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1 ottobre 2012

 

Augusto Cesar Sandino

di Lorenzo Vitelli

 

“La mia causa è la causa del mio popolo, è la causa americana, è la causa di tutti i popoli oppressi” L’America Latina è sempre stata, sin dai tempi della prime colonizzazioni iberiche, una terra dominata dagli invasori stranieri. Prima spagnoli e portoghesi, poi, dopo le guerre di indipendenza, con la dottrina Monroe del 1824, […]

 

L’America Latina è sempre stata, sin dai tempi della prime colonizzazioni iberiche, una terra dominata dagli invasori stranieri. Prima spagnoli e portoghesi, poi, dopo le guerre di indipendenza, con la dottrina Monroe del 1824, arrivò il turno degli Stati Uniti. Ma è proprio nei contesti oppressi che nascono i rivoluzionari, e da Bolivar a Che Guevara il Sudamerica ne ha una lunga tradizione.

 

Tra questi, nelle lande più selvagge e desolate del Nicaragua, in quei campi arsi dal sole, dove si coltivavano tabacco e caffè, vi fu Augusto Cesar Sandino.

Figlio di un coltivatore, nacque a Niquinohomo, tra le piantagioni di caffè, nel 1895. La sua indole rivoluzionaria si accese nel 1912, all’età di 17 anni, quando assisté alla repressione da parte delle truppe Statunitensi dell’accesa rivolta dei nicaraguensi contro il presidente Adolfo Diaz appoggiato da Washington. I Marines, infatti, erano presenti sul territorio già dal 1909 per destabilizzare il governo del presidente Zelaya poiché il Nicaragua, secondo le strategie geopolitiche americane, aveva un’importante influenza sul resto della regione e, per di più, la politica nazionalista di Zelaya non permetteva all’economia statunitense di sfruttare le risorse naturali del paese.

 

Nel 1921, dopo le offese rivolte a sua madre da parte di Digoberto Rivas, figlio di un importante politico conservatore della città, Sandino lo ferì con un colpo di pistola e fu costretto a fuggire. Tra i numerosi spostamenti dovuti alla sua fuga, il “general de los hombres libres” andò verso le Honduras, poi in Guatemala, fino ad arrivare in Messico, a Veracruz. Fu proprio in questo periodo che divenne consapevole della difficile realtà sociale del suo continente, e la visione delle pessime condizioni di vita, dello sfruttamento delle risorse naturali e del controllo dell’economia e della politica da parte degli Stati Uniti fecero nascere in lui una vena antimperialista e rivoluzionaria. Il Suadamerica aveva bisogno di tornare ad essere un paese libero e sovrano e, sopratutto, doveva recuperare la sua dignità: tutto il popolo doveva recuperare la sua dignità. Finalmente proprio questo fu Sandino, fu la dignità stessa di quel popolo, fu un uomo che disse no, no alla dominazione americana, no allo sfruttamento, no alla schiavitù. Ma non lo disse mai sui libri e non lo disse mai sottovoce, lo urlò a tutta quella folla di contadini e minatori. Lo urlò mentre coltivava, o mentre spaccava le rocce nelle miniere di Colle Azzurro. Non lo disse mai come mito, né come leggenda, ma come uomo, con il volto rigato dal lavoro, con le mani ruvide e callose.

 

Fu così che il giovane Sandino, radunando un pugno di uomini, cominciò le prime lotte armate contro gli invasori. Furono in 30 i rivoluzionari guerriglieri che dalle montagne del nicaragua lottavano a colpi di machete contro l’occupazione dei marines. Ma in poco tempo, lanciato un appello, il piccolo contingente di Sandino divenne un esercito di 6000 uomini: l’Esercito difensore della sovranità nazionale. Dopo aver inflitto numerose sconfitte alle truppe americane, una dopo l’altra, il neo presidente Franklin Delano Roosevelt decise di ritirare ufficialmente le forze nel 1933. La grande depressione non dava fondi sufficienti al governo per foraggiare quella guerra.

 

Intanto però rimase in piedi la Guardia Nacional, un forza militare allestita nel 1928 dai marines, di anno in anno sempre più legata ai dirigenti nicaraguensi che si opponevano all’armata sandinista. Il primo generale fu proprio Antonio Somoza Garcia che, bramoso di potere, rapì ed uccise Sandino, e divenne nel 1936 Capo di Stato e dittatore del Nicaragua.

La appassionata lotta di Sandino può sembrare vana, ma essa divenne il simbolo che ispirò i successivi rivoluzionari sudamericani a ribellarsi contro il potere, a dare la vita per la libertà e per il proprio paese. Nel 1956, infatti, un poeta di nome Rigoberto Lopez, assassinò il generale Somoza con una rivoltella. Ma ci volle ancora tanto tempo prima che il Nicaragua divenne un paese libero, e tuttavia la sua libertà la deve a quel coltivatore di caffè di qualche sperduto latifondo, con il viso scuro e scavato, con gli occhi vivi ed accesi.

 

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