismo, cultura popolare, caccia a illusione, caccia alla morte, la grande balena bianca, bianca come l’orso polare, bianca come l’uomo bianco, l’imperatore, la nemesi, l’incarnazione del male. Il capitano demente che ha peso la gamba anni prima tentando di attaccare Moby con un coltello. Vediamo solo la superficie delle cose. Possiamo interpretare quello che ci sta sotto come ci aggrada. I membri dell’equipaggio si muovono sul ponte cercando di sentire il canto delle sirene, e pescecani e avvoltoi inseguono la nave. Leggere teschi e volti come si legge un libro. Ecco un volto. Ve lo metterò di fronte. Leggetelo se ci riuscite. Tasthego dice di essere morto e rinato. I suoi giorni in più sono un dono. Non è stato salvato da Cristo, tuttavia; dice di essere stato salvato da un suo simile, e non cristiano, quanto a questo. Egli parodia la resurrezione. Quando Starbuck dice ad Achab che dovrebbe lasciare il passato al passato, l’irato capitano replica seccamente: “Non essere blasfemo, uomo. Colpirei il sole se mi insultasse.” Anche Achab è un poeta di eloquenza. Dice: “Il cammino verso il mio scopo fissato è su binari di ferro sui quali la mia anima ha le ruote per correre”. O queste parole. “Tutti gli oggetti visibili non sono altro che maschere di cartapesta”. Espressioni poetiche citabili che non possono essere superate. Infine Achab vede Moby e sono tirati fuori gli arpioni. Sono abbassate le scialuppe. L’arpione di Achab è stato battezzato nel sangue. Moby attacca la barca di Achab e la distrugge. Il giorno dopo egli vede di nuovo Moby. Le scialuppe sono nuovamente abbassate. Moby attacca di nuovo la scialuppa di Achab. Il terzo giorno affonda un’altra barca. Altra allegoria religiosa. E’ sorto. Moby attacca ancora una volta, speronando il Pequod e affondandolo. Achab resta avviluppato nelle cime degli arpioni e gettato fuori dalla sua barca in una tomba acquea. Ismaele sopravvive. E’ in mare, a galla su una bara. E questo è tutto. E’ tutta la vicenda. Quel tema e tutto ciò che implica si farà strada in parecchie delle mie canzoni.
*** Niente di nuovo sul fronte occidentale è un altro libro che ha fatto lo stesso. Niente di nuovo sul fronte occidentale è una storia dell’orrore. E’ un libro in cui si perde la fanciullezza, la fede in un modo che abbia un significato, e l’interesse per le persone. Si è precipitati in un incubo. Risucchiati in un misterioso vortice di morte e dolore. Ci si difende dall’eliminazione. Si è cancellati dalla mappa. Un tempo eri un giovane innocente con grandi sogni di essere un pianista da concerto. Un tempo hai amato la vita e il mondo e ora lo stai facendo a pezzi. Giorno dopo giorno, i calabroni ti pungono e i verbi leccano il tuo sangue. Sei un animale stretto in un angolo. La pioggia che cade è monotona. Ci sono assalti interminabili, gas tossico, gas nervino, morfina, torrenti di benzina in fiamme, razzolare e togliersi le croste per cibo, influenza, tifo, dissenteria. La vita crolla tutto attorno a te e fischiano le pallottole. Questa è la regione più bassa dell’inferno. Fango, filo spinato, trincee invase dai ratti, ratti che mangiano gli intestini dei morti, trincee piene di sudiciume ed escrementi. Qualcuno grida: “Ehi, tu laggiù, alzati e combatti”. Chi sa quanto a lungo andrà avanti questo casino? La guerra non ha limiti. Sei annientato e quella tua gamba sta sanguinando troppo. Hai ucciso un uomo ieri e hai parlato al suo cadavere. Gli hai detto dopo di questo è finita, passerai il resto della vita a occuparti della sua famiglia. Chi guadagna qui? I capi e i generali acquistano fama e molti altri lucrano