Fonte: Accademia nuova Italia http://www.ariannaeditrice.it/articoli/ 10/07/2017
Don Chisciotte e il principe Myškin, i soli eroi buoni che tentano d’imitare Cristo di Francesco Lamendola
Dostoevskij, spirito profondamente religioso, di una religiosità travagliata e sofferta, era affascinato dalla figura di Gesù Cristo: essa compare esplicitamente nella leggenda del Grande Inquisitore, all’interno del suo capolavoro, I Fratelli Karamazov, ma è presente, in controluce, anche in molte delle altre sue opere, prima fra tutte L’idiota, ove è ravvisabile proprio nelle sembianze del protagonista, il giovane principe Myškin: povero, sofferente, incompreso, e tuttavia con una personalità così potente, nella sua apparente semplicità, da suscitare un’impressione profonda in quelli che lo avvicinano, al punto da cambiare la vita di alcuni di essi. Ciò avviene perché il principe Myškin, ed è questo che Dostoevskij ha voluto rappresentare, è un uomo “positivamente buono”, vale a dire che in lui il male non fa presa, perché non trova il più piccolo appiglio cui aggrapparsi; egli è buono, di una bontà che non conosce limiti o debolezze, pur essendo tutt’altro che un superuomo; al contrario, è un povero essere, privo di prestanza e d’intelligenza (o, almeno, così appare, di primo acchito, a quanti lo incontrano), proprio come l’Emmanuele della profezia di Isaia: ignorato, disprezzato, l’uomo dei dolori che prende su di sé il male del mondo. In questo, egli rappresenta ciò che, a livello puramente umano, più si avvicina all’ideale del Cristo, alla umanità del Cristo: colui che prende in silenzio la sua croce, con semplicità, e segue le orme del divino Maestro, senza mai deviare, senza mai cercare un sollievo, una scorciatoia, né cedere al più piccolo compromesso. E tuttavia non è, lo ripetiamo, un rigorista; non ha nulla del rigido puritano, tutt’altro: è la dolcezza e la mansuetudine fatte persona. Eppure, dietro quella dolcezza e quella mansuetudine si cela un’immensa capacità di amare, di soffrire e di sacrificarsi, senza incertezze o ripensamenti. Insomma, è un uomo tutto intero, un uomo vero: finalmente, un uomo, come gli dirà una delle eroine del romanzo, folgorata da quell’incontro, non già alludendo ala sua virilità, ma alla sua integrità, alla sua adamantina trasparenza, alla sua perfetta coerenza e limpidezza interiore. E non solo egli è un integro, è anche un puro, proprio nel senso evangelico dell’espressione: un puro di cuore. È incapace, si direbbe, di provare istinti o sentimenti negativi verso chicchessia; il che ne fa, dal punto di vista dei furbi e degli astuti di questo mondo, il perfetto tipo dell’idiota, come del resto il titolo apertamente suggerisce. In questo senso, il principe Myškin non è parente, in alcun modo, del seminarista Alësa, discepolo prediletto dello starec Zosima, il più giovane dei fratelli Karamazov: perché Alësa aspira alla santità, si sforza verso di essa, e vi giunge assai vicino (se non del tutto, ciò non dipende dal fatto che lascia il convento e che, seguendo del resto il consiglio dell’amato maestro, decide di vivere nel mondo, ma da un suo limite intrinseco), che però deve continuamente lottare contro gl’impulsi temibili della sua natura, passionale e violenta, che gli deriva dall’essere, anche lui, un Karamazov, un membro di una famiglia sventurata e “maledetta”; e se ciò non si nota, è perché ha saputo raggiungere un mirabile dominio di sé, ma questo non toglie che, sotto la superficie, la sua natura selvaggia arda paurosamente, come arde, tenuta a freno con polso ferreo, nel suo fratello Ivan, e anche, ma senza alcun controllo, nel fratellastro Dimitrij). Invece il principe Myškin sembra realmente un angelo caduto sulla terra; e solo la sua malattia e la sua povertà economica ci ricordano che anch’egli è un uomo, dopotutto, fatto di carne e sangue, come lo sono tutti gli altri. Che, poi, questo puro, questo santo, questo vero uomo smarrito in mezzo ai lupi e alle pecore, proprio per la sua purezza, la sua santità e la sua autenticità, sia destinato a generare, attorno a sé, e quasi ad attirare, vortici di passioni negative, distruttive, maligne, e a determinare la tragedia che non ha rimedio, e che finirà per travolgere lui stesso, trascinandolo nei