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1 dic 2016
Il campo di golf e «la scuola più bella» di un leader visionario
di Franco Avicolli
Nel gennaio del 1961, Fidel Castro e Ernesto Che Guevara sono al Country Club dell’Avana dove giocano una partita di golf. Tra un colpo e l’altro Fidel matura l’idea di realizzare in quel luogo «la più bella scuola del mondo». La fedele segretaria di sempre, Celia Sánchez, telefona all’architetto Ricardo Porro, in quel momento in Venezuela e gli riferisce del progetto di Castro. Porro torna a Cuba e porta con sé due colleghi italiani, Vittorino Garatti e Roberto Gottardi. Insieme progettano la Escuela Nacional de Arte (ENA) che nel 1965 entrerà in funzione seppure non ancora conclusa. È chiaro che prima della partita Fidel Castro non ha in mente nessuna scuola e che la decisione fa parte di un atteggiamento che guarda oltre le circostanze e vede un progetto che vuole scrivere una storia negata, ma necessaria per affermare esistenza.
Quel gesto di futuro si verifica a poco più di un anno dalla caduta del dittatore Batista, nell’incombenza della guerra del Vietnam, dei vari colpi di Stato che dal Guatemala (1954), interesseranno via via il Brasile (1964), e poi l’Argentina. Mentre Fidel Castro decide visionariamente di fare di un campo di golf la più bella scuola del mondo, nella vicina Santo Domingo è al potere un dittatore crudele, Rafael Leónidas Trujillo, emblema dei governanti soprattutto dell’area centro americana detta delle “repubbliche banana”.
In tale contesto va considerato il ruolo di Fidel Castro in America Latina e nelle vicende del mondo. Egli introduce il fattore umano qualificativo in un agone politico dominato dagli USA e dall’URSS che pongono ai margini un’umanità che invece vuole scrivere una storia, costruire un suo luogo di appartenenza anche nel senso di topos. E’ una visione che Fidel Castro aveva ereditato da José Martí che nella sua famosa difesa La storia mi assolverà, viene definito “autore intellettuale” dell’attacco alla caserma Moncada del 1953, inizio della lotta contro Batista.
E quale logica, se non quella del visionario, potrà portare Cuba al fianco dei rivoluzionari algerini, in Vietnam, in Angola e in tutti quei luoghi del mondo dove si lotta per l’affermazione del diritto all’autodeterminazione dei popoli?
Fidel Castro introduce nel percorso storico dell’America Latina verso l’affermazione di una dignità dell’uomo la cultura “visionaria” ritenendo che sia l’unico metodo possibile per esprimere un ruolo nella storia oltre i rapporti di forza e le regole che ad essi presiedono. Si tratta di un atteggiamento che altera gli equilibri oltre il consentito, fino a mostrarli in una luce “incosciente”, “pericolosa” come accadde con la crisi dei missili che nell’ottobre del 1962 portò il mondo sull’orlo di una guerra nucleare. In una lunga intervista a Ignacio Ramonet pubblicata come biografia a due voci, Fidel Castro fa conoscere il carteggio di quei giorni tra lui e Kruscev in cui rivela la delusione per la decisione sovietica del ritiro dei missili, – «Molti occhi di uomini, cubani e sovietici, che erano disposti a morire con somma dignità, versarono lacrime al conoscere la decisione sorprendente, inattesa e praticamente incondizionale di ritirare le armi» – mostrando che era disposto a portare il confronto fino alle ultime conseguenze.
Una tale visione tesa a scrivere la storia oltre le possibilità contingenti determinate dal rapporto di forze e dalle regole corrispondenti, ha una forte valenza di eroicità che comporta senz’altro una tensione delle forze in campo, come è accaduto per la società Cubana chiamata a sostenerla. In un percorso visionario rigoroso che prevede un atteggiamento sostanzialmente eroico che non si misura tanto con la quotidianità, ma con il destino dell’uomo, sono inevitabili rotture e condizionamenti delle libertà individuali in nome di una ragione superiore. In tale quadro la figura di Fidel Castro può apparire sotto una luce diversa.
Cuba ha tuttavia mostrato una impensabile solidità in occasione della scomparsa del “campo socialista” e il conseguente crollo del sistema economico. Tale solidità risulterebbe inspiegabile senza un qualche convincimento popolare e senza la partecipazione di una società cresciuta anche nella tensione di un percorso determinato e condizionato dalla visonarietà di Fidel Castro.
Se è vero che i mali di Cuba sono in fondo quelli di tutti i Paesi dell’America Latina, non è però altrettanto possibile affermare che le sue grandi conquiste in campo sociale e dei diritti siano un patrimonio comune dei Paesi della regione. In tale condizione, il ruolo e la visionarietà di Fidel Castro hanno lasciato un’impronta indelebile.
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30.11.2016