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29 maggio 2017 

 

Antonio Gramsci

di Valerio Alberto Menga

 

Il grande uomo e pensatore sardo rientra di diritto nella schiera dei grandi intellettuali dissidenti. Giornalista, filosofo, storico, politico e agitatore culturale, la sua figura fa discutere ancora oggi, soprattutto in quel che resta del mondo comunista, dati i mai risolti rapporti con il politico Palmiro Togliatti, che ebbe un ruolo ambiguo nella mancata scarcerazione del compagno Gramsci. Imprigionato da Mussolini per le sue idee antifasciste e per la propaganda marxista attuata durante il regime, morì in carcere, dove scrisse la sua opera imponente. I suoi "Quaderni" contengono risposte ad alcune domande che gli italiani si pongono ancora oggi, sull'origine dei mali atavici che affliggono la nazione. 

 

Nel 2014 è giunta notizia che in piazza Carlo Emanuele, a Torino, sulle macerie della casa in cui soggiornò Antonio Gramsci, sarebbe stato eretto un lussuoso albergo a cinque stelle: l’Hotel Gramsci. Più lusso che storia. Tipico esempio di sfruttamento della Cultura a vantaggio del turismo. Anche Gramsci pare quindi esser divenuto parte lesa di questo processo di teatralizzazione del Bel Paese ormai in atto da tempo. “L’Unità”, quotidiano da lui fondato, ha recentemente chiuso e riaperto i battenti, ritagliandosi il ruolo di megafono della politica di Matteo Renzi. Gramsci, autore postumo, ucciso post-mortem. Il suo nome è noto a tutti. È lo scrittore italiano tra i più citati e tradotti al mondo. Ma nonostante ciò la sua opera rimane sconosciuta ai più.

Come ha detto il filosofo Diego Fusaro – avvalendosi della formula di Hegel – Gramsci è noto ma non conosciuto. E non per niente lo storico americano Eric Hobsbawm ha scritto che “ormai lo conoscono anche quelli che non lo hanno mai letto”. La prima edizione dei Quaderni del carcere uscì per Einaudi, editore non comunista. Ciò sta a indicare che quella di Gramsci è un’eredità nazionale, e non unicamente comunista. Lo storico italiano Luciano Canfora lo ha definito “il maggior storico della storia italiana”. Per il filosofo francese Alain de Benoist è, insieme a Lukàcs, “il più celebre ‘marxista-leninista indipendente’ del periodo staliniano”. Chi è quindi Antonio Gramsci?

 

 

Gramsci è stato tante cose: giornalista, militante politico, filosofo, storico e studioso della letteratura italiana. Nacque ad Ales, in Sardegna, il 22 gennaio 1891 e morì a Roma il 27 aprile 1937, quattro giorni dopo la sua scarcerazione, proprio il giorno in cui veniva soppressa ogni misura repressiva nei suoi confronti da parte del regime fascista, a soli 46 anni. Il giorno del suo funerale, sotto il temporale e la pioggia, a seguire il feretro c’erano solo il fratello Carlo e la sorella Tatiana. Fu il Cielo a piangerlo, e non i compagni di partito.

Il piccolo Antonio – Nino, per amici e parenti – nasce di salute cagionevole. La sua colonna vertebrale è segnata da una malformazione. I tratti del viso sono squadrati, la testa grossa. “Antonio Gramsci ha la testa di un rivoluzionario […] il cervello ha soverchiato il corpo”. Questo è il ritratto ci ha regalato Piero Gobetti. La sovrastruttura – per dirla con termini marxiani – ha quindi avuto la meglio sulla struttura. E non per niente Gramsci sarà il teorico del “potere culturale”. Il suo fisico pare dettare un futuro. Grosso naso, capelli lunghi e occhialetti rotondi… e poi quella gobba. Il suo aspetto è sgraziato.

