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3 luglio 2017 

 

Dal “Mos Maiorum” alla politica moderna

di Francesco Colaci

 

La comunicazione è un mondo in perenne mutamento; lo si può riscontrare nella retorica, quanto nel linguaggio e nella mentalità proprie di un’epoca storica. Tuttavia, ciò che più contraddistingue il presente dal passato è l’idealismo etico, un elemento presente nel tema dei diritti civili, ma sempre più assente nell’esercizio moderno della politica nazionale, spesso ridotta a mero affarismo e tecnocrazia. 

 

In età imperiale, gli antichi romani facevano appello al Mos Maiorum, ovvero il “costume degli antenati”, per indicare una serie di virtù che dovevano caratterizzare l’uomo sociale, fra le quali la “fides” (fiducia, lealtà, fedeltà politica), la “pietas” (rispetto o devozione verso le istituzioni), la “constantia” (integrità morale, anche nelle situazioni più difficili) e la “magnanimitas” (generosità, grandezza d’animo). Si tratta di valori che, per molti uomini del XXI secolo, suonano ambigui, quasi divertenti nel loro tono anacronistico. Eppure, una simil specie di morale, (a sua volta derivante da un etico e personale sentire), ha da sempre caratterizzato l’animale politico; le virtù sopra elencate hanno vissuto per secoli nell’animo umano, sebbene con sfumature di significato differenti. La fides era un elemento indispensabile per le associazioni segrete dei carbonari, che intendevano realizzare il sogno di un’Italia unita. Allo stesso modo, la pietas ha caratterizzato i padri costituenti nel secondo dopo dopoguerra, impegnati nel compito gravoso di redazione della Costituzione italiana ora vigente e nella ricostruzione delle istituzioni politiche democratiche. La magnanimitas è la virtù che, al contrario, ha caratterizzato i contadini socialisti di fine ‘800, pronti al sacrificio della propria esistenza, a costo di rendere legittimo uno sciopero o qualsiasi altra forma di garanzia dei diritti sociali per le generazioni future.

Al di là della corruzione, da sempre esistita in qualsivoglia ordinamento politico e socio-economico, i buoni e i cattivi elementi dello scenario di governo (e opposizione) si richiamavano a un determinato ventaglio di valori, di qualità proprie dell’essere umano, utili al raggiungimento auspicato del modello perfetto di società (che si trattasse, o meno, di una democrazia o di una monarchia illuminata). A tal riguardo, è possibile fare riferimento al celebre discorso pronunciato da Piero Calamandrei nel 1955. Quest’ultimo si rivolse ai giovani italiani, affinché comprendessero l’importanza del messaggio costituzionale, e nutrissero dunque una forma di rispetto e devozione verso la Costituzione, frutto del sacrificio di numerosi partigiani e combattenti per la libertà dell’Italia.

 

“E’ compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’art. primo – L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro – corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale (..)”

 

Calamandrei, dunque, cita l’articolo 3 che afferma, “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”; il costituzionalista lo riporta nel discorso per affermare quanto la democrazia italiana risulti incompiuta, proprio in virtù degli ostacoli sociali che la caratterizzavano e la investono tutt’ora, in una misura maggiore. Soltanto in queste parole è possibile intravedere un abisso incolmabile fra l’etica del padre costituzionalista e quella, per esempio, dell’ex presidente di governo Renzi, il quale si è dimostrato tutt’altro che riverente nei confronti della Costituzione, ma teso a cambiarne i connotati socialisti e democratici in virtù delle esigenze di mercato. L’ex premier toscano, in più occasioni pubbliche, (compresi i meeting con potenze straniere quali la Russia), non ha esitato a ostentare un atteggiamento di sufficienza e un senso di noia. Atteggiamenti che ricordano, se pur vagamente, il “comportamentismo” berlusconiano, il quale sembra caratterizzare una particolare fascia di italiani moderni, evidentemente poco avvezzi all’educazione e al tatto. Caratteristiche, le presenti, che non avrebbero mai potuto far parte del bagaglio sociale gli uomini del secondo dopoguerra, a prescindere dalla diversa appartenenza politica.

 

Difficile immaginare un politico quale Alcide De Gasperi emettere sbadigli di fronte al presidente di un’altra nazione, o il teorico della questione morale, Enrico Berlinguer, predicare democrazia smantellandone, di fatto, i principi costituzionali. Si potrebbero, di fatto, considerare i padri costituenti e alcuni politici del Secondo Dopoguerra, i “Maiores”, gli antenati politici di riferimento, i nuovi ideatori inconsapevoli del “costume” neo- italiano. Per rimanere sul tema dei “mores”, le risse in parlamento erano un fatto quasi assente (e probabilmente inconcepibile) nel parlamento della prima Repubblica. Non potrebbe dirsi lo stesso dei tempi odierni, in cui il dibattito parlamentare è spesso caratterizzato da una logica di scontro priva di contenuti forti, colma invece di insulti e ingiurie personali nei confronti di un deputato. È un conflitto di narcisismi, non certo di personalità politiche. Si riscontrano difficilmente discorsi della medesima levatura morale e argomentativa del socialista Matteotti, rimasto integralmente legato ai “mores” anche di fronte alle minacce del neo-nato fascismo. Ora, la politica è “easy-speaking”, eticamente dogmatica, “politically correct” per ideologia, non certo etica per il frutto di una riflessione meditata. Eppure si sa, la prolissità annoia l’individuo nevrotico moderno, o più opportunamente, post-moderno, sempre in balìa del contenuto facile e immediato.

 

Eppure, la democrazia non può essere caratterizzata da immediatezza, da velocità e rapidità (tipiche dei processi politici globali); è un processo lento, drammatico, trionfante e gioioso nello stesso tempo, ricolmo di sacrifici generazionali.

 

La democrazia richiede una pazienza solidale ed etica nel saper ascoltare i bisogni sociali dei singoli. È una concezione antitetica all’ultra-propinato adeguamento al regime dei mercati, che presuppone una totale accettazione di qualsiasi condizione di lavoro o situazione esistenziale. In ragione di ciò, si può parlare di un vero e proprio scontro fra due modalità politiche diverse; una “slow-politics”, statalista, sociale, progressiva, volta al compimento di un welfare democratico, e una “fast-politics”, globalista, internazionale, anti-statalista, liberista e antidemocratica, volta ad annientare la sovranità politica ed economica delle singole nazioni, in virtù di un potere di mercato.

 

Occorre nuovo decoro, un nuovo richiamo al “Mos Maiorum” odierno, un’eticità forte e concreta (non una morale renziana e buonista), incarnata dalle parole di Calamandrei, di un’attualità impressionante. Chiediamoci, dunque, se questa “fast-politics”, dettata dalla globalizzazione liberista, ci stia conducendo verso uno scenario incerto, di respiro quasi schiavistico per le future generazioni, costrette a lavorare in condizioni di precarietà permanente. Chiediamoci, dunque, se il nostro “costume” è abbastanza solido da affermare che noi, cittadini del XXI secolo, vigiliamo sufficientemente per la conservazione di questo dono evanescente, chiamato libertà.

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