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Il passato non muore mai Hannah Arendt faccia a faccia con il male di Paolo Patrone
Gli inaspettati ed inquietanti problemi del periodo buio e mostruoso del nazismo, che mise alla luce il processo al criminale hitleriano Adolf Eichmann, dal resoconto che ne fece la filosofa-storica tedesca Hannah Arendt (di nascita ebraica) nel suo libro «La banalità del male». All’epoca del processo si calcolava un olocausto di 6 milioni di ebrei. Oggi invece sappiamo che la cifra ancora più orribile è di 20 milioni. «Ma allora chi sei tu, insomma? Sono una parte di quella forza che eternamente vuole il male ed eternamente compie il bene » (1)
IL PROCESSO L’11 aprile del 1961 a Gerusalemme, come inviata del settimanale New Yorker, Hannah Arendt inizia a seguire il processo al criminale di guerra Adolf Heichmann, ex ufficiale nazista. Fin dalle prime battute, le risulta evidente come il Primo ministro d’Israele, voglia fare del processo un grande spettacolo agli occhi del mondo, cui presentare il processo non come il giudizio di un uomo o non solo quello ma come processo all’antisemitismo di tutto il corso della storia e non solo quello nazista. Ma in un processo sotto accusa è un singolo individuo «non le sofferenze degli ebrei, non il popolo tedesco o l’umanità e neppure l’antisemitismo e il razzismo», osserva Hannah. Quindi il solo esame della partecipazione e colpevolezza di queste cose del solo imputato. E invece secondo Hannah questo fu un processo non all’uomo ma «alla storia». Si cercò anche di occultare le colpe del collaborazionismo col nazismo dei capi ebrei, facendo ricadere le colpe sulle vittime ebree, che si erano lasciate annientare passivamente. «…Molti lavori materiali connessi allo sterminio erano affidati a speciali reparti ebraici ; …come questo lavorassero nelle camere a gas e nei crematori, estraessero i denti d’oro e tagliassero i capelli ai cadaveri, scavassero fosse e più tardi riesumassero le salme per fare sparire ogni traccia» e inoltre «costruito camere a gas». Uno spaventoso crollo morale che il tribunale di Israele preferì tacere. Hannah rileva che tutt’ora in Germania (all’epoca del suo testo), gran parte degli intellettuali ebrei continuano a avere in alto grado di importanza gli ebrei ‘illustri’ e come ancora oggi essi deplorino che la Germania avesse costretto all’esilio Einstein e «non si rendano conto che delitto molto più grave fu uccidere il piccolo Hans Cohn, che abitava all’angolo, anche se non era un genio». L’aver messo in luce le gravi colpe dei capi ebrei nel suo libro, procurò gravi critiche, ostruzionismi ed inimicizie ad Hannah. Ciò di cui ella soffrì nel profondo, fu il voltafaccia di tanti suoi vecchi amici. Questo mio scritto è un richiamo di massima al testo della Arendt. Per gli approfondimenti di rilievo, si rimanda al libro della Arendt ‘La banalità del male’. Il corso del processo (durato 120 sedute) fu anche l’occasione per far riflettere l’autrice sulle drammatiche questioni giuridiche, legislative, delle competenze territoriali e nazionali dei tribunali e del loro diritto a giudicare in nome di crimini nuovi, che si erano affacciati sulla storia umana a ridosso di quell’epoca di mostruosità. Innanzitutto la validità della retroattività della legge con cui si giudicava Eichmann (e che fra l’altro avveniva nel tribunale dei vincitori). Hannah riporta che la retroattività della legge «viola solo formalmente ma non concretamente il nullum crime, nulla poena sine legge» poiché il criterio si riferisce solo a crimini nel tempo della legge esistente e da questa non contemplata. Ma se al ‘giudice’ viene portata la conoscenza di crimini di cui fino ad allora non si aveva notizia, ebbene è lo stesso concetto di obbligo del perseguimento di giustizia a dover provvedere con leggi valide in modo postdatato. Non rammento in quale parte del libro, Hannah cita il bel principio di necessità della pena, attribuito a Grozio « per difendere l’onore o il prestigio di chi ha subito un torto, in modo che la mancanza della punizione non determini la sua degradazione». Da evidenziare che questo processo, come già quello di Norimberga, non considerava i crimini commessi dagli imputati come ‘crimini di guerra’ in quanto questi erano già considerati tali dal diritto internazionale, come le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki . Questi in esame dai due tribunali in questione, rileva la filosofa politica, erano crimini contro l’umanità, non soltanto episodi di crudeltà interni ad ogni guerra, come già ci insegna la storia. Erano «indipendenti dalla guerra ed annunciavano una politica sistematica di sterminio da continuare anche in tempo di pace». Martin Fellenz, ex membro delle SS, che aveva gestito l’uccisione di 40.000 ebrei in Polonia, dal tribunale di