Guarda il video: 10 Seconds of Extreme Trading in Blackberry http://www.lintellettualedissidente.it/ 21 settembre 2017
Il futuro è tra noi e fa un po’ paura di Gianmaria Vianova
Viviamo nell’esatto istante in cui il futuro descritto dai romanzi fanta-distopici diviene presente, portando con sé una rivoluzione nel modo di intendere il settore economico-finanziario e, di conseguenza, il nostro stile di vita: se hai paura del futuro sappi che non sei il solo.
E’ arrivato quel momento, lo aspettavamo da secoli. Il genere umano possiede per la prima volta la tecnologia immaginata dai romanzi di fantascienza. Per la prima volta possiamo viverla, la fantascienza. L’abbiamo sempre guardata con un occhio distaccato, futuro che fa capolino all’orizzonte ma che non si raggiunge mai. Ora ce la ritroviamo davanti, vive e cammina insieme a noi. Siamo in grado di conviverci? Al momento sembra di no. Ci meravigliamo ancora, non comprendiamo che le Leggi della Robotica di Asimov rischiano di non essere prese sul serio: un robot non può recare danno a un essere umano, deve sempre obbedire agli ordini degli esseri umani (a meno che non contrastino con la prima legge) e un robot deve proteggere la propria esistenza. Anzitutto scordatevi lo stereotipato robot di latta: saranno le intelligenze artificiali a governare il mondo.
Parola di Vladimir Putin: L’Intelligenza artificiale è il futuro. Non solo in Russia, ma per tutta l’umanità. Si presenta come un’opportunità colossale, ma anche come una minaccia che è difficile da prevedere. Chiunque governerà questa sfera governerà il mondo.
Certo, perché ormai è una questione mondiale, anche per quella Federazione Russa che nell’immaginario collettivo viene ancora rappresentata come l’URSS del cemento e del cosmonauta di Armageddon. Alle parole di Putin il geniale imprenditore dell’innovazione Elon Musk (Paypal, Tesla, Space-X, ecc…) ha twittato It begins, ovvero è cominciata [la corsa alle AI]. Musk ha anche rilanciato, spiegando come il casus belli di un nuovo conflitto mondiale potrebbe derivare non da azioni umane ma da un’intelligenza artificiale che potrebbe decidere che un attacco preventivo costituisce la via ideale per la vittoria.
Dichiarazioni pesanti. Se personaggi di quel peso specifico si scomodano per allarmare il mondo riguardo i risvolti dello sviluppo tecnologico (portando in secondo piano gli scenari della Corea del Nord, per dire) allora evidentemente la questione è più impellente del previsto. E se dicessimo che il mondo va già avanti senza che l’uomo intervenga in prima persona? Buona parte delle transazioni sui mercati finanziari, specie quelle ad alta frequenza, sono opera di algoritmi matematici applicati dagli elaboratori. Le immagini dei film yuppie anni ’80 sono un antico ricordo: niente più Commodore che fungono da terminali, niente più trader collegati via telefono. Le quotazioni si possono controllare in tv, su internet, sullo smartphone con una semplice app. Con la stessa, poi, si possono acquistare azioni istantaneamente. E questo solo per soddisfare il bisogno degli investitori di poter applicare la propria volontà in tempi celeri. La velocità con cui avvengono gli scambi oggi è disumana, nel senso che è impossibile per una singola mente umana poter incrociare informazioni, calcoli matematici e oscillazioni in tempo debito. È qui che l’intelligenza artificiale entra in gioco.
A dire il vero è impreciso parlare di IA in questo contesto: l’intelligenza artificiale, in quanto tale, deve agire umanamente. Gli strumenti informatici che agiscono oggi in borsa non agiscono umanamente, bensì logicamente e razionalmente, come l’homo oeconomicus della macroeconomia dotato di QI oltre ogni valore contemplabile. Stime riportano che il trading ad alta frequenza, compravendita di azioni in intervalli inferiori al decimo di secondo, possa costituire oltre il 70% delle contrattazioni della borsa statunitense e quasi il 35% di quelle europee (alla Borsa di Milano addirittura il 50%). A quelle velocità sono i robot ad entrare in gioco, sostituendosi agli operatori in carne ed ossa. E quando entrerebbero in gioco? A dire la verità stanno già giocando, e da diverso tempo. JP Morgan ha dichiarato che sin dal primo trimestre del 2017 l’intelligenza artificiale ha sostituito gli umani nel trading ad alta velocità nei mercati europei. La sperimentazione è andata talmente bene da far propendere il colosso a introdurre il silicio anche nella stock-exchange statunitense. Efficiente, razionale, immediato. Qual è allora il problema? Perché dovremmo allarmarci? Semplice. Come già detto, gli algoritmi non pensano come noi, quindi non reagiscono sempre come noi. Anche le stringhe di codice possono travisare l’interpretazione di alcune variabili con la differenza che loro sono prive di auto-coscienza: se decidono di vendere tutte le azioni lo fanno, senza ritegno.
