Fonte: Il Corriere delle regioni

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10/10/2016

 

Che fare, in un mondo alla rovescia?

di Francesco Lamendola

 

Il destino ci ha messi al mondo – certamente non senza una ragione – in una fase storica particolarissima, nella quale si assiste  non al declino di una civiltà, ma al declino della civiltà; vale a dire, al declino dell’uomo.

Non era mai successo, almeno per quella sezione della storia umana – piccola, in verità – di cui abbiamo una conoscenza sufficientemente approfondita. Come se non bastasse, tale declino antropologico si accompagna, e coincide, con una fase di rapidissima ascesa della scienza e della tecnologia, e, quindi, del logos. È impossibile che si tratti di una mera coincidenza; pure, è una di quelle circostanze che c’interrogano sino alla radice della nostra civiltà e del nostro essere, e per le quali non esiste una risposta che appaia pienamente e interamente soddisfacente, tanto grande è il paradosso e tanto stridente la contraddizione.

La terza singolarità di questo momento storico è che si verifica dopo una lunga fase ascendente, e che la sua più intima essenza consiste in un rifiuto, sistematico e deliberato, di quel che esisteva; in una rivolta contro la civiltà costruita in precedenza, la civiltà degli antenati. Non è solo un declino, quindi, ma una ribellione che determina il declino, o, quanto meno, che procede di pari passo con esso. E questa è un’altra cosa terribile, e, a suo modo, affascinante: una di quelle cose che, se fossero comprese, c’insegnerebbero, forse, il segreto della stabilità, dell’armonia, e, quindi, anche della giovinezza, della durata contro il tempo.

Partiamo da quest’ultimo punto. La civiltà moderna è in rivolta; sarebbe più esatto dire che essa è la rivolta, la quintessenza della rivolta. Dietro la maschera pacata e ragionevole dell’Illuminismo, s’intravede un furore distruttivo impressionante, un ghigno satanico che pregusta la distruzione imminente. La cosiddetta filosofia libertina lo aveva preconizzato almeno un secolo prima di quello dei “lumi”, cioè dal 1600: e lo aveva fatto con i mezzi ad essa più consoni, cioè con il romanzo “filosofico”, precorrendo, appunto, di cent’anni i romanzi filosofici di Diderot e Voltaire. Solo che il romanzo filosofico libertino è, innanzitutto e prima d’ogni altra cosa, un inno pornografico al piacere quale principio supremo del tutto: al piacere inteso nel senso più carnale e più materialista che mai sia dato immaginare. Erede e massimo sintetizzatore di questa tradizione del XVII scolo è il “divino” marchese De Sade, i cui romanzi pornografici, sconci, orribili, blasfemi e sanguinolenti, sono, allo stesso tempo, vere opere di pedagogia della rivolta contro ogni tradizione, etica in primo luogo: vale a dire, opere di contro-iniziazione e di contro-pedagogia.

È strano che il pubblico dei nostri giorni non arrivi a cogliere la diretta filiazione di quelli che ci vengono presentati come i massimi scrittori del XX secolo, da quella radice sadica, fecale e sacrilega. Eppure è così: l’orizzonte di senso, o piuttosto di non-senso, nel quale si muovono molti personaggi di D’Annunzio, di Huysmans (prima maniera), di Proust, di Kafka, di Svevo, di Pirandello, di Gadda, di Joyce, di Breton, di Jarry, di Mandiargues, di Meyrink, di Musil, di Schnitzler, di Beckett, di Sartre, di Pasolini, è la continuazione e l’evoluzione di quello del “divino” marchese, con il quale condivide i tre elementi essenziali dell’angoscia, della disperazione, del sadismo (talvolta introiettato come masochismo). L’elenco potrebbe continuare a lungo ed estendersi anche a molti pensatori, artisti, saggisti, drammaturghi. Nell’ambito del cinema, il loro numero è legione: da Buñuel ad Antonioni, da Pasolini (ancora!) a Fassbinder, da Almodovar a Tarantino, ma senza dimenticare i vari Fellini e i vari Kubrick, ovunque ci si muove sotto lo steso cielo: plumbeo, opprimente, delirante, schizofrenico; ovunque s’incontra una immagine dell’uomo deformata, stravolta, irriconoscibile, mostruosa; e sempre queste compiaciute navigazioni nei mari tenebrosi dell’orrore vengono spacciate per studi sull’uomo; ovunque il pubblico viene scaraventato in un’atmosfera irrespirabile, claustrofobica, e si vede negato ogni diritto alla speranza.