Flensburg fu condannato a 4 anni, di cui 2 e mezzo già scontati in attesa del procedimento giudiziario. Il male del nazismo esplodeva verminosamente dalle profondità dell’essere, non per egoismo o interesse ma per un’idea assurda di supremazia e perfezione della razza, volto a rendere superfluo l’uomo in quanto tale, inculcargli la sua inutilità, la mancanza di senso in qualsivoglia azione. «…Non è per puro sadismo che gli uomini delle SS desiderano il suo annientamento spirituale: essi sanno che distruggere la vittima prima che salga al patibolo è il sistema di gran lunga migliore per tenere un popolo intero in schiavitù.». Da rilevare che molti di loro anch’essi provavano «la pietà istintiva , animale di fronte alla sofferenza fisica degli altri», «il trucco usato da Himmler (che a quanto pare era lui stesso vittima di queste reazioni istintive), invece di pensare che cose orribili faccio al mio prossimo…che compito orribile grava sulle mie spalle.». Tuttavia Norimberga applicò la pena di morte solo in casi di eccezionale, inaudita atrocità. Era sottesa la preoccupazione della ritorsione delle accuse anche contro le altre nazioni belligeranti (quoque tu). «Se io di fronte a voi, giudici di Israele, mi levo in quest’aula ad accusare Adolf Eichmann, non mi levo solo. Assieme a me si levano in questo momento sei milioni di accusatori…il loro sangue grida vendetta al cielo, ma la loro voce non può essere udita. E così tocca me fare il loro portavoce…», questo fu il discorso d’apertura dell’accusa, tenuto dal procuratore generale Gideon Hausner. Hannah con molta lucidità fa notare che la prolusione dell’accusa, era inconsistente e dannosa, non solo per il fianco esposto a critiche (spirito di vendetta e non di giustizia) ma soprattutto perché «La procedura penale, essendo automatica e funzionando quindi anche se la vittima preferirebbe perdonare e dimenticare, si fonda su leggi la cui essenza -per citare le parole usate da Telford Taylor sul New York Times Magazine- è che «un crimine non è commesso soltanto contro la vittima, ma anche e soprattutto contro la comunità di cui viene violata la legge»…è la società che deve essere risarcita». Come si vede è una posizione di fondamento e di concetto. Pur tuttavia, anche se sbagliato di umano e di diritto, io mi sento più portato in assoluto al discorso tenuto dall’accusa. Poi con giusto occhio lungo proteso per il futuro, Hannah osserva «…quando un reato è stato commesso una volta, la sua ripetizione è più probabile di quanto non fosse la sua prima apparizione…che qualcuno faccia un giorno ciò che hanno fatto i nazisti.». E il timore avanzato da Hannah è per l’enorme sviluppo della popolazione mondiale, che, unitamente alla scoperta dell’energia nucleare, potrebbe indurre qualcuno a superare anche le azioni di sterminio di Hilter. «È una prospettiva che dovrebbe farci tremare.».
EICHMANN E IL MALE Quel mattino dell’11 aprile 1961, quando Hannah entrò in aula e vide per la prima volta Eichmann, rimase sconcertata. Quell’ometto insignificante, fra l’altro anche raffreddato, dall’aspetto di un ragioniere piccolo borghese era colui che aveva contribuito massimamente a eliminare milioni di ebrei? Dov’era l’impronta del male di uno Iago o di un Macbeth, che lei si era aspetta? Quel viso e la sua espressione era quanto di più scialbo ed ordinario si potesse immaginare. Eichmann non aveva proprio per niente l’aspetto di Mefistofele. Per tutto il tempo, nei lunghi giorni del processo, continuò ad osservarlo, analizzarlo, a fare attenzione a tutto ciò che diceva, scrutò tutti gli atteggiamenti ed espressioni di lui. Rilevò che non era un antisemita, aveva solo obbedito agli ordini. Per lui era irrilevante sapere dove andavano i treni. Trasportava persone verso la morte ma non si sentiva responsabile. Una volta partiti i treni, il suo lavoro era finito. Alla domanda: «si doveva rinunciare alla propria coscienza personale?» Rispose: «si può anche dire così». Dunque il male poteva nascere dalla banalità più ordinaria? Da ogni uomo qualunque, senza nessuna qualità né predisposizione alcuna, poteva esplodere il Male, così mostruoso e radicale? Era quello l’aspetto più mostruoso per Hannah. Ella ne rimase scossa, ma sempre più convinta dell’esattezza delle sue osservazioni. Ma all’origine, la causa determinante dell’assenza di spirito e coscienza morale di Eichmann, qual era? E la risposta era sempre problematica. Il pensare ovvero la capacità di pensare, la sopiscenza della coscienza di fronte agli ordini ricevuti (le legge, per lui). Il dovere di capire pensando! «Da Socrate e Platone noi definiamo il pensiero come un silenzioso dialogo fra me e me. Rifiutando di essere una persona, Eichmann aveva rinunciato alla qualità più peculiarmente umana, quella di essere capace di pensare.» Ecco l’unica risposta possibile!