Pochi ricorderanno cosa accadde il 6 ottobre 2016. Prima dell’alba, intorno alle 7 del mattino, nel giro di due minuti sulla borsa di Hong Kong la Sterlina crollò del 6%, ai minimi da 31 anni. La Bank of England si mise immediatamente sull’attenti: cosa poteva essere successo? Qualcuno ipotizzò un caso di fat finger, dita grosse, ovvero un errore umano di distrazione in cui un operatore mette in vendita per sbaglio una quantità abnorme di Sterline che il mercato a quell’ora non era in grado di assorbire. Qualcosa però non torna: c’è una grande differenza tra le azioni di una azienda e una delle valute rifugio mondiali. Difficilmente un errore umano poteva giustificare tale crollo.
Kathleen Brooks, direttore delle ricerche del Forex.com, disse la sua: Il diluvio di titoli di giornali negativi sulla Brexit potrebbe aver spinto un algoritmo a decidere che era arrivato il momento per vendite massicce.
E certo, perché in quei giorni Theresa May confermò la volontà del Regno unito di attuare una Hard Brexit, inaugurando le trattative con Bruxelles a partire dal 2017. In un mercato così interconnesso, come quello di oggi, l’attivazione di un algoritmo non si può considerare indipendente dal sistema, anzi. L’algoritmo che ha offerto Sterline in massa, soltanto per aver appreso male le parole della May, ha fatto scattare centinaia di altri algoritmi sulla piazza borsistica, determinando il sopracitato crollo. Tutto ciò fa riflettere, ma non prima d’aver instillato una buona dose di inquietudine.
Il venir meno della componente umana, però, non si limita alla sfera della finanza. La tecnica di produzione acquisita dagli umani comincia pian piano ad essere implementata nelle macchine automatizzate: la tecnologia, ovvero l’applicazione della tecnica, è sempre più sorprendente ed efficiente. I grandi della Silicon Valley, dai loro avveniristici palazzi di vetro, hanno sottolineato come l’automazione ruberà il lavoro agli umani. Bill Gates ha addirittura proposto un tassa sui robot destinata a rilanciare l’occupazione umana (proposta discussa ma rigettata anche al Parlamento Europeo). Elon Musk, l’onnipresente, ha invece lanciato un disperato appello per l’istituzione di un reddito minimo garantito destinato all’uomo, che rimarrà orfano del salario come oggi lo conosciamo.
Come si è già avuto modo di spiegare, il reddito minimo universale rappresenta di per sé un atto di resa agli eventi. È il lavoro che nobilita l’uomo, la creazione di valore aggiunto: un contentino adibito a calmierare il dissenso non può considerarsi sufficiente, men che meno definitivo. Secondo una ricerca del MIT tra 120 anni le macchine saranno in grado di svolgere qualsiasi lavoro oggi occupato dagli esseri umani mentre già nel 2028 l’intelligenza artificiale sarà in grado di comporre musica pop di successo. Nessuno, insomma, sembra avere scampo. Di diverso avviso è Stefano Scarpetta, capo del dipartimento lavoro dell’OCSE, che riduce all’8-10% la percentuale di mansioni in cui le macchine ci sostituiranno. Il rischio, per Scarpetta, risiede più che altro nella disuguaglianza che potrebbe venirsi a creare tra lavoratori ad alta competenza e privi di competenza: le posizioni intermedie, infatti, vedrebbero l’ingresso del silicio nella filiera produttiva. Come si sarà notato, è parecchio complicato decifrare il prossimo futuro: le macchine rubano lavoro ma, di fatto, creano nuove posizioni lavorative connesse all’implementazione di strumenti ad alta tecnologia. La realtà che abbiamo di fronte è a dir poco vulcanica.