finanziariamente. Ma sei tu a fare il lavoro sporco. Uno dei tuoi compagni dice: “Aspetta un momento, dove stai andando?” E tu dici: “Lasciami stare. Torno tra un minuto”. Poi cammini nei boschi della morte in cerca di un pezzo di salsiccia. Non riesci a capire come qualcuno nella vita civile abbia un qualche scopo. Tutte le loro preoccupazioni, tutti i loro desideri … non riesci a capirlo. Crepitano altre mitragliatrici, altre parti di corpi pendono dai fili, altri pezzi di braccia e gambe e crani sui cui denti posano le farfalle, altre ferite orribili, pus che esce da ogni poro, ferite ai polmoni, ferite troppo grandi per il corpo, cadaveri che emettono gas e cadaveri che producono rumori vomitevoli. La morte è dappertutto. Null’altro è possibile. Qualcuno ti ucciderà e userà il tuo corpo per esercitarsi al tiro al bersaglio. Scarponi, anche. Sono la tua preziosa proprietà. Ma presto saranno ai piedi di qualcun altro. Ci sono francesi in arrivo tra gli alberi. Bastardi impietosi. Partono le tue pallottole. “Non è leale tornare da noi così presto”, dici. Uno dei tuoi compagni è steso nel sudiciume e vuoi portarlo all’ospedale da campo. Qualcun altro dice: “Potresti risparmiarti il viaggio” “Che cosa vuoi dire?” “Voltano, vedrai che cosa voglio dire”. Attendi di sentire le notizie. Non capisci perché la guerra non sia finita. L’esercito è così a corto di rimpiazzi che arruola ragazzi che sono di scarsa utilità militare, ma li arruola comunque perché sta esaurendo gli uomini. Nausea e umiliazione ti hanno spezzato il cuore. Sei stato tradito dai genitori, dai maestri di scuola, dai sacerdoti, e persino dal tuo stesso governo. Anche il generale con il sigaro fumato lentamente ti ha tradito, ti ha trasformato in un violento e in un assassino. Se potessi gli pianteresti una pallottola in faccia. Anche al comandante. Fantastichi che se avessi soldi metteresti una taglia a favore di qualsiasi uomo gli togliesse la vita con qualsiasi mezzo necessario. E se dovesse perdere la vita nel farlo, che i soldi vadano ai suoi eredi. Anche il colonnello, con il suo caviale e il suo caffè è un altro. Passa tutto il suo tempo nel bordello per ufficiali. Ti piacerebbe veder lapidato a morte pure lui. Altri Tommy e Johnny con i loro “whack fo’ me daddy-o” e il loro “whiskey in the jars” [le citazioni sono dalla canzone popolare irlandese ‘There’s whiskey in the jar”; esistono diverse versioni di tali espressioni e, in generale, prive di senso o che l’hanno perso nel tempo; qualche proposta qui – n.d.t.]. Ne uccidi venti e venti altri verranno fuori al loro posto. Roba da tapparsi il naso. Sei arrivato a detestare la vecchia generazione che ti ha mandato in questa follia, in questa camera di tortura. Tutt’attorno a te i tuoi compagni muoiono. Muoiono di ferite al ventre, di doppie amputazioni, di osso iliaco a pezzi, e tu pensi “Ho solo vent’anni, ma sono in grado di uccidere chiunque. Persino mio padre se mi capitasse vicino”. Ieri hai cercato di salvare un cane staffetta ferito e qualcuno ha urlato: “Non fare lo scemo”. Un francese farfuglia ai tuoi piedi. Lo colpisci allo stomaco con un pugnale ma il tizio resta vivo. Sai che dovresti completare il lavoro, ma non ci riesci. Sei sulla croce di ferro vera, e un soldato romano sta posando una spugna di aceto sulle tue labbra. Passano i mesi. Vai a casa in permesso. Non puoi comunicare con tuo padre. Aveva detto: “Saresti un vigliacco se non ti arruolassi”. Anche tua madre, mentre te ne vai, dice: “Attento adesso a quelle ragazze francesi”. Altra follia. Combatti per una settimana o un mese e guadagni dieci metri. E poi il mese