DISORIENTAMENTO PERSONALE Nel corso del suo resoconto, Hannah riporta: «Quanto più lo si ascoltava, tanto più era evidente che la sua incapacità di esprimersi era strettamente legata ad una incapacità di pensare dal punto di vista di qualcun altro…». Ella, non lo dice per iscritto, ma sembra si sia fatta l’opinione, dopo attenta osservazione del comportamento di Eichmann che egli era quasi a livello di un mentecatto. Eppure, tralasciando le sue rare capacita organizzative, la Hannah riporta ancora «durante l’istruttoria improvvisamente dichiarò con gran foga di avere sempre vissuto secondo i principi dell’etica kantiana…il giudice Ravech decise di chiedere chiarimenti all’imputato…e con sorpresa di tutti Eichmann se ne uscì con una definizione più o meno esatta dell’imperativo categorico», «Quando ho parlato di Kant,», disse, «intendevo dire che il principio della mia volontà deve essere sempre tale da poter divenire il principio di leggi generali». Dunque Eichmann conosceva Kant (anche se poi ha sciolto l’imperativo categorico nel dovere di obbedienza alle leggi hitleriane), e Hannah dice che era individuo incapace di pensare. Resto sconcertato. Penso al giorno d’oggi, non più miseria, non più ignoranza, tutti a scuola, istruiti e quanti, quanti davanti alla televisione e al cinema a vedere scemenze, e neanche la lettura di un romanzetto. Kant, anche se sanno chi è, non si sognerebbero mai di leggerlo o anche solo di sentirne parlare. C’è qualcosa di indefinitamente spaventoso ed opprimente in tutto ciò. La Arendt dice però che non dialogare fra se e se non è indice di stupidità ma il rifiuto di decidere se essere buoni o cattivi. Ma allora cos’è il pensiero e che cos’è il male, si chiede Hannah (nel suo ‘Responsabilità e giudizio’). Qui ancora una volta Ella si rifà a Kant, nella distinzione fra intelletto (che aspira a conoscenze scientifiche, certe) e la Ragione, che invece, sempre e comunque ‘spinge’ solo a pensare. (Prende qui corpo il contrasto fra Hannah e Hidegger, di cui alle mia nota finale). E secondo Kant è proprio la ragione, il pensiero che conosce e previene il Male. Continuo a rimanere perplesso per quelli pericolosi come Eichmann, che non pensano e leggono Kant e sono responsabili di quell’orrore e per quelli che non pensano e non leggono Kant, e che mi fanno pensare: e costoro cosa causeranno e di cosa mai saranno responsabili?
IL MALE NON BANALE Come scrissi in un mio commento al film ‘Il processo di Norimberga’, quando non avevo letto il testo di H. Arendt: <<In quanto poi all'equiparazione delle atrocità naziste a quelle di altre nazioni di altri popoli e di altre epoche, è vero, tantissime altre mostruosità e stragi e torture degli innocenti, ma sono crimini, a mio parere, circoscritti (a parte le abiettitudini, che nascono dalla radice più profonda degli istinti bestiali in particolari momenti ed episodi bellici) alla logica (mostruosa) del potere, a radici e motivazioni religiose, fanatismi che si estrinsecano in atti innominabili. Ma il nazismo fu ben altro. Non fu solo il bieco perseguimento ed attuazione di una delirante tesi di supremazia e purezza della razza. Fu soprattutto il modo di perseguirlo, il cominciare a spogliare l'uomo dalla sua dignità, togliendogli vestiti, lasciandolo nudo ed affamato nella sporcizia, minando alle radici la volontà di reagire, togliendogli a nudo lembi di pelle per dipingervi sopra, tagliando a sensi svegli, senza anestesia, brandelli di carne, occhi, parti del corpo per fare esperimenti, causando ferite per infettarle per darne i corpi a medici e studenti di medicina, e questo anche su bambini, destinando, fin dall'inizio, a camere a gas e poi a forni crematori vecchi, donne incinte, bambini al di sotto dei 12 anni. E a tenere in piedi tutto ciò, l'aspetto più sconvolgente, che mai potrà trovare spiegazione, l'adesione, la lesgiferazione, la programmazione tecnica e scientifica, di uomini di cultura e di scienza, di persone che 'prima' erano state il fiore, l'antologia della cultura e della saggezza umana. Non solo il male che sgorga da un banale ordinario ma il male che nasce dove c’è la luce della conoscenza, della coscienza umana. Ecco, è questo quello che addirittura si erge sopra l'indicibile orrore degli eventi storici, lo sgomento ed il terrore di un qualcosa che la ragione non riesce a spiegarsi, e che quindi è impotente a sconfiggere, la follia umana che prende possesso delle menti più degne e valide. Non il folle caporale tedesco ed i suoi gerarchi o i bestiali esponenti del suo esercito e partito, ma questa follia, che, imperscrutabile ed insgominabile, aleggia sul mondo, alla sua mercè.>> Eichmann fu condannato e giustiziato. E l’umanità fu liberata dal suo diavolo. Ma come dice il Mefistofele di Goethe: «Liberàti dal Maligno, son rimasti i maligni.» (1).
