http://www.doppiozero.com/ 09 Ottobre 2017
Che Guevara cinquant'anni dopo di Claudio Franzoni
La morte di Che Guevara coincide per noi con la fotografia di Freddy Alborta che ritrae il suo corpo tra soldati, ufficiali, fotografi . È una foto-icona, si dice, e come tale è diventata celebre: è finita, ad esempio, sul Lodger Album di David Bowie (1979), oppure è stata parodiata (Zbigniew Libera, Che. Next Picture, 2003).
Non fu questa la foto distribuita alla stampa internazionale, almeno in un primo momento, ma un’altra presa più da vicino, con solo tre personaggi attorno al morto: un tecnico, un signore con macchina fotografica al collo, un ufficiale con un fazzoletto sul naso. In Italia, sulla prima pagina della “Stampa” (12 ottobre) ne compare un’altra, scattata da questo secondo fotografo, qualche istante dopo (i tre astanti vengono tagliati). Poi c’è una serie di fotografie – in bianco e nero o a colori, e di qualità diversa – che ebbero minore diffusione. Lo scatto di Alborta e tutti gli altri non sono documenti della morte del Che, ma di uno spettacolo organizzato dai militari boliviani la sera del 9 ottobre 1967. Se si riesce a ricostruirne lo svolgimento, si riesce anche a comprendere le fotografie e, soprattutto, si riesce a cogliere la loro trasformazione in immagini speciali, se si vuole, in “icone”. Bisogna sommare, oltre alle stesse foto, alcuni filmati, efficaci nonostante la modesta qualità, e i ricordi di qualche testimone (lo stesso Alborta in un documentario di Leandro Katz, El dia que me quieras).
Un elicottero arriva da La Higuera con il cadavere di Che Guevara. Quando il corpo viene portato dalla pista di atterraggio all’ospedale di Nuestra Señora de Malta a Vallegrande, la gente è già assiepata lungo la pista di atterraggio e, poco dopo, fuori dall’ospedale. Ci sono già dei fotografi. Qualcuno scatta una foto alla barella con alcuni militari in posa: il braccio sinistro del Che oscilla verso terra. Non c’è immagine del trasporto di un morto – dai sarcofagi romani con Meleagro, alle Vittime del lavoro di Vincenzo Vela (1882) – in cui manchi questo dettaglio; alcuni storici dell’arte, per questo, lo hanno chiamato “braccio della morte”.
La lavanderia dell’ospedale è un piccolo edificio a sé; non ci sono porte, ma un solo largo ingresso con un pilastro al centro; il pavimento è piuttosto rialzato e per entrare bisogna superare un gradino. Lo stanzone – intonacato d’azzurro – è vuoto, c’è solamente una scala a pioli, in un angolo. Ecco che la barella viene deposta sul lavatoio in cemento; al rubinetto è collegato un tubo di gomma a strisce sottili. In questo momento Guevara è scalzo, ma ancora vestito; uno in camice bianco e con guanti di plastica (un medico o un infermiere) scioglie le corde che tenevano stretta la testa alla barella, evidentemente la si vuole alzare per mostrarla meglio ai fotografi che stanno arrivando; a questo scopo si appoggia un quadrello di legno alla barella. Secondo Richard Gott, un testimone, i medici cercano di iniettare formalina. C’è confusione e un continuo andirivieni di persone diverse, militari soprattutto. Un uomo in camicia bianca e cravatta gli slaccia i bottoni, si ferma un attimo per togliersi l’orologio, nel frattempo altri due tagliano le corde che tenevano stretti i polsi, gli tolgono la giacca; l’uomo in camice e guanti armeggia ancora attorno al petto, aiutato da un altro che tira fuori un oggetto metallico (un paio di forbici?). Adesso il braccio sinistro ricade appena entro una delle vasche, semicoperto dalla camicia, vicino a un recipiente cilindrico che nessuno si cura di spostare; l’altro braccio viene appoggiato al bordo del lavatoio.
Un piccolo aereo bianco ha fatto sbarcare fotografi e giornalisti, alcuni con una cinepresa in mano; un giornalista ha un magnetofono professionale e le cuffie. Strette di mano coi militari. La gente comincia ad avvicinarsi alla lavanderia, ma ancora non vengono fatti entrare; riescono comunque a intravvedere il fianco destro del Che. Gettati lì a terra sotto il lavatoio e verso l’ingresso, due cadaveri di guerriglieri. I fotografi però possono entrare e hanno una certa libertà di movimento. Uno dei fotografi (René Cadima) è salito sulla struttura di cemento e, mettendo i piedi da una parte e dall’altra, scatta fotografie dall’alto.
