http://www.doppiozero.com/ 02 Novembre 2017
Sessantotto in absentia di Stefano Chiodi
Mentre si attende a giorni la celebrazione di un altro incombente anniversario, i cento anni dalla Rivoluzione d’ottobre, il cinquantenario dal Sessantotto già si profila all’orizzonte con la perentorietà degli appuntamenti obbligati e delle domande inevitabili. L’annus mirabilis come matrice di ciò che siamo diventati? Come ormai lontana origine dei nostri abbagli? O come esempio da ritrovare nel presente di una spinta radicale che riuscì a scompaginare tutti i campi della produzione culturale e dell’esistenza sociale imponendo la loro incessante “criticabilità”? E se anche sapessimo rispondere, in quali forme poi mostrare tutto questo? Due mi sembra siano le soluzioni possibili. La prima è quella, visionaria ed enciclopedica, di cui nell’autunno del 2016 ha dato copiosa testimonianza la mostra di Georges Didi-Huberman Soulèvements al Jeu de Paume a Parigi: un vorticoso montaggio di immagini, opere e documenti, in cui si cercava di disegnare un atlante morfologico dei gesti di rivolta, dei “sollevamenti” appunto, che finiva però per cadere vittima di una visione sentimentale e paradossalmente depoliticizzata degli stessi. La seconda soluzione è al contrario ristretta, distaccata, contestuale, come quella messa in pratica dalla mostra È solo un inizio. 1968, a cura di Ester Coen (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea, fino al 14.1.2018): misurare uno “stato all’arte” sincronico al Sessantotto, respingendo la tentazione a ridurre le opere a meri sintomi o a diluirle nel flusso indifferenziato della cultura visiva dell’epoca.
Come rendere conto però della indispensabile eppure problematica asincronia tra i ritmi della creazione e gli eventi, i discorsi, i fatti di quel tempo irripetibile? Anziché ricorrere, come sarebbe stato prevedibile, al rassicurante supporto della documentazione storica, alle virtù terapeutiche dell’archivio, la curatrice ha optato per una soluzione più rischiosa, riducendo l’esposizione ai dati essenziali dal punto di vista artistico – un compatto nucleo di circa quaranta opere, in massima parte di artisti italiani –, col solo accompagnamento di un’esile pubblicazione (a cura di Ilaria Bussoni e Nicolas Martino, Electa, pp. 36, euro 5) che concede però sin troppo spazio alle voci dei testimoni diretti e si mostra invece sorprendentemente reticente sul piano dell’analisi storica e critica.
Questa scelta curatoriale, per molti versi controcorrente rispetto alla diffusa preferenza per ampie esposizioni tematiche dal ricco apparato storico-documentario, riflette almeno a prima vista la tonalità generale dell’attuale, controverso allestimento della Galleria nazionale inaugurato giusto un anno fa, Time is out of joint, in cui opere di collezione e prestiti compongono un mosaico che se appare agli antipodi del vecchio e polveroso ordinamento storico si dimostra sin troppo fiduciosamente affidato a superficiali corrispondenze tematiche o formali.
Alla base dell’operazione di Ester Coen mi sembra tuttavia di poter leggere un’intenzione assai diversa, il non facile tentativo cioè di restituire, prima ancora di ogni sistemazione filologica, anzitutto la percezione immediata della proteiforme energia sperimentale dell’arte degli anni cruciali intorno al ’68, della sua capacità di infrangere recinti linguistici e abitudini percettive, di abolire gerarchie e distinzioni espressive. Un intento esplicitamente dichiarato nel trattamento dello spazio di esposizione – il grande salone centrale del museo e gli ambienti adiacenti –, lasciato privo di percorsi e supporti esplicativi (a rischio dunque di una oggettiva difficoltà di lettura per il pubblico) e utilizzato come una piattaforma neutra e aperta, su cui opere spesso dissonanti per tecniche, materiali, poetiche, convivono in un continuum spaziale e concettuale che ha diretti precedenti negli allestimenti delle rassegne che tra il ’68 e gli anni immediatamente successivi segnano il passaggio a una nuova, intensissima stagione sperimentale, da Arte Povera + Azioni Povere, curata da Germano Celant in collaborazione con Marcello Rumma negli antichi Arsenali di Amalfi (1968), alla paradigmatica Live in Your Head. When Attitudes Become Form, allestita da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna nel 1969, il cui modo di integrare e mettere in dialogo pratiche artistiche eterogenee ha costituito uno dei più influenti esempi nei decenni successivi (entrambe le mostre sono state di recente re-enacted, riproposte, secondo una pratica oggi ampiamente diffusa: la prima nel 2011 al Museo Madre di Napoli, la seconda nel 2013 alla Fondazione Prada di Venezia; di quest’ultima Stefania Zuliani ha scritto qui per doppiozero).
In questi casi e numerosi altri dello stesso periodo ciò che emergeva era in effetti un attacco allo spazio espositivo ereditato dalla tradizione modernista, con l’abrogazione di ogni tradizionale partizione formale a favore di una presentazione aperta, orizzontale, in cui emergeva una nuova concezione dell’esposizione come ambiente destrutturato, non gerarchico, insieme laboratorio e luogo di discussione, in cui il dialogo tra curatore e artisti investiva direttamente lo spettatore e lo spazio pubblico nel segno di un problematico avvicinamento alle dinamiche politiche del momento. Questa nuova impostazione, che rifletteva d’altro canto la volontà degli artisti di assumere il controllo delle modalità di esposizione e di commento critico del loro lavoro, era condizione essenziale per pratiche creative dalla natura metamorfica, “processuale”, fenomenologica, esplicitamente opposte a ogni cristallizzazione formale o ideologica.