vortici della follia, è un tragico mistero di cui nessuna spiegazione razionale potrà mai rendere conto: è un mistero abissale, il richiamo del male da parte del bene, al cospetto del quale una sola cosa è possibile fare, prostrarsi davanti alla Croce e chiedere a Dio la capacità di accettarlo, nonostante ciò che in esso vi è, non solo d’inspiegabile, ma di scandaloso. Perché è scandaloso il fatto che, in un mondo così assediato e aggredito dal male, così affamato e assetato di bene, il poco bene che vi s’incontra, e tanto più se lo si trova in misura eminente, come nel principe Myškin, sia destinato, per qualche diabolica alchimia spirituale, a mettere in movimento il fatale meccanismo del male; ci è stato insegnato, infatti, che il bene è più forte del male, e che, non rispondendo al male col male, alla fine il bene trionferà. Ma questo non avviene nella complicata vicenda che ha al centro la strana, quasi allucinata figura del principe Myškin, colui che, umanamente parlando, più si avvicina al modello divino del Cristo quale uomo dei dolori e della redenzione. La conclusione che sembra di poter trarre da tutto ciò è che, per Dostoevskij, l’uomo non riesce in alcun modo a redimere se stesso; e che il divario tra la bontà umana e la bontà divina, tra il Myškin-Cristo e il vero Gesù Cristo è talmente grande, talmente abissale, che in nessun modo può essere colmato, per cui l’uomo che voglia assomigliare a Cristo finisce non solo per diventare una vittima del male (questo è accaduto anche a Cristo), ma altresì a provocare, e sia pure involontariamente, il male negli altri: il che ne fa non un redentore, o un tentativo di redentore, ma, misteriosamente e paradossalmente, una pietra d’inciampo e una occasione di perdizione, anziché di salvezza. E qui fa capolino un altro aspetto del problema: quello rappresentato da quella particolare forma di bontà che s’incarna nel personaggio di don Chisciotte. Dostoevskij era oltremodo affascinato dalla personalità del Cavaliere dalla trista figura; una volta giunse ad affermare che, se l’umanità intera dovesse giustificare davanti all’eternità la propria esistenza e il tentativo di comprendere se stessa, la cosa più alta, da essa prodotta, che potrebbe esibire, sarebbe il Don Chisciotte. Ed è notevole il fatto che egli non menzioni quasi mai Miguel de Cervantes, anzi, che parli più di don Chisciotte come personaggio, che del Don Chisciotte come romanzo: perché don Chisciotte, per lui, è qualcosa di più di un personaggio, è una creatura viva, o, quanto meno, una creatura possibile, così come lo sono il principe Myškin o Alësa Karamazov. E quel che lo affascina enormemente, in don Chisciotte, è ciò che sembra essere sfuggito a tutti gli altri: non la sua eccentricità, non la sua alienazione, non l’elemento comico che porta con sé, agli occhi di quanti lo incontrano, ma proprio la sua bontà. Don Chisciotte è l’uomo buono, che vuol proteggere i deboli e i bisognosi, raddrizzare i torti, e che vede tutto in una luce di bellezza e di poesia; che non sarebbe capace di concepire il più piccolo sentimento egoistico, interessato, ipocrita. Don Chisciotte, insomma, è un puro; è il puro assoluto: proprio come il principe Myškin. E nondimeno, don Chisciotte è un personaggio comico (lo sanno tutti: anche troppo!), mentre il principe Myškin è un personaggio serio, per non dire tragico. Da che cosa dipende questa radicale differenza, stante l’elemento fondamentale della bontà positiva, della bontà assoluta (almeno in termini umani), che li accomuna, anzi, che li affratella? Eppure, entrambi credono ciecamente alla serietà della vita, alla serietà del loro impegno per la causa del bene, ed entrambi possiedono una capacità quasi illimitata d’imporsi una disciplina e, se necessario (perché non sono dei masochisti, né dei fanatici, né l’uno né l’altro, ma, ciascuno a suo modo, amano entrambi la vita), di sacrificarsi, senza riserve. Probabilmente non lo sanno, ma il loro modello è Cristo: e ciò li rende, entrambi, “uomini dei dolori”. Però, mentre la sofferenza di Cristo è redentrice, quella degli uomini, se non è a Lui ispirata in maniera consapevole, si consuma in un sacrificio sterile, o addirittura controproducente. Una volta, la bontà di don Chisciotte è causa di sonore