È quasi inutile soggiungere che questi registi, e le star che hanno interpretato i loro film, non si sono limitati a trasmettere simili idee attraverso la sedicente Decima Musa, ma, sfruttando la loro visibilità e popolarità, legata allo star-system hollywoodiano, si sono anche fatti, attraverso interviste e conferenze stampa, volonterosi e infaticabili commessi viaggiatori della dissoluzione: dal matrimonio omosessuale a qualunque forma di eccesso sessuale, dalla droga libera alla accoglienza indiscriminata di orde di milioni di migranti/invasori, in nome del pensiero politically correct essi contribuiscono potentemente a rafforzare l’immagine asfittica, auto-referenziale, malata e contro-natura, che l’uomo contemporaneo tende ad avere di sé. E si fanno anche pagare cifre milionarie, per predicare simili aberrazioni.

Del resto, perché non dovrebbero approfittarne? Visto che tutto il sistema consumista si basa sulla divinizzazione dei mediocri e sulla idolatria della banalità e della volgarità “d’autore” (vedi le merci firmate, appositamente inventate per spillare cifre da capogiro ai consumatori incretiniti dalla pubblicità), sarebbe da stupidi - all’interno, beninteso, dei loro valori e della loro visione del reale – non cogliere il momento favorevole. È un momento che non durerà per sempre. Non molte volte, nella storia, si sono viste folle strabocchevoli inchinarsi davanti a delle autentiche nullità, promosse al rango di divi dal sistema televisivo; oppure, addirittura, genuflettersi davanti a delle cose: come si è visto in occasione della uscita sul mercato dell’ultimo modello, sofisticatissimo, di smart-phone, con tanto di giornalisti e telecamere pronti a immortalare l’epica scena del primo, fortunato acquirente del mitico aggeggio, e strappargli una intervista a caldo, per sapere quali sconvolgenti emozioni avesse provato.

Dunque: la contro-iniziazione. Essere figli della civiltà moderna significa aver voltato le spalle volutamente alla verità, aver preferito le tenebre alla luce. La civiltà antica ignorava la verità, pertanto le sue colpe e i suoi errori furono meno gravi di quelli della civiltà moderna, che non solo ha conosciuto la verità, ma è stata edificata su di essa: sul Vangelo, sulla Chiesa e sul primato dell’amore, del perdono e della misericordia. L’uomo antico non era così: il greco, il romano, si vantavano delle loro imprese in guerra, del numero dei nemici uccisi, o del numero degli schiavi posseduti. Presso di loro, la pietà non era una qualità ammirevole, ma una incresciosa forma di debolezza; il non vendicare le offese, un segno di viltà o d’insipienza: e questo valeva non solo per il nemico in guerra, ma anche per la moglie che aveva tradito il marito, per il figlio che aveva disobbedito al padre, per lo schiavo che si era dimostrato ingrato e pigro. L’uomo antico misurava il proprio valore sul metro della durezza, della spietatezza, della capacità di spazzare via qualunque possibile minaccia, presente o anche futura; la sua ragione di vita consisteva nel gratificare il proprio ego, nel suscitare l’ammirazione, il rispetto o il timore degli altri, nell’accumulare gloria e potenza, ricchezze e prestigio.

L’uomo moderno, proveniente da duemila anni di civiltà cristiana, ha appreso quel che l’uomo antico ignorava: che vi è maggior grandezza nel perdonare, che nel vendicarsi; maggior gioia nel dare, che nel ricevere; maggior giustizia nel porre il tu, che nel rivendicare i diritti del proprio io. Ha imparato ad aborrire il sangue, a rispettare la vita, a riconoscere la presenza, la sapienza e l’amore  di Dio nelle cose grandi e piccole che la vita ci fa incontrare. Perciò la degenerazione materialista, egoista e utilitarista dell’uomo moderno non ha scusanti. Egli ha conosciuto la verità, la bontà, la giustizia, ma le ha rifiutate; ha conosciuto il valore della redenzione di cui è stato fatto oggetto, ma pretende di redimersi da solo, con le sue sole forze; gli è stata offerta non solo la condizione di figlio di Dio, ma di Suo amico, e l’ha rifiutata. Il neopaganesimo odierno è l’espressione di un orientamento interiore assai peggiore di quello antico, perché nasce da un rifiuto di Dio e da una pretesa dell’uomo di deificare se stesso; esso, pertanto, è inescusabile. Si può dire che la civiltà moderna, nella sua essenza e non solo nelle sue manifestazioni, è l’esatto rovesciamento della città di Dio: è la città del Diavolo, è il “mondo” nel senso adoperato dal quarto Vangelo, laddove Gesù stesso, durante l’ultima cena e l’ultima preghiera con gli Aposotoli al Padre Suo, dice testualmente: (Gv., 17, -9):

Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me ed essi hanno osservato la tua parola.  Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro; essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dato, perché sono tuoi.