Il rapporto uomo-robot è una incognita tutt’oggi difficile da decifrare e interpretare
Tecnologia che ruba il lavoro o ne crea di tipologie inedite? In teoria potrebbe esserci un’altra possibilità: l’intelligenza artificiale e i robot compiranno il lavoro che gli uomini non potranno più fare e questi ultimi si dedicheranno ad attività umanistiche e artistiche ad alto arricchimento personale. Era la tesi dell’ultimo Marx, quella esposta nel Frammento sulle macchine. Evidentemente nel dibattito attuale le parole del barbuto profeta materialista vengono snobbate: è diversa la congiuntura culturale. Nella seconda metà dell’ottocento si credeva fermamente in un cronico aumento della produttività destinato a rivoluzionare continuativamente il proprio modo di vivere.
Oggi, reduce dalla recessione più profonda dal 1929, il mondo è un po’ meno fiducioso nei propri mezzi. L’idea che l’uomo possa dedicarsi a coltivare se stesso pare utopica, perché la società non è precisamente divenuta un Eden. I beni di prima necessità hanno ancora un costo non indifferente, il salariato deve ancora sopravvivere lavorando, lottando con i denti per una retribuzione adeguata. In buona sostanza quello che Marx e il positivismo non potevano contemplare era l’avvento della società dei consumi sfrenata e irrazionale, che fa dello spreco la prima voce del fatturato e necessita di una perenne crescita della domanda di beni per sopravvivere.
In questo clima di sfiducia verso l’umanità, il percorso intrapreso pare quello dell’alienazione delle competenze: se lo fa un computer al posto tuo, l’esecuzione si rivelerà migliore quali-quantitativamente. Persino un’invenzione prettamente umana, come la moneta, si ritrova ad essere smaterializzata e ridotta ad una sequenza di bit. Carte di credito e strumenti di pagamento elettronici pare siano destinati a sostituire la cara cartamoneta.
In Italia il limite per i pagamenti in contanti è di 2999 euro, tendente a contrarsi ulteriormente nel tempo. Nel mondo non mancano esperimenti più coraggiosi. In India ad esempio, a decorrere dal 1 gennaio 2017, tutte le banconote da 500 e 1000 rupie non hanno più corso legale. Considerando che quei tagli costituivano circa l’86% di tutto il circolante cartaceo, potete immaginare il disagio creato alla popolazione, così come i risvolti sul piano economico. In un primo momento fu il caos: per una popolazione di 1,3 miliardi di abitanti circolavano solo 25 milioni di carte di credito e più dell’85% dei 660 milioni di carte di debito veniva utilizzato solo per prelevare denaro contante dagli sportelli automatici. Il 98% degli scambi avveniva con moneta cartacea. Superfluo evidenziare come inizialmente le vendite al dettaglio siano crollate verticalmente.
Oltre i meri dati, nelle zone rurali e più povere dell’India, dove l’economia scompare dalle analisi statistiche, il crollo dei prezzi dovuto alla mancanza di liquidità si è rivelato devastante. Vi sono luoghi in cui la tecnologia è ancora troppo, troppo avanti per essere accettata e assimilata. Non c’è tempo: la fiumana avanza e se non ti adatti muori.
Ma cos’è che ha spinto il primo ministro Modi a voler rendere l’India la prima nazione cash-free? La versione ufficiale parla del disperato tentativo di far riemergere l’enorme iceberg del sommerso in India, dove baratto e scambi non registrati la fanno ancora da padroni. La versione più pragmatica, invece, ci insegna che smaterializzando la moneta l’autorità centrale sia in grado di raggiungere con i suoi tentacolichiunque, senza più limitazioni di sorta (blocco dei conti correnti, tributi, ecc..). Per non parlare del grande aiuto al settore bancario: a Giugno erano oltre 270 milioni i conti correnti aperti dai cittadini indiani. In un solo anno. E il cash-ban è solo una frazione del progetto India Stack, che si prefigge di creare una piattaforma elettronica centralizzata in grado di digitalizzare l’India. È un po’ come la rivoluzione russa: il comunismo ha preso piede nel luogo che meno ti saresti potuto aspettare, ovvero nella allora retrograda Russia. Ma attenzione, perché non è finita qui: la guerra al contante è questione globale. Basti pensare alla volontà di togliere dalla circolazione in tutto l’occidente le banconote di taglio maggiore, oppure gli incentivi che Visa sta elargendo a catene di ristoranti per passare ai sistemi di pagamento elettronici.