Le ricerche che tra Europa e America si diffondono alla fine dei Sessanta –solitamente rubricate sotto le etichette di post-minimalimo, di anti-form, di arte povera, concettuale o comportamentale – si presentano in effetti non solo come vittoriosi assalti alla presunta compattezza della narrazione modernista e formalista, al suo inflessibile appello alla specificità di segni, materiali, tecniche, ma anche come una rivendicazione di per sé politica che guardava alla ricomposizione della cesura arte-vita e alla possibilità di allineare le pratiche dell’arte a più ampi processi di trasformazione del mondo reale come a un orizzonte agibile e vitale per ogni operazione artistica.
Se l’obiettivo polemico di queste tendenze erano le estetiche della pop art e del minimalismo, esse si muovevano in inevitabile sintonia col più generale movimento di opposizione alla forma di vita tardocapitalista, alle sue istituzioni e gerarchie, che caratterizzava nello stesso periodo il clima culturale e politico della società occidentale e in cui il pensiero utopico e antiautoritario si imponeva, tanto nelle piazze che nella sfera culturale, nella forma di una negazione radicale di una “ragione” identificata con la costituzione alienante della civiltà tecnologica. Come scrisse Alberto Boatto sul terzo numero di “cartabianca” uscito nel novembre del ’68 con l’eloquente sottotitolo Contestazione estetica e azione politica, “l’arte e la cultura non stanno all’esterno, ma dentro gli avvenimenti. Con funzioni non di commento e neppure di testimonianza, ma di partecipazione al complesso meccanismo della loro produzione”.
La deflagrazione di media e tradizioni espressive e l’avvento di un’arte risolta in “situazioni” e in processi di pensiero, nell’immateriale, nel performativo, può essere in effetti misurata nelle opere esposte alla Galleria Nazionale, tutte, per quanto diversi i loro contesti e motivazioni originali, scelte con evidente attenzione alla loro specifica qualità. Se ne possono ricordare qui solo alcune, tra cui quelle che in modi diversi riflettono sui dati plastici e fenomenici della scultura, come la struttura sospesa di Marisa Merz, Living Sculpture (1966), in cui tubi di alluminio sagomati e aperti compongono una forma sinuosa, organica, instabile, Tre modi di mettere le lenzuola (1968) di Luciano Fabro, che articola su tre identici telai altrettante e sottilmente evocative varianti sul tema del panneggio, o Fermacarte (con un passo) (1968) di Emilio Prini, che articola spazio concreto, tridimensionale, e spazio dell'“indice” evocato dalla fotografia posata a terra, o, a titolo ovviamente diverso, le opere di Eva Hesse, Joseph Kosuth e Hans Haacke (singolare invece, anche per la sua centralità nel periodo preso in esame, l’assenza in mostra di una figura quintessenziale come quella di Joseph Beuys).
Diversi sono i lavori iconici presenti nell’esposizione, alcuni dei quali diventati nei decenni successivi emblematici sia del momento storico che del percorso dei relativi autori, a partire da Festa Cinese(1968) di Mario Schifano, quadro sontuoso ed enigmatico dipinto per la casa romana dell’ineffabile Gianni Agnelli, all’ironica “scultura che mangia” (1968) di Giovanni Anselmo, due blocchi di granito tra cui è inserito un cespo di lattuga fresca, alla “carboniera” Senza titolo (1967) di Jannis Kounellis, con il suo contrasto tra la complessa stereometria del recipiente metallico e l’informe, sfaccettata e oscura potenza del carbone, al vertiginoso Autoritratto di Giulio Paolini nelle vesti di Nicolas Poussin citato attraverso un doppio riporto fotografico (1968), sino al fragile, straordinario Acqua scivola (Igloo di vetro) di Mario Merz (1969), una delle opere più emblematiche della mostra (fu presentata tra l’altro a When Attitudes… nel 1969), con le sue lastre di vetro precariamente saldate con mastice da vetraio il cui odore penetrante è forse una delle presenze più inattese e rivelatrici di tutta la mostra.
C’è nella scelta di riunire una simile antologia di figure ormai canoniche della storia dell’arte recente un limite implicito: quello di offrire una visione istituzionalizzata e artificialmente conciliata, senza tempo, di una stagione altrimenti conflittuale e tuttora oggetto di controversia. È una conseguenza in effetti che la mostra non combatte e anzi rivendica come propria cifra specifica, e in cui si legge in filigrana lo scetticismo per ogni pedagogia espositiva che occulti sotto una sovrabbondanza di informazioni la capacità delle opere di resistere ai tentativi di assimilarle a un unico, asfittico spaziotempo. Resta la sensazione che la ricerca di una modalità rispettosa della sostanziale natura anacronica dell’esperienza artistica, della sua capacità cioè di farsi punto di confluenza di flussi temporali non riducibili al suo momento cronologico, non possa fare a meno di prendere in carico proprio quanto nel caotico “spazio del presente” del ’68 rimaneva necessariamente fuori dal mondo dell’arte e la cui elisione finisce per privarci della possibilità di rileggere quella stagione con la radicalità che essa esigeva per il proprio tempo.
Una versione più breve di questo articolo è uscita su «il manifesto – Alias » del 29 ottobre
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