 

Sorge, evidentemente, un grave problema per coloro che, in questo mondo, vivono, lavorano, sperano, amano, soffrono, ma vogliono restare uniti alla Verità divina, così come la vite rimane unita ai tralci. Il mondo non li riconosce come suoi, anzi, intuisce in essi una differenza sostanziale, una segreta o palese opposizione: perché è impossibile servire sia il mondo che la Verità, trattandosi di due padroni assolutamente inconciliabili. E la prova incomincia presto, prestissimo: fin dall’infanzia, o, tutt’al più, dall’adolescenza, coloro che servono il mondo individuano come pericolosi nemici quanti vivono nel mondo, senza però appartenergli, e li sottopongono a svariate forma di discriminazione, di molestia, di persecuzione. Nei casi più gravi, si tratta di affrontare il martirio; in Europa, invece, di solito si tratta “solo” di affrontare la solitudine, la derisione e una sottile forma di emarginazione. Difficilmente qualcuno dirà ad un ragazzo che vuol vivere coerentemente col Vangelo: Non ci piaci e non ti vogliamo, perché sei un seguace di Cristo; molto più probabilmente, a venir criticati e messi in ridicolo saranno i suoi comportamenti, il suo linguaggio, il suo modo di vestire, le sue preferenze e i suoi gusti, il suo atteggiamento complessivo nei confronti degli altri e della vita. Chi è del mondo riconosce subito, al primo colpo d’occhio, quanti appartengono al mondo, così come riconosce quanti non sono del mondo. Il mondo ama l’apparire, non l’essere; il possedere, non il donare; il comandare, non il servire; il pretendere, non il mettersi a disposizione; il malignare, non l’aver benevolenza. Il mondo ammira la cattiveria, elogia la furbizia, invidia il potere e la ricchezza negli altri, perché li vorrebbe per se stesso; invece disdegna e disprezza l’umiltà, la modestia, la dolcezza, la riservatezza, il pudore. Il mondo vuol essere ammirato e lodato e non esita a servirsi di qualunque mezzo per raggiungere lo scopo: nessun compromesso, né la disonestà, né la prostituzione di sé, né la seduzione interessata dell’altro, appaiono disdicevoli, se servono a ottenere ciò che si vuole, ciò che si ritiene dovuto.

Che dire ad una ragazzo che vive nel mondo, ma che non è del mondo, perché sa, sente, di essere della verità, e di non poter accettare alcun altro padrone all’infuori di essa? Che dire a un adulto che, dopo venti, trenta o quarant’anni di onesto lavoro, si vede messo da parte, come una cosa inutile, oppure a dover scegliere tra la fedeltà alla giustizia e il compromesso morale, in cambio di favori e di vantaggi? Che dire all’onesto, sincero innamorato, che non ha mai desiderato altro che il bene della sua donna e che si trova a dover vivere di ricordi, forse di rimpianti, perché la sua rettitudine, la sua fedeltà, la sua dedizione sublime non sono state apprezzate, ed egli si ritrova con un pugno di sabbia fra le dita, lui che sarebbe stato pronto a gettarsi nelle fiamme per amor di lei? Che cosa gli diremo, dunque? Gli diremo che la sua purezza di cuore verrà ricompensata da Dio nell’altra vita, ma che, in questa vita, egli può solo piegare il capo e rassegnarsi all’ingratitudine e all’incomprensione? Gli diremo che il suo animo, puro e fiero di sé, è già una ricompensa adeguata, e che il potersi guardare allo specchio senza arrossire, senza abbassare gli occhi, è un premio che solo pochi possono sperare di ricevere? Una cosa è certa: i conti, in questa vita, e umanamente parlando, non tornano assolutamente. Troppi egoisti, troppi malvagi, sembrano favoriti nei loro disegni; e troppi buoni finiscono per soffrire o per soccombere.

Ebbene: proviamo a rovesciare la nostra prospettiva, e a chiederci: che cosa preferiremmo, dunque? Ricevere il premio dal mondo, la mercede del cattivo operaio? Non è forse meglio soffrire in questo mondo, ma conservare l’intatta felicità di aver rispettato la parte migliore di se stessi, di non aver tradito la verità che è in noi, oltre che fuori di noi? Chi scende a compromessi, chi calpesta la giustizia, chi insegue le logiche del mondo, perché vuol piacere al mondo o perché vuol godere dei piaceri disordinati, tradisce la parte più vera di se stesso, e si allontana da Dio. La verità è in Dio; la vita serena è in Dio; la rabbia, la frustrazione, l’amarezza, l’angoscia e la paura sono in chi non ha né amore, né timor di Dio. Certo, non è facile dire queste cose a un giovane; non è facile dirle a nessuno, perché esse equivalgono, umanamente parlando, a una profezia di solitudine e sofferenza. Pure, bisogna dirle. Solitudine e sofferenza sono grandi maestre: senza di esse, non s’impara nulla...

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