successivo ti sono ripresi. E tutta quella cultura di mille anni fa, quella filosofia, quella saggezza – Platone, Aristotele, Socrate – che cosa ne è stato? Avrebbe dovuto prevenire questo. I tuoi pensieri si rivolgono a casa. E ancora una volta sei uno scolaro che cammina attraverso gli alti pioppi. E’ un ricordo piacevole. Altre bombe ti cadono addosso dai dirigibili. Devi tirar fuori le palle adesso. Non puoi nemmeno guardare qualcuno per timore che possa accadere qualcosa di imprevisto. La fossa comune. Non ci sono altre possibilità. Poi noti i fiori di ciliegio e capisci che la natura non è toccata da tutto questo. I pioppi, le farfalle rosse, la fragile bellezza dei fiori, il sole; vedi come la natura è indifferente a tutto questo. A tutta la violenza e la sofferenza di tutto il genere umano. La natura nemmeno lo nota. Sei così solo. Poi una scheggia di shrapnel ti colpisce la testa di lato e sei morto. Sei stato fatto fuori, cancellato. Sei stato sterminato. Ho messo giù questo libro e l’ho chiuso. Non ho mai più voluto leggere un romanzo di guerra e non l’ho mai fatto. Charlie Poole della North Carolina aveva una canzone che collegava tutto questo. Si intitola “You Ain’t Talkin’ to Me”[Non stai parlando a me] e i versi sono i seguenti: Ho visto un cartello in una vetrina andando un giorno in città. “Entra nell’esercito, vedi il mondo” era quanto aveva da dire, “Vedrai posti eccitanti in allegra compagnia, incontrerai persone interessanti e imparerai anche a ucciderle”. Oh, non stai parlando a me, non stai parlando a me. Posso essere matto e tutto il resto, ma ho buonsenso, vedi. Non stai parlando a me, non stai parlando a me. Uccidere con un’arma non pare divertente. Non stai parlando a me.
**** L’Odissea è un grande libro che si è fatto strada in ballate di molti autori: “Homeward Bound”, “Green, Green Grass of Home”, “Home on the Range” e anche in canzoni mie. L’Odissea è uno strano, avventuroso racconto di un uomo cresciuto che cerca di arrivare a casa dopo aver combattuto in una guerra. E’ in quel lungo viaggio verso casa, pieno di trappole e di insidie. E’ condannato a vagare. E’ sempre portato in mare, sempre cavandosela per un pelo. Grandi massi scuotono la sua nave. Fa arrabbiare chi non dovrebbe. Ci sono piantagrane nel suo equipaggio. Tradimenti. I suoi uomini sono trasformati in maiali e poi sono ritrasformati in uomini più giovani, più aitanti. Lui cerca sempre di salvare qualcuno. E’ un viaggiatore, ma fa un mucchio di fermate. E’ spiaggiato su un’isola deserta. Trova caverne e si nasconde in esse. Incontra giganti che dicono: “Ti mangerò per ultimo”. E sfugge ai giganti. Cerca di tornare a casa ma è fatto girare e rigirare dai venti. Venti incessanti, venti gelidi, venti ostili. Si spinge lontano e poi è risoffiato indietro. E’ sempre avvisato di ciò che accadrà. Tocca cose che non dovrebbe. Ci sono due vie da prendere e sono entrambe cattive. Entrambe pericolose. Su una si può annegare e sull’altra si può morir di fame. Entra negli stretti angusti con vortici schiumanti che lo inghiottono. Incontra mostri a sei teste con zanne affilate. Fulmini si scagliano su di lui. Rami sovrastanti per raggiungere i quali egli fa un balzo per salvarsi da un fiume furente. Lo proteggono dee e dei, ma alcuni altri vogliono ucciderlo. Cambia identità. E’ esausto. Cade addormentato ed è risvegliato dal suono di risate. Racconta la sua storia a stranieri. E’ stato via vent’anni. E’ stato portato via da qualche parte e lasciato là. Droghe sono state versate nel suo vino. E’ stato un viaggio duro da compiere. In molti modi molte delle stesse cose sono