Nasce povero, debole e sfortunato. Per lui il mondo è “grande e terribile”. Gobbo e pessimista, come Leopardi. In lui convivono il “pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà”, la formula che meglio riassume la sua visione del mondo. Nino è quarto di sette figli. Nel 1897 il padre, Francesco, viene arrestato per un’irregolarità amministrativa e rimosso dal suo impiego: 5 anni e 7 mesi da scontare in prigione. Il carcere pare quindi una tradizione di famiglia. Il piccolo Nino ha il destino già segnato. Seguono anni di difficoltà e miseria. Per comprendere la disastrosa situazione economica famigliare, basta ricordare che un Natale, come regalo, riceve solo un’arancia.

 

 

Il padre, uscito di prigione, rovina nuovamente la famiglia, sperperando tutti risparmi in un’avventura economica finita male. E Antonio non glielo perdonerà mai. Per rimediare, all’età di undici anni, comincia a lavorare per dieci ore al giorno – domenica mattina compresa – all’ufficio del catasto per 9 lire al mese (il corrispettivo di 1 Kg di pane). La dura e arcaica Sardegna sarà la sua prima scuola di vita. Erano tempi difficili per i contadini di allora. Gli anni di Gramsci in Sardegna sono anche gli anni della Puglia di Giuseppe Di Vittorio, in cui i braccianti dovevano raccogliere la frutta con la museruola. Perché i padroni avevano timore che potessero mangiare parte del raccolto.

Il piccolo Nino è uno scolaro diligente. A causa della sua menomazione fisica non può giocare con gli altri bambini, così rimane da solo a leggere libri e riviste. Ha un debole per i classici russi. Il suo spirito è ribelle. Il padre di Antonio distrugge tutti i testi socialisti che trova in casa, preoccupato per le idee sovversive del figlio. Nino e Teresina – la sorella favorita – saranno complici di un “complotto letterario”. Si metteranno infatti d’accordo con il portalettere per ritirare personalmente la corrispondenza “compromettente” agli occhi del padre. Povero Gramsci. Censurato sin dall’inizio. Come si è detto prima, il suo destino è già segnato.

 

Guarda il video: https://youtu.be/nw2JYO4uPr4

 

La seconda scuola di vita sarà la Torino operaia, dove maturerà la coscienza di classe tra le fabbriche della città. La sua attività di giornalista è prolifica. Collabora con “Il Grido del Popolo”, l’”Avanti!”, cura l’unico numero di “Città futura”, diventa direttore de “L’Ordine Nuovo” e, nel 1924, fonda “L’Unità. Quotidiano degli operai e dei contadini”. Vuole raccontare la vita, perché per lui “solo la verità è rivoluzionaria”. Critica il riformismo socialista e nel 1921, in seguito alla scissione del Partito Socialista, è fondatore del Partito Comunista d’Italia di cui diverrà segretario generale. Conosce la futura moglie Julca (Giulia), nel 1922, in occasione di un viaggio a Mosca. Ma il ’22 è l’anno della Marcia su Roma, della vittoria del fascismo che, con l’uso spregiudicato del manganello e dell’olio di ricino, farà ordine in Italia a prezzo della libertà di molti.

 

Dopo essere stato eletto deputato nel ’24, il 26 febbraio dell’anno seguente tiene alla Camera il suo primo e ultimo discorso parlamentare. I fascisti non gliene permetteranno altri. L’8 novembre 1926 viene arrestato per “attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all’odio di classe” e imprigionato nell’isola di Ustica. Prima tappa di una lunga serie di soggiorni carcerari.

 

Ma nessuno potrà impedire a Gramsci di pensare. Praticherà la sua “ginnastica razionale” compilando i Quaderni: 33 fascicoli, più di 3000 pagine manoscritte. Pagine di politica, filosofia, e, soprattutto, storia e letteratura nazionale. Termini come “egemonia culturale”, “nazional-popolare”, e – in parte anche – “società civile” e “società politica” li dobbiamo a lui. Chi lo conobbe ricorda che Gramsci riusciva a stimolare al dialogo anche il più avvezzo a parlare in pubblico, poiché la sua concezione della cultura voleva unire i semplici agli intellettuali, abbattere i muri tra teoria e prassi, tra élite e popolo. È la sua “filosofia della praxis”. Altro studio fondamentale per Gramsci è quello della scienza politica formulata da Niccolò Machiavelli.A differenza del politico fiorentino, per Gramsci il “Moderno Principe” non è un sol uomo, ma il Partito. Una sorta di intellettuale collettivo, incarnato dal PCd’I, che, una volta conquistata l’egemonia culturale, avrebbe dovuto guidare le masse dominate, facendosi dominio politico.

