http://www.lintellettualedissidente.it 9 novembre 2017
Le Guerre Persiane, tra mito e storia di Lorenzo Pennacchi
Milziade a Maratona, gli Spartiati alle Termopili, l’invocazione di Temistocle prima di Salamina, la riconquista di Micale: ogni civiltà ha bisogno di miti. I nostri sono anche questi.
L’idea di questo articolo nasce in una domenica di autunno, quando, studiando per l’imminente esame di storia greca all’università, ci si sente chiedere dalla propria ragazza: ma i 300 spartani sono esistiti davvero? Ovviamente, è una domanda tesa a capire in che misura Leonida e i suoi, così tanto mitizzati nel celebre fumetto di Frank Miller e dalla trasposizione cinematografica di Zack Snyder, siano vissuti e abbiano determinato le sorti di tutta la Grecia. Questa domanda, apparentemente banale, è invece essenziale, perché evoca il rapporto tra mito e storia, così tanto significativo per la vita dell’uomo: da sempre, infatti, l’umanità ha bisogno di fondazioni ed eventi mitici per tendere verso qualcosa di più grande; col tempo, la storia vi si è affiancata, per legittimare questa tendenza, trasformandola in realtà.
Raccontare (e recepire) una delle più celebri guerre dell’antichità non è quindi mera erudizione, bensì un’importante tappa per comprendere chi siamo, con la consapevolezza che le cose sarebbero potute andare diversamente. Parlare di Milziade, di Serse, di Temistocle, fa sentire, narratori e interlocutori, grandi e piccoli allo stesso tempo, assuefatti da una grandezza incalcolabile ed eredi di uno spirito che ha portato Erodoto, ventisei secoli fa, a scrivere le sue Storie, di cui presentiamo il Proemio: Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso, perché gli eventi umani non svaniscano con il tempo e le imprese grandi e meravigliose, compiute sia dai Greci e sia dai Barbari, non restino senza fama; in particolare, per quale causa essi si fecero guerra.
Prima di cimentarsi nel pieno del conflitto, urge una piccola parentesi storiografica. Le Storie erodotee, divise in nove libri dai filologi ellenistici e conservate ancora intatte, sono la fonte di documentazione principale. Erodoto, assieme a Tucidide (narratore della Guerra del Peloponneso), è il grande storico del V secolo, testimone diretto dei fatti che riporta. Nato ad Alicarnasso (colonia greca in Asia Minore) in un clima di contaminazione tra Oriente e Occidente, nella sua vita viaggia molto (Grecia, Egitto, Scizia, Oriente). La sua opera è il riflesso di queste esperienze biografiche, in quanto eterogenea nei temi trattati erelativistica nella prospettiva di analisi. Accusato ripetutamente di essere philobàrbaros, egli è consapevole di essere greco, ma anche di avere componenti orientali, e quindi di dover far dialogare queste due dimensioni, senza né svilirne una rispetto all’altra, né cadere in un facile cosmopolitismo:
Passiamo alla guerra. L’episodio scatenante è la cosiddetta rivolta ionica del 499, da collocarsi all’interno di un percorso di accrescimento senza precedenti dell’impero persiano, iniziato vari decenni prima. Nel 546, infatti, i persiani guidati da Ciro avevano sconfitto Creso (re di Lidia e famoso interlocutore di Solone proprio nelle Storie erodotee), vincolando le poleis asiatiche al pagamento di un regolare tributo e all’assolvimento degli obblighi militari. Poco dopo, la stessa sorte era spettata al regno di Babilonia e, nel 525, Cambise (figlio di Ciro) aveva conquistato l’Egitto. Sotto Dario (dal 521) l’impero era cresciuto ancora, a dismisura, con ulteriori conquiste ai danni degli Sciti.
Adesso, nel 500, Aristagora, tiranno di Mileto, propone a Dario di assoggettare la ricchissima isola di Nasso: è qui che si verifica l’inimmaginabile. Al fallimento della spedizione – per incomprensioni tra il tiranno e i comandanti persiani – Aristagora, temendo la furia del Gran Re, decide di deporre la tirannide nella sua città, proclamando l’isonomia e innescando la rivolta, che si diffonde in tutte le poleis greche (assoggettate ai persiani) dell’Asia Minore. Aristagora si dirige allora in Grecia, dove viene respinto dal re spartano Cleomene I, ma ottiene il sostegno della bulè (il consiglio dei Cinquecento ateniesi), così da permettere ad Erodoto di ironizzare: evidentemente è più facile ingannare molti uomini che uno solo.