capitate a te. Anche a te hanno messo droghe nel vino. Anche tu hai condiviso il letto con la donna sbagliata. Anche tu sei stato ammaliato da voci magiche, voci dolci con strane melodie. Anche tu sei arrivato tanto lontano e tanto lontano sei stato risoffiato. Hai fatto arrabbiare persone che non avresti dovuto. E hai vagato per tutto questo paese. E hai anche sentito quel vento maligno, quello che non ti porta nulla di buono. E non è ancora tutto. Quando torna a casa le cose non sono per nulla migliori. Canaglie vi sono entrate e stanno approfittando dell’ospitalità di sua moglie. E ce ne sono troppi. E anche se è più grande di loro e migliore in tutto – miglior falegname, miglior cacciatore, miglior esperto di animali, miglior marinaio – il suo coraggio non lo salverà, ma il suo raggiro sì. Tutti questi perdigiorno dovranno pagare per aver profanato il suo palazzo. Si travestirà da sudicio mendicante e un servo di basso rango lo caccia a pedate con arroganza e stupidità. L’arroganza del servo lo fa infuriare, ma lui controlla la sua rabbia. E’ uno contro cento, ma cadranno tutti, persino i più forti. Era nessuno. E alla fine, quando alla fine è a casa, si siede con sua moglie a raccontarle le storie.
*** Dunque che cosa significa tutto questo? Io e molti altri autori siamo stati influenzati da questi stessi temi. E possono significare un mucchio di cose differenti. Se una canzone vi tocca, questo è tutto quello che importa. Non occorre che io sappia che cosa una canzone significa. Ho scritto ogni sorta di cose nelle mie canzoni. E non mi preoccuperà di che cosa significhi tutto questo. Quando Melville mise in un’unica storia tutti quei riferimenti biblici, dell’antico testamento, quelle teorie scientifiche, quelle dottrine protestanti e tutta quella conoscenza del mare e delle navi a vela e delle balene non penso neppure lui si sarebbe preoccupato … di che cosa significhi tutto ciò. John Donne, il sacerdote poeta vissuto all’epoca di Shakespeare, scrisse queste parole: “Il Sesto e l’Abido dei suoi seni. Non di due amanti, ma di due amori, i nidi”. Non so che cosa significhi. Ma suona bene. E vuoi che le tue canzoni suonino bene. Quando Odisseo nell’Odissea visita il famoso guerriero Achille nell’aldilà – Achille che aveva dato in cambio una lunga vita piena di pace e contentezza per una vita breve piena di onori e gloria – dice a Odisseo che era stato tutto un errore. “Sono semplicemente morto e questo è tutto”. Non c’era stato alcun onore. Nessuna immortalità. E che se avesse potuto avrebbe scelto di tornare indietro e di essere un umile schiavo di un mezzadro sulla terra piuttosto che essere quello che è – un re nella terra dei morti – che qualsiasi cosa fossero le durezze della vita, sarebbero preferibili all’essere qui, in questo luogo morto. Anche le canzoni sono questo. Le nostre canzoni sono vive nella terra dei vivi. Ma le canzoni sono diverse dalla letteratura. Le parole delle commedie di Shakespeare erano intese a essere recitate sul palco. Proprio come i versi delle canzoni sono intese a essere cantate, non lette su una pagina. E spero che alcuni di voi coglieranno l’occasione per ascoltare quei versi nel modo in cui erano destinati a essere ascoltati: in concerto o su disco o in qualsiasi modo si ascoltino le canzoni di questi tempi. Torno ancora una volta a Omero, che dice: “Canta in me, oh Musa, e attraverso me racconta la storia”.
Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org Originale: https://www.nobelprize.org/nobel_prizes/literature/laureates/2016/dylan-lecture.html
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