LA DEFINIZIONE DEL MALE? Ma il male esiste di per sè, ontologicamente? Nella natura dell’uomo? Perché qui e non lì? Nella stessa famiglia, stessa educazione, stesso ambiente, due fratelli, uno buono, l’altro malvagio. Quale la spiegazione?. Da un democriteo caso? Si deus unde malum? Il male sembra sfuggire a qualsivoglia definizione. Ogni volta che si cerca di indagarne l’origine è come la particella subatomica che sfugge al raggio di luce del microscopio elettronico. Ci sembra di essere venuti a capo della spiegazione e non ci accorgiamo che essa è relativa solo all’ambito dell’indagine che stiamo svolgendo. «Abbiamo descritto l’origine del bene e del male come prodotto di un atto di volontà che deve scegliere fra alternative entrambe positive. Di queste una diventa bene e l’altra male», scriveva Francesco Alberoni (2). Ma la mostruosità del male nazista non era un’alternativa nata dal passato culturale, dalla sua «nostalgia» di un trascorso movimento collettivo, come osserva lo stesso Alberoni. «Il male non può essere banale e radicale allo stesso tempo. Il male è soltanto estremo mai radicale. Solo il bene è profondo e radicale», osserva fra sè e sè Hannah Arendt, ripensando in correzione l’idea che s’era fatta del male durante il processo. «Alcuni hanno la cattiveria dentro già appena nati» mi disse una volta, meravigliandomi profondamente, mio padre, riferendosi allo sguardo cattivamente maligno, che aveva visto a lui rivolto da un bambinetto di pochi mesi in un carrozzino. E mio padre era un uomo buono, fin troppo, estremamente.
VON TROTTA E IL FILM Il libro della Arendt è per noi un po’ pesante da seguire. Troppi nomi e circostanze lontane a noi poco conosciute e da approfondire. Benvenuto è stato il film della regista Von Trotta, che in modo egregio sintetizza e pone in risalto l’essenza del processo e del pensiero della Arendt. Il film è molto ben fatto, colori caldi, pastellati, che creano una pellicola accogliente. Ottime le riprese privilegianti i campi medi e i primi piani (eh, eh, le deformazioni mentali del cineamatore spuntano sempre fuori). Eccellente la scelta di mettere dentro le riprese di Eichmann nell’aula del processo. Riprese che danno ragione all’idea che di lui si fece Hannah (pur con le riserve da me avanzate). D’altronde la Arendt nel suo libro, evidenzia come una mezza dozzina di psichiatri lo aveva dichiarato ’normale’ e che «il cappellano che lo visitò regolarmente in carcere…assicurò a tutti che Eichmann aveva delle <idee quanto mai positive>». Come dire, il Male con il vestito grigio di tutti i giorni.
