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Ci siamo tutti rammolliti di Alessandro Montefameglio
Ribellione non ce n’è, restaurazioni nemmeno. La dignità di chi si diceva idealista scompare, la forza di chi si voleva antidealista svanisce e la volontà è diventata aspirazione. In poche parole ci siamo rammolliti tutti: un gruppo di rammolliti terrorizzati.
Se si può fare il nome di uno scrittore italiano che più di altri ha subìto gli effetti della fossilizzazione dei programmi scolastici, questo è Ippolito Nievo. E più che una questione politica è una questione culturale: nessuno se la sente di liberarsi, almeno per un semestre, di Don Abbondio e dei bravi, assillanti fino alla nausea per un quinquennio intero, come se si dovesse rimuovere un idolo dall’altare. Qualche studente, alternando scuola e lavoro, avrà finito così col credere davvero che Manzoni abbia scritto l’unico grande romanzo in lingua italiana del XIX secolo, che non vi sia figura femminile nella letteratura che eguagli la pia e casta Lucia, che non vi sia storia così come la fa Manzoni, che non vi sia ironia così come la fa Manzoni, che non via sia originalità romanzesca fuori da Manzoni. E così, invasi come siamo da questo abito, non leggiamo poi una sola parola di Gadda né di Moravia né di Calvino né di Pasolini. E, dietro, di Nievo.
Ippolito Nievo (1831/1861)
Nievo, che a differenza di Calvino è per un periodo contemporaneo di Manzoni, scrive Le confessioni di un italiano, romanzo forse immensamente più grande degli stessi (grandissimi) Promessi sposi, testo epocale, tutt’ora completamente ignorato e marginalizzato a certa letteratura minore. Basta leggere i primi tre capitoli per capire che nelle Confessioni c’è tutto: la storia, la Provvidenza, l’ironia, la grande lingua letteraria (in questo caso il veneto come alternativa al toscanismo imperante) e quella Pisana (l’anti-Lucia), figura femminile che non ha eguali davvero nella letteratura europea. Scrive Nievo, tra il 1857 e il 1858, nelle Confessioni, queste parole, e sembra che parli davvero di noi: È segno che tutti si rassegnano a pigliar le cose come stanno; contenti di salvar la decenza colla furberia della gatta che copre di terra le proprie immondizie […] La robustezza fisica, la costanza dei sentimenti, la chiarezza delle idee e la forza dei sacrifizi […] queste doti meravigliose, saldate per lunga consuetudine negli individui, e con essi portate a operare nella sfera sociale, tutti conoscono come potrebbero ingerminare, proteggere ed affrettare i migliori destini d’un’intera nazione. Invece i costumi sensuali, molli, scapestrati fanno che l’animo non possa mai affidarsi di non essere svagato da qualche altissimo intento per altre basse ed indegne necessità: il suo entusiasmo fittizio si svampa d’un tratto o almeno diventa un’altalena di sforzi e di cadute, di fatiche e di vergogne, di lavoro e di noie. L’incancrenirsi di siffatti costumi sotto l’orpello luccicante della nostra civiltà è la sola causa per cui la volontà è diventata aspirazione, i fatti parole, le parole chiacchiere; e la scienza si è fatta utilitaria, la concordia impossibile, la coscienza venale, la vita vegetativa, noiosa, abbominevole. E conclude: Ora, quando sarà bisogno che le forze si sieno quadruplicate, troverete in quella vece che la maggior parte si è infiacchita, sviata, capovolta: e invece d’aver fatto un passo innanzi l’avrà indietreggiato di due.
Sono parole dure e oneste dette da un italiano del secolo delle unioni, dei risorgimenti e dei moti. Ma non sono forse lo specchio del nostro disagio contemporaneo, per usare il recente termine di Raffaele Alberto Ventura? Nievo è qui agli esordi del suo romanzo. Sta descrivendo i temperamenti del suo protagonista quando, giovanissimo, egli conosce la Pisana e si trova a dover fronteggiare, in qualche strano modo, il turbinio sensuale e caratteriale della contessina, finendo in una riflessione sull’infanzia e sull’età adulta. Il monito è questo: quanto rischiamo di rammollirci senza la robustezza fisica, la costanza dei sentimenti e le idee chiare in testa!