Più che all’internazionalismo il suo pensiero è volto alla Nazione. Un pensiero incentrato sullo studio della storia d’Italia, attraverso una lettura insieme nazionale e popolare. Gramsci è un comunista anomalo. Troppo indipendente. Troppo critico. Troppo dissidente per i canoni dei dogmi sovietici. E in più, come se non bastasse, non è uno stalinista. Ma il compagno Togliatti sì.

 

“Onorevole Gramsci, ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera”.

 

Ecco cosa gli confida il giudice istruttore in seguito alla lettura della “strana lettera” di Ruggero Grieco del 10 febbraio del 1928 a lui indirizzata. L’anno seguente, per le sue posizioni ritenute troppo critiche, verrà accusato di disfattismo (oltre che di social-fascismo) dagli stessi compagni del carcere di Turi che chiesero ufficialmente la sua espulsione dal partito. Come ha giustamente sintetizzato Luca Paulesu:

“Nino era diventato un detenuto scomodo, tra l’incudine di Stalin e il martello di Mussolini”.

Nel 1935 avviene a Parigi la Manifestazione degli intellettuali che chiedono la sua scarcerazione. Scarcerazione che Gramsci spera di ottenere attraverso un diplomatico lavoro di scambio di prigionieri tra URSS e Italia fascista tramite il compagno Palmiro Togliatti. La sua liberazione però non avviene. Gramsci è un anti-stalinista e Togliatti un uomo di Stalin. Il dittatore sovietico viene criticato a più riprese nei Quaderni sotto lo pseudonimo di Bessarione. E, probabilmente, il carcere è ritenuto il luogo ritenuto più adatto per un comunista così scomodo, così ribelle. Che muoia pure in carcere, e sotto il fascismo! Almeno la responsabilità parrà tutta di Mussolini. Anche se oggi, gli storici non sono esattamente di questa opinione.

 

 

Antonio si batte con forza per scongiurare ogni tentativo messo in atto dai parenti per ottenere la sua scarcerazione per tramite del “Duce”. Nel ’33 il Tribunale Speciale si dice disponibile ad abbreviargli la pena, a patto che egli non svolga più alcuna attività politica. Offerta che Gramsci, orgogliosamente, rifiuta. Scrisse al fratello cinque anni prima:

 

“Io non voglio fare né il martire né l’eroe. Credo di essere semplicemente un uomo medio che ha le sue convinzioni profonde e che non le baratta per niente al mondo”.

 

Nel celebre articolo-manifesto da lui redatto nel 1917 Odio gli indifferenti, si legge: “Vivo, sono partigiano”. E ciò va inteso etimologicamente, come colui che “parteggia”, che prende parte – nel caso in questione – contro l’indifferenza. Gramsci, il “partigiano”, muore nel 1937. Non farà in tempo a partecipare alla Resistenza. L’avrà già fatta prima, a fascismo imperante. E, antifascisti o meno, non si può che provare rispetto nei confronti di chi, come lui, fu antifascista durante il fascismo e non antifascista a fascismo caduto. C’è una bella differenza.

Nacque proletario, divenne socialista, morì comunista. Ma qualcuno volle resuscitarlo come liberale. Gramsci, il gobbo, morì in piedi: con la schiena dritta. È lui e non Togliatti, tra i comunisti, ad essere “il Migliore”.

 

“Non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione […] vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini”.
Antonio Gramsci alla madre, 1928


Articolo apparso sul numero 2 della rivista “Il Bestiario degli italiani” (l’articolo è stato corretto da alcune incoerenze verbali comparse nella precedente pubblicazione).

 

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