http://www.lintellettualedissidente.it/ 27 maggio 2013
Arthur Rimbaud di Lorenzo Vitelli
Rimbaud ha spaccato la nostra cultura poetica, e la sua vita si ripropone a noi trasfigurandolo nei panni del Ribelle di Junger, dell'uomo in rivolta, nel veggente, nel poeta maledetto: Nerone che suona la lira mentre Roma brucia.
“Scrivevo dei silenzi, delle notti, notavo l’inesprimibile, fissavo delle vertigini”
Partenza Visto abbastanza. La visione si è incontrata in ogni aria. / Avuto abbastanza. Le voci della città, la sera, e al sole, e / sempre. / Conosciuto abbastanza. Le fermate della vita. – Oh Voci / e Visioni! / Partenza nell’affetto e nel rumore nuovi.
Sensazione Nelle sere azzurre d’estate, andrò pei sentieri, Non parlerò, non penserò a nulla:
Tra i poeti più incisivi nel panorama letterario Occidentale, tra i più controversi e affascinanti, l’appena sedicenne Arthur Rimbaud ha spaccato la nostra cultura poetica, e la sua vita si ripropone a noi trasfigurandolo nei panni del Ribelle di Junger, dell’uomo in rivolta, nel veggente, nel poeta maledetto: Nerone che suona la lira mentre Roma brucia. Dopo l’esperienza dei fiori del male di Baudelaire (1857) – trauma che si riversa a macchia d’olio in tutti i salotti europei – si aprono le porte al simbolismo: “la attraversa l’uomo [la Natura] tra foreste di simboli dagli occhi familiari” (Corrispondenze). Primo movimento artistico e culturale scisso dal Potere e dall’Accademia per riversarsi sinceramente nei contesti meno élitisti e anti-borghesi, movimento che divamperà in seguito con la Bohème e che si è trovato più volte a contatto con lo spirito rivoluzionario della Comune di Parigi (1871). Lo stesso Verlaine, poeta e amante di Rimbaud, fu attivista in quella breve rivolta di autentica matrice socialista repressa nel sangue dalle truppe di Versailles nello stesso anno. Fu proprio Verlaine, già poeta affermato nei circoli di Montmartre et Montparnasse, nei caffè letterari e nei café-concert, a ricevere per posta sette poesie del giovane Rimbaud e a capire, per primo, il cambiamento umano e storico di cui il poeta voyant si faceva portatore. Come un ponte tra una generazione e un’altra, Arthur Rimbaud nacque a Charleville, una cittadini situata nella Champagne-Ardenne, e sin da subito si appassionò alla poesia, mezzo di lotta interiore e introspettiva, strumento di redenzione contro la vita borghese dettata dalla scuola e quella provinciale della famiglia. Nei suoi primi versi, infatti, conseguenze di fughe e vagabondaggio, composti tra i verdi dei paesaggi ardennesi, si manifesta con forza un profondo senso di evasione e di ribellione spirituale a determinati valori di cui il voyant coglie tutta la meschinità e la bassezza morale. Si esprime allo stesso modo l’attaccamento alla Natura e alla sua armonia, agli amori giovanili e alle prime ed ingenue esperienze. Rimbaud conobbe successivamente le droge (secondo alcune fonti), poi il carcere e, dopo aver incontrato Paul Verlaine a Parigi, anche un profondo rapporto carnale e sentimentale con il poeta.
Un’anima tormentata, quella del giovane Arthur, che spaziò nei problemi esistenziali del suo tempo con uno sguardo lucido e un’analisi sottile, mai affossata da luoghi comuni e da un ribellione puramente conformista e convenzionale quale fu il caso per molti bohémien – in verità benestanti e più borghesi della borghesi stessa – antenati della nostra cultura “radical”. Si sviluppò in lui una concezione particolarissima della vita, un “no” secco, come quello di “colui che passa al bosco” nell’avventura jungeriana, seppure il bosco abbia in questo caso un vegetazione diversa.
“Mercante, tu sei negro; magistrato, tu sei negro, generale, tu sei negro; imperatore, vecchia prurigine, tu sei negro: hai bevuto un liquore non tassato, della fabbrica di Satana. – Questo popolo è ispirato dalla febbre e dal cancro. Infermi e vegliardi sono talmente rispettabili da chiedere di essere bolliti. – La cosa più astuta è di lasciare questo continente, in cui la follia si aggira per procurare ostaggi a questi miserabili. Io entro nel vero regno dei figli di Cam”
Lo stesso incipit di Una stagione all’inferno è un’ode al nichilismo, è la perdita di quel senso guida e cattivo pilota di un continente oramai alla deriva e di cui Rimbaud non si fa portavoce (poiché profeta incompreso dai contemporanei) né tantomeno Vate. E’ spettatore di una decadenza che col tempo sarà poi mitizzata dalla bohème e dalla nostra Cultura neocapitalista e “neo-edonista” che ha teso allo stremo la “sregolatezza dei sensi”, il piacere forzato, l’obbligo incondizionato all’evasione dal reale in un’ottica di puro conformismo funzionale ai principi del consumismo sfrenato.
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