Ora, contravvenendo (ma non troppo) al canone giornalistico e parlando per me stesso, dico che non c’è persona più lontana di chi sta scrivendo dal bigottismo che le parole di Nievo sembrano predicare, dall’agone politico, dalle nostalgie patriottiche, dall’ideale sociale e, soprattutto, dalla letteratura civile. Ho sempre amato le debolezze e le fragilità, rifuggo il mito della forza e della virilità, gli inni, le parate e le fanfare e, se sono particolarmente su di giri, persino l’idea di nazione e di democrazia, soprattutto se è quella degli italioti e non degli italiani come Gramsci. Dico di sforare non troppo perché è il protagonista stesso delle Confessioni a sottolineare, parlando di sé: Io non sono bigotto: e non predico pel puro bene delle anime.
E d’altra parte io – solo con questa voce parlo – sono un esempio vivo, attivo e deluso delle generazioni post-postmoderne, che legge Nievo ma vede gli effetti freschi della liquidità di Bauman; a cui suonano già obsolete le isterie dell’Underworld di DeLillo; che ha vissuto il vuoto dei teatri elettronici nelle discoteche degli anni Zero; che ha visto manifestarsi la trasformazione in monadi sedute sui sedili dei bus e dei treni regionali di quelle giovani facce che scancellano la realtà di chi gli sta intorno tramite strumenti di virtualizzazione di massa, le nuove tavolette greche touch screen; che ha spento la televisione e ha acceso Instagram; che ha visto tornare in modo confusionario mode date per perse; che ha ascoltato i poemi canadesi di The Suburbs ed Everything now; che sperimenta senza martirio gli esiti post-89 della monetizzazione senza fine del mondo, della riduzione di ciò che rimane di autentico a giochi marionettistici della finanza globale. Zygmunt Bauman (1925/2017)
Leggo però oggi con deteriorato, godurioso (e forse un poco masochistico) piacere dei moniti di Esiodo nelle Opere e i giorni, quando di fronte alla viziosità da bar del fratello, ludopatico, meschino, venale e amante delle chiacchiere politiche, tenta di riportarlo ai sani, duri e morigerati valori delle campagne greche del VII secolo, alle giornate campali trascorse in base ai ritmi stagionali, alla rinuncia alle banalità e alle inutilità della vita mondana. Dopo aver vissuto i nostri vuoti culti giovanili dell’alcol e delle droghe leggere, ricordo che Alessandro alla mia età aveva in mano l’impero più grande del suo tempo, portato con la ferocia, la genialità militare e le lezioni di Aristotele. E naturalmente, nella fiacchezza derivata dalle diete forzate che oggi sadicamente pratichiamo, rammento che quella di noi giovani è già avanzata età oplitica, in cui i robusti ragazzi greci che fossero in grado d’acquistare armi vestivano, ai tempi dell’Atene classica, belle e scomode armature di quaranta chili per scontrarsi in battaglie rapidissime e violentissime, con lo scopo difendere il dèmos e la propria faccia.
Ma non c’è da correre troppo indietro con la fantasia. Basta pensare ai giovani rivoluzionari ai tempi dei giacobini, ma anche alla dura educazione dei coetanei che hanno avuto la sventura d’essere giovani ai tempi della Hitlerjugend, senza possibilità neanche di una denuncia Twitter. Che dire, all’opposto del giovane hitleriano, del partigiano in carne ed ossa, sostituito nei ginnasi di dieci anni fa dallo studente che colmava spaventose ignoranze storiche e filosofiche su Marx e Gramsci con occupazioni di aule, canapa, Bella ciao e santini russi, vestendo t-shirt fluo rappresentati l’anarchico Bresci o Rimbaud?
L’utilizzo in questo senso della letteratura ribelle è inquietante. Rimbaud da una parte, che alla nostra età aveva ultimato la sua (davvero) rivoluzionaria carriera poetica, ma anche Bukowski, per i più sofisticati Henry Miller, inteso da chi teneva nella giacca l’edizione economica di Opus pistorum come ribellione a un sistema marcio in nome di un’idea di libertà che altro non era che quella del libertinaggio. L’avessero davvero voluta la libertà… O l’avessero davvero odiata, s’intende.