L’inganno evocato da Erodoto sta nel fatto che, da lì a poco, i focolai dei rivoltosi vengono spenti con la forza e l’Impero persiano è pronto all’offensiva, tesa alla conquista dell’ultimo grande territorio fuori dal suo dominio: la Grecia.
Dario deve necessariamente invadere la Grecia, sia per consolidare ed espandere il suo regno, ma soprattutto per dare l’esempio a chi ha osato sfidare la sua autorità. Per questo, devono essere puniti i sostenitori di Mileto e delle altre poleis asiatiche. Nell’estate del 490, il suo esercito distrugge Eretria e sbarca in Attica, dove trova, a Maratona, l’esercito ateniese ad attenderlo. A capo dei 9000 opliti vi è Milziade (re del Chersoneso tracico, costretto ad abbandonare la sua terra a causa dell’offensiva persiana) che ottiene, dagli altri strateghi, il comando totale, attraverso un’esortazione da brividi: Adesso dipende da te, Callimaco, rendere schiava Atene oppure garantirle la libertà (…) Oggi infatti gli Ateniesi si trovano di fronte al pericolo più grande che mai abbiano corso da quando esistono (…) Se tu ti schieri sulle mie posizioni, la tua patria sarà libera e la tua città la prima della Grecia; se invece scegli il parere di chi sconsiglia la battaglia, accadrà esattamente il contrario delle belle cose che ti ho prospettato.
L’esito della battaglia è del tutto inaspettato: Milziade ottiene una vittoria sconvolgente, che impone ai nemici di ritirarsi e infonde grande speranza alla nascente isonomia ateniese. Gli anni Ottanta vedono il consolidamento di un modello di società iniziato pochi decenni prima con Clistene, attraverso riforme e mutamenti di grande importanza.
In primo luogo, Milziade, l’eroe di Maratona, viene condannato e allontanato dalla città, per “aver ingannato gli ateniesi”, a seguito del fallimento della campagna di conquista delle Cicladi. Questo è l’inizio di una dinamica interna ad Atene, che mostra come i suoi cittadini siano sempre pronti a giudicare in maniera fredda e distaccata i propri capi. Tuttavia, l’ascesa di Cimone (figlio di Milziade) nell’immediato dopoguerra, mostra come questo non sia un processo chiuso e dunque rancoroso, bensì dinamico e desideroso di giustizia (seppur criticabile). Poco dopo, entra in vigore l’ostracismo, ovvero l’esilio di personalità pubbliche stabilite dal popolo, attraverso la votazione sull’òstrakon (“coccio”), che colpisce, tra gli altri, Aristide, lasciando al suo rivale Temistocle il controllo della città.
Nel frattempo, a Dario succede il figlio Serse, bramoso di vendicare la debacle del 490. Nel 481 inizia dunque la seconda fase della guerra, attraverso una campagna tesa all’assoggettamento dell’intera Grecia. È un disegno grandioso, divino come il suo architetto, che produce un flusso impressionante di persone (e non solo), le quali superano l’Ellesponto attraverso due fatidici ponti di barche: nella primavera del 480 il Gran Re è a un passo dalla Tessaglia. La Grecia è spaccata: da un lato le realtà delle anfizionie e degli stati etnici (beoti, focidesi, locresi, tessali), ben volenterosi di medizzare, ben consci dell’impossibilità di opporsi al Barbaro, e dunque di dover fare di quest’ultimo il proprio sovrano, nella speranza di vedersi risparmiata la vita e la terra; dall’altra il fiero mondo delle poleis, non curante dell’incredibile disparità di forze, in quanto animato dallo spirito di Maratona e dall’ideale di Grecità, e che per questo si compatta a Corinto, dando vita ad una vera e propria “lega” ellenica.