Tutto questo in una dimensione nazionale e sovrana, ovviamente. Sta però prendendo piede inesorabilmente anche il contraddittorio universo Blockchain, lontano anni luce dal controllo delle autorità e decisamente scomodo per le istituzioni bancarie e monetarie di tutto il pianeta. Il Blockchain è, semplificando, un enorme registro decentralizzato (diffuso in tutta la rete, panteista in un certo senso) in grado di immagazzinare informazioni. È la nuova era di Internet, che verrà con o successivamente quella delle cose: l’Internet delle transazioni.
Mondo ad oggi oscuro ai più, ha la propria vetrina nella cripto-moneta Bitcoin (una delle centinaia), proprio in questi giorni oggetto di critiche e dibattiti. Jamie Dimon, CEO di JPMorgan Chase, l’ha definita una truffa, non è una cosa reale, alla fine verrà chiusa. Ed è solo l’ultima delle tante personalità autorevoli che hanno speso parole di fuoco. La Cina invece è passata direttamente ai fatti, proibendo le transazioni in cripto-moneta, fatti salvi gli scambi Over The Counter (fuori dal mercato ufficiale). La cosa che preoccupa relativamente di tali strumenti è la loro totale estraneità a qualsiasi tipo di controllo. Si tratta di una moneta che non ha circolazione forzosa e non permette di pagare alcun tributo ad alcuno Stato. Essendo slegata dalle dinamiche tradizionali il suo andamento si presenta fortemente altalenante, con volatilità notevole e imprevedibilità delle quotazioni. È questo che fa paura a banche e governi: è fuori dal loro raggio d’azione, per ora.
Certo, per ora. In tutto il pianeta Terra ci sono menti che stanno lavorando su modelli che siano in grado di comprendere e governare il flusso derivante dalla rivoluzione Blockchain: non bisogna fidarsi ciecamente delle dichiarazioni. Dovessero riuscirci potremmo trovarci di fronte ad un mondo in cui Amazon e pochi altri colossi costituiscono l’intera offerta di beni, pagabili unicamente in criptovaluta con scambi registrati e accessibili da qualsiasi organo autorizzato. In questo senso Bitcoin e similari si presterebbero perfettamente a diventare moneta unica mondiale, proprio in quanto slegate da ogni logica nazionale e governativa.
L’illusione della società liberale, di fronte ad un mondo perennemente registrato e controllabile, verrà senza dubbio meno (si dovessero realizzare le premesse, ovviamente). L’era dei big data impone la compressione della privacy: tutto diventa tracciabile. Ogni oggetto collegato ad Internet o attrezzato con GPS cattura dati sulla tua condotta di vita. Per dare una idea, è pari 2,5 miliardi di miliardi di Bytes il volume dei dati prodotti ogni giorno nel mondo. Una enormità.
Infografica sugli spaventosi volumi dei big data, prodotti anche da te che leggi l’articolo in questo momento
È a questo punto giusto chiedersi: il futuro è arrivato, noi siamo pronti? Probabilmente no. Nelle università si insegna ancora la dottrina marginalista ottocentesca, secondo la quale il valore di un oggetto deriva dal suo grado di utilità per il consumatore. Il marginalismo, nel 2017, nella stessa epoca di Wikipedia, l’immensa enciclopedia gratuita? Pura follia anacronistica. Il capitalismo deve prepararsi ad una rivoluzione in cui sempre più beni, principalmente immateriali, diverranno condivisi e gratuiti, ma anche alle sfide che la centralizzazione derivante dall’adozione di strumenti elettronici e informatici pone. Il rischio è che dell’opportunità offerta dal progresso tecnologico se ne approfitti una élite dotta e preparata al salto, adiscapito della base totalmente impreparata e in balia agli eventi. Se non ti occupi del progresso l’1% più ricco si occuperà di te.
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