Conclusioni L’individuo singolo calato in una società strutturalmente organizzata in usi, costumi, credenze, convinzioni, leggi e procedure deve sempre avere la coscienza civile e di persona di riflettere e pensare con la propria testa i comportamenti e gli obblighi che essa gli impone e discernene ciò che è giusto da ciò che non lo è. Ma viventi stretti in certi periodi storici, in concreto, non tutti hanno la forza di di ribellarsi e contrapporsi al sistema. (Cfr. Primo Levi, in ‘I sommersi e i salvati’: http://www.minerva.unito.it/Storia/Levi/LeviZonagrigia.html ) , «col potere veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno». E quella sorta di ‘intellettualismo etico’, cui sembra richiamarsi la Arendt nel sostenere che ad evitare il male basti la conoscenza e la coscienza che ci deriva dal pensiero, si scontra, in concreto, contro la realtà effettuale. Come lei stessa sostiene, il male non è localizzato nel solo individuo, ma è strutturale nella stessa società che lo circonda. E non solo per la sua organizzazione civile e politica e per la sua etica, ma anche in quella zona grigia che essa crea quando dimentica il proprio passato e crea il buio della sua conoscenza per quelli che saranno la linfa di vita per il futuro, i giovani, le future classi insegnanti e dirigenti. L’unica difesa che essa società ha è quella di tenere sempre accesi, in vita ed in vista gli ‘attimi’ del passato e passarne il testimone nei circuiti scolastici, al di là delle costrizioni ‘ministeriali’ Il non fermarsi all’Attimo del Faust, il suo insopprimibile bisogno di cercarne sempre la perfezione empirica, concretizzata nell’Attimo che diverrebbe ‘bello’ e che, in mancanza, lo avvolge inarrestabile in una brama di vita insopprimibile, è quello che lascia scornato Mefistofele e gli soffia l’anima che egli contava di acquisire. E l’inganno di cui egli Diavolo, cade vittima, è dovuto anche al Logos, alla Parola ed al suo costrutto, derivante dalla Ragione umana, che Mefistofele rimproverava a Dio di aver fornito all’uomo. Faust, infatti, dice non ‘mi fermo’ ma ‘POTREI farlo’, al condizionale: «Ecco il tumulto che io vorrei vedere, e sul libero suolo vivere con popolo libero. POTREI allora all’ATTIMO ben dire ‘Fermati dunque…’» (1). Insomma il Diavolo ci rimette le corna anche per ignoranza della ‘grammatica’. L’ignoranza della Storia, lasciando fermo l’Attimo mostruoso (opposto al Bello faustiano), indietro, non più conosciuto ai posteri per quello che è stato e delle cause delle sue origini, è una delle maggiori radici umane responsabile del male, sospeso gravido sul futuro.
Lavori consultati Le citazioni non riportanti i numeri di richiamo della fonte, sono estratte da: Hannah Arendt, ‘La banalità del male’, Feltrinelli 2012, (i dati riportati sul Colophon del libro sono errati, si riferiscono all’opera ‘Il conte di Montecristo’, invece che all’opera della Arendt).
(1) J.W. Goethe, ‘Faust’ (traduz. Guido Manacorda), BUR, 2005; (2) Francesco Alberoni, ‘Le radici del bene e del male’, Garzanti, 1981.
Inoltre: Hannah Arendt, DVD (film)+Libro, Feltrinelli, 2012 Un commento di GeriSteve Articolo molto filosofico e molto profondo. Direi "troppo". Mi sembra che sia la Harendt sia l’autore cerchino di capire chi realmente fosse Eichmann senza considerarne sufficientemente i suoi aspetti contraddittori, tipo: "come era possibile che un lettore di Kant non meditasse a fondo su ciò che lui faceva?" Credo che la risposta stia nel fatto che sia i condizionamenti del potere (ben citati con Primo Levi) sia l’ambiente angosciante influiscono fortemente sulle capacità di pensare, nel senso che inibiscono quei pensieri le cui conclusioni possone essere troppo angoscianti perchè rivelano i contrasti fra il proprio pensiero e i pricipii del potere dominante e i contrasti fra il proprio agire e la propria etica di solidarietà umana. Su come agiscono queste inibizioni del pensiero psicologi e psicanalisti hanno scritto molto, ma secondo me la spiegazione più convincente l’ha data invece un etologo, recentemente scomparso: Dànilo Mainardi, nel suo libro "L’animale irrazionale". La sua tesi è che l’animale uomo è diventato capace di deduzioni logiche che possono portare a stati di angoscia, tipo la deduzione della inevitabilità della propria morte e che, per non soccombere all’angoscia, l’uomo abbia evolutivamente creato un meccanismo di inibizione dei pensieri eccessivamente angoscianti. Questa tesi spiega bene come nella cultura umana si siano insediate idee sul sovranaturale, sulla vita oltre la morte, sull’"essere superiore e invisibile", sulle religioni. Per molti versi, il nazismo è stato una religione e forse lo sono anche altre ideologie. Queste capacità di inibire pensieri angoscianti sono quelle che permettono a molte persone di vivere tranquillamente le contraddizioni fra un’etica pubblica e il loro comportamento secondo un "familismo amorale", dove la famiglia può benissimo essere una mafia, una loggia o un partito nazionalsocialista.
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