bastonate per un povero ragazzo, al cui padrone il valoroso hidalgo, prima di allontanarsi, aveva ordinato di non percuoterlo più; alla fine de L’idiota, la bontà di Myškyn provoca l’assassinio di Nastas’ja da parte di Rogožin, la condanna alla deportazione in Siberia di quest’ultimo, e la definitiva pazzia del principe; mentre Aglaja, che amava anch’ella Myškin, sposerà un altro, e sarà, probabilmente, un matrimonio infelice. Nondimeno, don Chisciotte è comico (oltre che tragico), perché sembra fatto di gomma, si rialza dopo ogni delusione e si rimette alla ventura (tranne l’ultima volta, per onorare una promessa fatta solennemente); mentre Myškin, uomo ormai pienamente moderno, e perciò fragile, nevrotico, sostanzialmente inerme, messo alla prova, finirà per spezzarsi come un vaso di cristallo. E tuttavia, non si tratta solo di questo. Vale la pena di notare che la bontà, quando si staglia clamorosamente in un quadro di malvagità, rischia comunque di apparire comica, nel senso pirandelliano del termine, cioè come l’avvertimento del contrario: perché, se la malvagità è la norma, il bene vi fa la figura di ciò che è fuori posto, di ciò che è come non dovrebbe essere. Questo è difficilmente evitabile in una situazione puramente umana. Anche Erode Antipa cercò di trasformare Cristo, piagato e sofferente, in una figura comica, facendogli porre sulle spalle un mantello di porpora, simbolo di regalità: un mantello di re sul corpo di un morituro; ma Gesù non rispose nulla alle sue domande, con la maestà che gli veniva dalla sua natura divina, anche se, come uomo, era ridotto ai minimi termini. Don Chisciotte, anche se affronta le disgrazie con la massima signorilità e padronanza di se stesso, cade inevitabilmente nel ridicolo, perché il contrasto fra ciò che egli appare agli altri, e ciò che egli sente di essere, è talmente grande, che tutti si fermano alla sua apparenza, e nessuno arriva minimamente ad intuire la verità, ossia la bontà incondizionata del cavaliere (tranne, forse, lo scudiero Sancho Panza). Il principe Myškin si salva dalla comicità perché si spezza troppo presto; proviamo a immaginarlo che si rialza e cade una seconda, una terza, una quarta volta, sempre fiducioso e ottimista, e avremo un altro don Chisciotte, cioè un’altra figura comica. Perché la bontà umana, quando eccede di troppo la norma comune, tende a diventare comica, se non viene arrestata anzitempo. Solo la bontà di Cristo, che è umana, ma, nello stesso tempo, divina, sfugge a questo destino; e, in misura minore, la bontà dei santi, che si svuotano di se stessi per lasciarsi riempire da Dio. Osservava in proposito il grande slavista Ettore Lo Gatto nella Nota Introduttiva a L’idiota (da: Fëdor Dostoevskij, Tutti i romanzi, Firenze, Sansoni, vol. 1, 1993, pp. 648-650):
Cristo e Don Chisciotte sono evidentemente i due modelli spirituali presenti all’animo di Dostoevskij, mentre egli cercava di concretare in una figura della realtà (almeno nei limiti del possibile) l’ideale dell’uomo positivamente buono. A proposito di Cristo è da rilevare anzitutto che il suo nome non compare quasi nel romanzo, nonostante che la sua immagine sia presente nel pensiero di quasi tutti i personaggi. Se anche a qualcuno soltanto venga in mente che il principe Myškyn stesso potrebbe esserne una personificazione, in un mondo che per tante ragioni sembra ricacciarlo, a Cristo come ideale di bontà e di bellezza spirituale il pensiero dei “reprobi” va per contrasto a se stessi, contrasto che essi evidentemente sentono per la presenza di Myškin. Ora, proprio perché Cristo non compare quasi in forma diretta nel romanzo, è da rilevare che nei quaderni degli appunti per la preparazione del romanzo, il nome di Cristo non soltanto è fatto più volte, ma è messo direttamente accanto a quello del principe Myškyn con uno dei tanti caratteristici NB, di cui gli appunti sono seminati: “N.B. Il principe-Cristo”. Numerosi appunti cercano di chiarire il processo del raccostamento: “Teoria del cristianesimo pratico”. “Il principe perdona tutto”. “L’amore cristiano – il principe”. “Egli si considera il più umile, il peggiore di tutti”.. Vede attraverso i pensieri di tutti quelli che gli sono intorno”. “L’umiltà è la forza più terribile che possa esservi al