Stanno per arrivare gli alti ufficiali; entra anche uno dell’equipaggio dell’aereo, fumando.
Un altro fotografo prende la scala a pioli che era sulla parete dietro alla testa del Che, la porta sul lato opposto e vi sale riprendendo la scena dall’alto.
Inizia la conferenza stampa, a quanto pare in più tempi. Un ufficiale, in un filmato, dichiara che è stato un gioco da ragazzi prendere i guerriglieri. Poi entrano in scena gli alti ufficiali che si posizionano attorno al volto del Che. Questo è il punto chiave, tanto è vero che il quadrello di legno sotto alla sua testa in alcune foto è orizzontale, in altre è verticale, così da rialzarla per bene.
Nel frattempo nessuno ha chiuso gli occhi di Guevara (non si può fare, sarebbe gesto di pietà), e anche la bocca leggermente aperta lascia intravvedere i denti. Nessuno sposta il barattolo cilindrico accanto alla testa. I fotografi e i cineoperatori si spostano a loro piacimento, dopo tutto sono loro gli ospiti d’onore.
Qualcuno ha recuperato la pagina di un rotocalco e la mostra accanto al volto di Guevara, con l’intenzione di verificare le somiglianze e accertare l’identità (questo è il principale obiettivo della convocazione dei giornalisti). Sfilano anche due signori eleganti, con un cappello in testa; quello con gli occhiali da sole tiene una sigaretta accesa in mano e porta la sinistra al fianco come in una passeggiata qualsiasi; l’altro preme un fazzoletto sulla bocca: non è commozione, è l’odore della formalina.
Adesso è ora di portar via i cadaveri dei due guerriglieri coi loro stracci. Sta per cominciare il secondo atto: la sfilata dei visitatori. Anche il barattolo sparisce e viene staccata dal rubinetto la gomma rossa e nera. Cominciano alcuni soldati, che si fanno fotografare imbracciando minacciosi i loro fucili. Poi, pian piano, alla presenza di alcune guardie, uomini e donne del paese vengono fatti entrare e girano attorno al lavatoio; un’anziana vestita di nero e con un canestro di vimini sotto braccio; due donne ben vestite, con fazzoletti bianchi in mano o premuti sulla bocca; alcuni ragazzini e qualche bambina che si porta una mano alla gola (la commozione porta con sé gesti millenari).
La foto di Alborta viene spesso collegata a un celebre dipinto rinascimentale, il Cristo in scurto (in scorcio) di Andrea Mantegna, oggi nella Pinacoteca di Brera a Milano; alla morte di Mantegna (1506), il quadro venne chiamato così dal redattore che stava facendo l’inventario degli oggetti rimasti in casa; era ancora lì, forse perché il pittore l’aveva eseguito per sé, anni prima. È singolare come questo collegamento Che Guevara-Cristo in scurto sia diventato un luogo comune, e come tutti i luoghi comuni non abbia una paternità: lo proclamano così, come un dato di natura, decine di blog, lo storico dell’arte che “l’ha detto per primo”, professori di liceo, giornalisti; la coppia di immagini è presente persino nel Lodger Album di Bowie. Si ragiona di archetipi, di fili misteriosi che collegano opere a distanza di secoli, del fotografo che si ispira al pittore rinascimentale. Tutti (implicitamente) a dire che è un accostamento ovvio e sacrosanto. Invece, questo luogo comune ha un padre, John Berger, che scrisse un breve saggio pochi giorni dopo la morte di Guevara (Che Guevara dead, tradotto in Capire una fotografia, 2014).
Il discorso di Berger, per la verità, parte dalla foto in cui l’ufficiale preme il fazzoletto sul naso: non sono tanto le foto, quanto la situazione reale a suggerire il rimando alla pittura. Prima di tutto Berger chiama in causa un altro dipinto, la Lezione di anatomia del dottor Tulp di Rembrandt: anche qui un cadavere, il dottore che dà spiegazioni, gli astanti. Berger scrive poi che la foto gli ha ricordato anche il Cristo di Mantegna per le analogie nella posizione del corpo e nell’espressione del volto; analogie non soprendenti, visto che “there are not so many ways of laying out the criminal dead” e, si potrebbe aggiungere, non ci sono molti modi per accostarsi a una persona morta. Detto altrimenti, qualunque corpo sistemato dopo un’esecuzione capitale potrebbe essere accostato al quadro di Mantegna (c’è chi ha voluto citare invece il Cristo morto di Hans Holbein il Giovane o quello di Philippe de Champaigne).