Quale sistema poi si dice marcio se non si hanno nozioni hegeliane, se non si sanno collocare cronologicamente gli anni di piombo o criticare davvero, in senso storico e concettuale, il fantasma dei fascismi e dei comunismi?
Il percorso porta all’esplodere di tutto quel palinsesto di voghe e costumi che in poco più di un decennio ha davvero (s)figurato l’immagine culturale della generazione dei confusi, dal rovesciamento del mito della virilità maschile e della femminilità tradizionale all’idolatria delle suffragette e delle barbe hipster, dalla mancanza di identità a una sua isterica manifestazione con la fuga nella Siria dell’ISIS di giovanissimi e giovanissime dalle banlieue parigine, in nome di una religione che non si predica davvero e con la bandiera dell’odio verso l’Occidente. Se negli anni Ottanta postrivoluzionari (e il post-68 è davvero, checché se ne dica, il serbatoio di questa cultura) la moda new wave che portava David Sylvian a incipriarsi e ossigenarsi i capelli aveva un significato estetico di evidente serietà, oggi la de-virilizzazione del maschio si traduce spesso in un negazionismo del proprio sesso, in nome dell’apertura a nuovi modi di accettare una sessualità espansa e spesso confusionaria o in difesa di un boldriniano culto della donna che finisce col privare, paradossalmente, la donna stessa di una qualche forma di identità.
Thomas Neuwirth, meglio conosciuto come Conchita Wurst
Inserisco di tutto in questo pasticcio, è vero… Dico però che più che il sintomo di una mentalità, questo è il segno della confusione, del pigliar le cose, come diceva Nievo, casualmente, senza ragionare, senza tentare una schematizzazione, perché lo schema (anche se non ce n’è uno) è proprio ciò che si combatte, che si vuole evitare, che esiste, seppure fantasma, solo se combattuto, come combattuto. Rabbrividisco a pensare che questa è una società sradicata dal passato e proiettata verso un futuro continuamente nominato e mai realizzato, nel limbo del ricorso alla sacra dea Pfizer come cura per la semplice ansia degli esami universitari, per l’impossibilità di trovare lavoro e la necessità di averne uno, per l’angoscia di girare per strada in isolamento bluetooth, per l’abuso di luci led. C’è una pillola per tutto, d’altra parte.
Ce n’è una per chi ha avuto una delusione amorosa, ce n’è una per chi si sta laureando, ce n’è una per chi non è consapevole dei propri affetti. Alcune sono in milligrammi, altri sotto forma di abbonamenti, emoji o filtri. Ma gli autoscatti di oggi sono scatti senza soggetto, il soggetto è un soggetto senza padre né madre. E pensare che un tempo, nella stessa Europa delle ratificazioni Apple, non c’erano benzodiazepine per i ragazzi mutilati dalla guerra fatta, come diceva Trilussa, per un matto che comanna, o per chi vedeva i propri morire di peste per strada (nonostante non rischiasse terribili autismi tramite vaccinazioni).
Il giorno dopo Edvard Munch (1895)
Penso a tutto questo e mi stupisco di quanto mediocre mi sarebbe suonato solo vent’anni fa. Davvero dobbiamo recuperare certi miti che davamo come superati? È con questa domanda che si comprende l’esito dell’eccessiva tangente presa dal processo dei decostruzionismi novecenteschi, della demoralizzazione di costumi troppo opprimenti, delle ribellioni belle e buone. Dovrebbero distribuire gratuitamente la Retorica di Aristotele negli asili nido. I fatti diventano parole, le parole chiacchiere. Tutto in nome della società – parola antidiluviana – degli altari atei (non è questo il secolo de’ cilici), della contemporaneità nemmeno più liquida, aeriforme, in cui nulla si ha da amare né da odiare, oltre qualsiasi avanguardia che si voglia sperimentale e oltre ogni classicismo. Ribellione non ce n’è, restaurazioni nemmeno. La dignità di chi si diceva idealista scompare, la forza di chi si voleva antidealista svanisce, la volontà è diventata aspirazione. Un gruppo di rammolliti terrorizzati. Forse allora il vuoto di verità (non sono d’altra parte questi gli anni in cui ci si vuole re-interrogare sul senso della verità o della post-verità?) è davvero peggiore di una verità scomoda. Leggo con penoso godimento Esiodo e Nievo e forse – altrimenti, altrove – nemmeno lo farei. |