mondo”. È evidente che in questi appunti Dostoevskij gettava le basi di un romanzo s Cristo, romanzo che però non fu scritto, col prevalere nell’eroe delle qualità umane sulle virtù divine, non umane. Ci pare che qui, tra gli esegeti della figura di Myškin, abbiamo ben veduto il Guardini e il Pascal, osservando che il principe Myškyn è il simbolo del Cristo (Guardini) o forse più esattamente l’immagine “analogica” del Cristo (Pascal). L’analisi del Guardini è tutta degna di rilievo: ne ricorderemo però solo un punto, quello che ci pare chiarificatore del concetto di “simbolo di Cristo”: “Tutti sentono - nota il critico – la singolarità di Myškin; tutti sentono che egli sa quel che gli altri non sanno, che egli ha potere sulle anime e che gli uomini si trasformano avvicinandosi a lui… Quello però che sa nel modo più profondo [s’intende Nastas’ja Filipovna], dice qualcosa di molto significativo, e lo dice nel momento in cui, misurando nel suo disperato dolore chi egli sia, lo lascia appunto perché egli tale ed ella non crede di potergli appartenere. ‘Addio, principe, ho veduto per la prima volta un uomo’. Tutta l’impressione della singolarità di Myškin è racchiusa nella formula che egli ‘è un uomo’. La cosa più straordinaria che si dice di lui è che egli è quel che secondo il loro nome e la loro pretesa tutti ritengono di essere: un Uomo… E noi pensiamo al fatto che Colui che era figlio di Dio, si nominò ‘Figlio dell’uomo’. A tal punto perduta è ormai la posizione dell’uomo e così divinamente grande quel che veramente si intende con questo nome, che si può dire che solo Dio riesce a realizzare la pura umanità”. Il Pascal, da parte sua, rileva che, se ci si domanda perché il romanziere abbia rappresentate le più grandi perfezioni nell’uomo più umiliato nel corpo, non si può trovarne la spiegazione se non nell’imitazione della “koinosis” del Cristo. Tuttavia, come abbiamo detto, lo scrittore vinse in sé la tentazione di scrivere un romanzo su Cristo. Il carattere dell’eroe, quale risulta dagli appunti dello scrittore, conserva comunque alcuni elementi di questa tentazione: l’enigmaticità, l’innocenza e la santità, e tutti e tre in grado tale da dare una forza spirituale così grande che, come Dostoevskij stesso intuisce nel suo sforzo di chiarire sempre più la sua idea “in corpore vili” (nell’umanità cioè dell’enigmatico santo innocente), ha bisogno d’un campo d’azione che vada oltre gli intrighi d’amore tra Nastas’ja Filipovna, Rogožin, Aglaja e Ganja. Questo campo d’azione, che negli appunti ad un dato momento sembra ormai definitivo, è un campo d’azione politico, quello di un moderato slavofilismo Dicono infatti gli appunti: “Egli comincia ad amare il popolo russo fino alla passione”. “Azione della Russia sul principe. Quanto e in che cosa egli si trasforma”. “La Russia agisce su di lui gradualmente” – ed altri ancora dello stesso genere. Ne romanzo dovevano restare solo tracce di questa idea originaria, ma in realtà tutt’altro che originale, che avrebbe completamente alterata la figura dell’eroe. A salvarla nella sua singolarità contribuì l’amore di Dostoevskij pe Don Chisciotte. Questo amore può essere considerato, infatti, l’altra chiave della personalità di Myškin. Come la presenza di Cristo, in quasi tutto il romanzo si sente aleggiare quella di Don Chisciotte, con in più che ad essa si accenna ad un certo momento abbastanza chiaramente, attraverso il ravvicinamento col “Cavaliere povero” di una famosa poesia di Puškin, da Dostoevskij addirittura citata per bocca dell’eroina Aglaja. Questo riavvicinamento è fatto da Dostoevskij nel senso che sia Don Chisciotte che il “cavaliere povero” – come egli stesso dice – rappresentano un uomo “capace di avere un ideale e, dopo essersi posto quest’ideale, capace di credervi, e credendovi , di dargli tutta la propria vita. Il cavaliere povero è lo stesso Don Chisciotte, solo che è ‘serio’, e non ‘comico’. C’è inoltre un aspetto di questo simbolo, da Dostoevskij aggiunto a quello di Cristo, che lo scrittore stesso ci autorizza a ritenere latente in lui nell’epoca di Myškin e soprattutto nel periodo in cui la figura dell’”uomo positivamente buono” si confondeva ancora – a quanto ci dicono gli appunti – con quella dell’”idiota” che ritorna in patria