Quello che si prefigura, dunque, non è soltanto uno scontro tra due civiltà, ma anche un conflitto interno alla stessa Grecia. Per rafforzare la convinzione di questo processo, salgono in cattedra i leader delle città più rappresentative, mediante l’utilizzo del mito. Leonida si dirige al passo delle Termopili dopo il responso divino “o un re spartano morirà, o Sparta cadrà”: è questo l’episodio che a secoli di distanza colpisce maggiormente. La difesa di questo celeberrimo passo, nell’estate del 480, non è affare né di tutta Sparta (che avrebbe voluto difendere l’istmo di Corinto, permettendo ai persiani di saccheggiare l’Attica), né unicamente degli Spartiati (ci sono anche Locresi, Opunzi e Focidesi), ma è certamente un emblema dello spirito spartano, onorato dal Frammento 531 di Simonide: Di coloro che morirono alle Termopili la sorte è gloriosa, bello il destino, e un altare è la tomba, al posto dei gemiti il ricordo, e il compianto è lode. Una tale veste funebre la ruggine non oscurerà, o il tempo che tutto doma. Questo sacro recinto d’eroi scelse ad abitare con sé la gloria della Grecia. Testimone è Leonida, il re di Sparta, che un grande ornamento di valore ha lasciato, e una fama perenne.
Quando la strenua resistenza delle Termopili, capace di bloccare per giorni l’esercito persiano, viene meno, per i Greci sembra essere giunta la fine. Le truppe, che contemporaneamente stavano combattendo per mare all’Artemisio, si ritirano. Per Serse la strada è spianata: Atene viene saccheggiata e la sua acropoli data alle fiamme. Al mondo greco serve una scossa, un fremito di speranza, un’idea per la quale combattere. Ancora una volta si ricorre al mito. Temistocle rinsalda i cuori titubanti degli ateniesi interpretando le parole dell’oracolo delfico (il muro di legno soltanto, che te salverà i tuoi figli (…) O divina Salamina, farai perire figli di donne) come: le triremi greche difenderanno i propri cittadini, facendo perire i persiani a Salamina. Nel settembre del 480 sembra di tornare indietro nel tempo e rivivere l’impresa di Maratona. La flotta greca (comandata dallo spartano Euribiade) sconfigge quella persiana a Salamina, così come l’interpretazione dell’oracolo da parte di Temistocle aveva preannunciato. Come scriverà Eschilo ne I Persiani: Questo è certo: mai in un sol giorno morì una così sterminata caterva di uomini.
Per i greci è una vittoria epocale, ma i persiani non ponderano la resa, e sono pronti ad una nuova offensiva. È la terza fase della guerra, guidata da Mardonio, genero di Serse, che cerca un approccio diplomatico con le poleis, le quali, però, non possono accettare, in quanto unite come non mai da un’ideale di nazione unico per il mondo Greco (e non più visibile in futuro), testimoniato ancora una volta da Erodoto: templi Molte e gravi sono le ragioni che ci impediscono di far questo /arrendersi ai persiani/, anche se lo volessimo. Prima di tutte, e più di tutte importanti, le immagini e le dimore degli dèi incendiate e abbattute, che noi dobbiamo di necessità vendicare duramente, invece che venire ad accordi con chi ha compiuto tali misfatti, e poi la grecità, che è lo stesso sangue e la stessa lingua, e i comuni degli dèi e i riti sacri e gli analoghi costumi, dei quali non sarebbe bene che gli Ateniesi divenissero traditori.
Da queste emozionanti parole, segue un’altra celeberrima vittoria, quella decisiva, a Platea nella tarda estate del 479. Per i persiani è l’ennesima clamorosa disfatta, per i greci è il trionfo, da cui inizia la riconquista (Tebe, Samo), fino a che la guerra da difensiva, non diviene offensiva: nel 478 la flotta ellenica invade l’Ellesponto, poi gli ateniesi riconquistano Sesto, vincendo la battaglia di Micale. Così si concludono le Medikà (“cose/guerre persiane”), ribaltando tutti i pronostici e lasciando un alone mitico a cui si rifaranno molti personaggi illustri, anche nel Novecento: Ezra Pound condannerà la distruzione del Tempio Malatestiano di Rimini in seguito al bombardamento alleato del 1944, paragonandolo al rogo dell’acropoli ateniese da parte di Serse; Gabriele D’Annunzio si esprimerà così durante la sua impresa: “Gioventù” fu la parola d’ordine nella più bella battaglia ellenica, a Micale. “Gioventù” è la parola d’ordine nella più bella impresa italica, a Fiume.
Le Medikà si chiudono con un’unità mitica di tutta la Grecia, o perlomeno di una parte di essa, tanto entusiasmante quanto labile. Venuto meno il pericolo del Barbaro, infatti, le dinamiche interne alle singole poleis determineranno il sostrato che porterà alla Guerra del Peloponneso (431-404): una guerra civile che insanguinerà tutta la penisola, incrementando il livello di drammaticità caratteristico del V secolo. Ma questa è un’altra storia.
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