Il luogo comune Che Guevara-Cristo in scurto funziona proprio grazie ad analogie sul piano della realtà: dettagli come i capelli lunghi e la barba, per non parlare dei piedi scalzi, del petto e delle braccia scoperte per mostrare le ferite mortali. In altre parole, il trait d’union non è tanto tra fotografie e pittura, ma tra quest’ultima e la scena allestita nella lavanderia.
Oltre a ciò, lo spettatore occidentale (tanto più chi simpatizzi con le idee di Guevara) è portato a mettere in parallelo Gesù e il rivoluzionario argentino, tanto nel percorso umano come nella morte. Il confronto fu immediato: secondo René Cadima (uno dei fotografi) alcune donne del posto dissero che Guevara sembrava Gesù; a Jon Lee Anderson, biografo di Guevara, recatosi a Vallegrande trent’anni dopo, alcuni riferirono che le suore dell’ospedale erano rimaste impressionate da questa somiglianza. (Si può scommettere che se fosse stata diffusa una foto coi due guerriglieri uccisi col Che, ma posti sotto di lui, qualcuno avrebbe fatto il parallelo coi due ladroni della crocifissione). Davanti a un’immagine usiamo volentieri la metafora della “lettura”, ma non c’è proprio niente da leggere: c’è da associare. L’addetto ai lavori chiama in causa altre immagini (o oggetti, avvenimenti, idee) quando vuole spiegare un soggetto, quando cerca di riconoscere la mano di un artista, quando stabilisce giudizi di valore. Nella vita normale associamo a una data immagine le nostre esperienze concrete, le cose che conosciamo meglio, altre immagini ancora (e non ci impegniamo in nessuna filologia). Per l’esperto la concatenzione associativa si snoda seguendo regole precise, per i non addetti ai lavori scorre liberamente. Il lavatoio in cemento su cui riposa il Che potrebbe ricordare a qualcuno i grandi cassoni in pietra entro cui viene calato Gesù in alcuni quadri rinascimentali. Oppure, la nudità del corpo di Guevara potrebbe richiamare certe morti di eroi (greci o moderni) nella pittura neoclassica.
Solo in apparenza è un’ovvietà dire che la forza evocativa della foto di Alborta (e delle altre scattate in quei momenti) proviene dalla situazione creata nella lavanderia. Di queste foto, i militari boliviani sono committenti e sceneggiatori al tempo stesso. Essi hanno costruito un vero e proprio spettacolo: il riconoscimento pubblico e ufficiale del nemico sconfitto. Da dove viene la sua tinta arcaica? Hanno organizzato un’esposizione pubblica del corpo del Che, seguendo la prassi non scritta che regolava i funerali nelle società antiche (Grecia compresa): si sistema il cadavere per renderlo ben visibile, si chiamano vicini e paesani, lo si compiange ritualmente. A Vallegrande manca del tutto il compianto (perlomeno quello ufficiale), in compenso si introduce l’elemento teatrale. I militari potevano decidere di mettere alla ribalta il solo cadavere di Guevara; invece inseriscono anche un variegato gruppo di ufficiali, soldati, collaboratori; a un bel momento fanno entrare in scena anche gli abitanti del paese, in una sorta di agnizione obbligatoria.
È a questo punto che nella liturgia predisposta dall’esercito boliviano fanno il loro ingresso le immagini, col risultato inatteso di ribaltare il programma di teatro. Come scrisse Susan Sontag (anche a proposito di quella di Alborta): “la fotografia abbellisce qualsiasi cosa”. Le immagini fotografiche di Vallegrande mantengono lo status di documento storico, ma acquistano il potere, come abbiamo visto, di far scorrere piani diversi di associazioni. Escono dal contesto originario ed entrano nel nostro silenzio, trasformandosi in oggetti che risuonano. Il versante puramente dimostrativo delle mosse dei militari scivola via e scompare, lasciando il posto al nostro bisogno-desiderio di concatenare forme e cose. |