sconcertato dalla enormità delle nuove impressioni, preoccupazioni e idee suscitate in lui dalla Russia e soprattutto dal problema di ciò che egli debba fare”. Nel “Diario di uno scrittore”, in un periodo cioè successivo a “L’idiota” e anche a “I demoni”, in cui la funzione progettata originariamente per il principe Myškin sarebbe passata a Šatov, parlando della missione della Russia nella futura storia dell’umanità, Dostoevskij paragonava infatti il popolo russo a Don Chisciotte, il quale “visse sempre non per sé, ma per gli altri, cioè per interessi universali”; interpretazione molto vicina ad una interpretazione “a posteriori” di tutte quelle creature, nelle quali, nei propri romanzi, aveva personificata la missione della Russia. Non è facile dire fino a che punto Dostoevskij pensasse di aver creato un Don Chisciotte russo nella figura di Myškin, ma non è da escludere che io suo pensiero tornasse al suo eroe quando, sempre nel “Diario di uno scrittore”, scrisse: “In tutto il mondo non c’è nulla di più profondo e di più forte del don Chisciotte. È per il momento l’ultima e più elevata parola del pensiero umano, la più amara ironia che l’uomo potesse mai esprimere. Se la terra cessasse di esistere e là – dove che sia – domandassero agli uomini: ‘Avete voi capita la vostra vita sulla terra? Che cosa ne avete dedotto?’, l’uomo potrebbe in silenzio porgere il don Chisciotte : “’Ecco la mia conclusione sulla vita, potete voi condannarmi per essa?’”. Un concetto che Dostoevskij stesso ripeté ancora in forma analoga più avanti: ”Che l’uomo non dimentichi di prendere con sé per l’ultimo giudizio di Dio il più triste dei libri. Egli potrà richiamare al profondo e fatale mistero dell’uomo e dell’umanità che in esso è espresso”.
Riassumendo. Myškin rappresenta un uomo buono, controfigura del Cristo, la cui bontà non produce altra bontà, ma un cumulo di male: è il mistero stesso del male, mysterium iniquitatis. È un mistero che turba sin nel profondo, ma che va accettato, perché fa parte della condizione creaturale. È già tanto che lo stesso Myškin non diventi una figura comica, pur nella tragedia che lo travolge; destino a cui non sfugge don Chisciotte, paradossalmente in virtù della sua maggior forza morale. Infatti l’elemento comico del Cavaliere dalla trista figura, agli occhi degli altri, scaturisce proprio dalla sua forza prodigiosa, dal suo entusiasmo a tutta prova, dalla sua capacità di rimettersi in piedi dopo ogni amaro scontro con la realtà prosaica, con un mondo popolato unicamente di vili e di filistei, che si prendono gioco di lui: forse, se fosse più debole, se lasciasse trasparire la sua stanchezza o un accenno di scoraggiamento, finirebbero per impietosirsi. Solo Cristo può essere buono in maniera radicale, senza mai diventare comico, perché gli uomini, davanti a Lui, intuiscono una distanza abissale, un qualcosa di oscuro e d’incomprensibile; perfino mentre lo deridono sulla croce e lo sfidano a scendere da essa, in realtà non lo trovano affatto comico, ma soltanto sacrilego e, perciò, giustamente castigato. Il principe Myškin, peraltro, esercita anch’egli un fascino strano e inspiegabile sugli uomini e sulle donne (soprattutto sulle donne!) con i quali viene a contatto. Ettore Lo Gatto parla, a un certo punto, del potere che la singolarità del principe esercita sugli altri; ebbene, il concetto di singolarità merita di essere sviluppato. In un mondo di semi uomini, di quasi uomini, o, peggio, di anonimi uomini-massa – è la civiltà moderna che avanza, anche nella Russia della seconda metà del XIX secolo – il principe Myškin spicca su tutti gli altri perché è una singolarità, come avrebbe detto Kierkegaard: è l’unico capace di agire in base a motivazioni del tutto altruistiche, senza neppure un’ombra di convenienza personale. E, per restare in tema, si potrebbe agevolmente tracciare una corrispondenza fra l’uomo Myškin – l’Uomo, come lo chiama Nastas’ja -, il cavaliere dell’ideale, don Chisciotte, e il cavaliere della fede, come lo chiama il filosofo danese, e che s’incarna per eccellenza nella figura del patriarca Abramo, l’Abramo di Timore e tremore. Ma questo sarebbe un altro discorso; e, semmai, lo faremo un’altra volta.
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