da Rifondazione.it http://popoffquotidiano.it/ 17 ottobre 2016
Dalla battaglia di Seattle alla crisi finanziaria di Walden Bello traduzione di Angelica Bufano e Maurizio Acerbo
Da Seattle alla crisi finanziaria, Il ruolo decisivo dell’azione collettiva nell’indebolire l’ideologia neoliberista e l’attuale potere strutturale del capitalismo
Ho ricevuto molte lezioni dalla Battaglia di Seattle, e una di queste è che le poliziotte possono picchiare come un qualunque poliziotto. Sono stato picchiato duramente da una delle migliori di Seattle. Ieri ho deciso di ripercorrere il sentiero dei miei ricordi e di visitare la scena del delitto. Ricordo di aver visto Medea Benjamin di Code Pink trattata piuttosto brutalmente e corsi verso di lei per provare a fermare la polizia. A quel punto, una poliziotta si precipitò verso di me e iniziò a picchiarmi col suo manganello, trascinandomi e buttandomi per la strada, con un calcio nel fondo schiena ben assestato come colpo di grazia. Quello non è stato il colpo più forte. Quello lo ha ricevuto il mio ego: meritavo di essere picchiato e preso a calci, ma non di essere arrestato. Come Cesare, dividerò il mio racconto in tre parti. Innanzitutto, alcune riflessioni su ciò che Seattle significa per il cambiamento delle visioni del mondo. In secondo luogo, una discussione su come, nonostante la crisi del neoliberismo, il capitale finanziario è riuscito a mantenere un potere enorme. In terzo luogo, un appello per una nuova visione complessiva di una società desiderabile.
Seattle e la crisi del neoliberismo Nella teoria di Thomas Kuhn su come avvengono i cambiamenti nelle scienze fisiche, i dati discordanti non possono essere inseriti nella vecchia teoria finché non arriva qualcuno con una nuova teoria che permettere di spiegarli. Gli scienziati sociali si sono appropriati di Kuhn nei loro tentativi di spiegare la rimozione e l’avvicendarsi delle correnti di pensiero egemoni in politica, economia e sociologia. Penso che, mentre il ruolo dei dati discordanti è stato studiato in maniera esaustiva, (come nel caso della rimozione, nei tardi anni ’70, delle teorie keynesiane o come nel caso della scelta razionale e delle teorie di mercato efficienti durante la recente crisi finanziaria), le spiegazioni dei cambiamenti nei sistemi di pensiero non sono riuscite a tenere in debita considerazione il ruolo dell’azione collettiva. La Battaglia di Seattle, dal mio punto di vista, sottolinea il ruolo vitale, per non dire decisivo dell’azione collettiva di massa nell’avvicendarsi dei sistemi di idee. Lasciate che mi spieghi meglio.
Ad oggi è largamente accettata l’idea secondo cui la globalizzazione ha fallito nel mantenere la sua triplice promessa di risollevare gli Stati dalla stagnazione, eliminare la povertà e ridurre le diseguaglianze. L’attuale crisi economica globale, che affonda le sue radici nella globalizzazione trainata dalle multinazionali e nella liberalizzazione finanziaria, ha messo una pietra tombale sull’ideologia neoliberista. Ma più di vent’anni fa le cose stavano molto diversamente. Ricordo ancora la nota di trionfalismo che aleggiava intorno al primo meeting ministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio a Singapore nel novembre del 1996. Lì ci era stato detto dai rappresentanti degli Stati Uniti e degli altri Paesi sviluppati che la globalizzazione guidata dalle multinazionali era inevitabile, che era l’onda del futuro, e che l’unico dovere cui adempiere era rendere le politiche della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e del WTO più “coerenti” in modo da raggiungere più rapidamente l’utopia neoliberista di un’economia globale integrata. In effetti, lo slancio della globalizzazione sembrava spazzare tutto davanti a sé, anche la verità. Nel decennio precedente a Seattle, c’erano stati diversi studi, tra cui anche rapporti delle Nazioni Unite, che mettevano in discussione la pretesa secondo cui la globalizzazione e le politiche di libero mercato stavano portando il mondo verso una crescita sostenuta e la prosperità. Effettivamente, i dati mostravano che la globalizzazione e le politiche pro-mercato stavano in realtà promuovendo maggiori diseguaglianze e maggiore povertà e consolidando la stagnazione economica, soprattutto nel Sud del mondo. Comunque, queste statistiche apparvero come “ fatti presunti”( factoids nel testo) e non come dati di fatto agli occhi dei docenti universitari, della stampa, dei decisori politici, che deferentemente ripetevano il mantra neoliberista secondo cui la liberalizzazione economica promuove la crescita e la prosperità. La visione ortodossa, ripetuta ad nauseam nelle aule universitarie, nei media e nei circoli politici, rappresentava i critici della globalizzazione come l’incarnazione moderna dei luddisti o, come Thomas Friedman ci ha etichettato sprezzantemente, persone che credevano la terra fosse piatta. Poi arrivò Seattle nel 1999. Dopo quei tumultuosi giorni in città, la stampa iniziò a parlare del “lato oscuro della globalizzazione”, delle diseguaglianze e della povertà create dalla globalizzazione. Dopodiché, abbiamo avuto eclatanti diserzioni dal campo della globalizzazione neoliberista, come il finanziere George Soros, il premio Nobel Joseph Stiglitz e l’economista di spicco Jeffrey Sachs. La ritirata degli intellettuali dalla globalizzazione probabilmente ha raggiunto il suo culmine di mediocrità nel 2007, con un esauriente rapporto di un gruppo di economisti neoliberisti capeggiato dal docente dell’università di Princeton Angus Deaton e dell’ex capo economista del FMI Ken Rogoff. Quel rapporto asseriva inflessibilmente che il Dipartimento di Ricerca della Banca Mondiale – la fonte di molte dichiarazioni secondo cui la globalizzazione e la liberalizzazione del commercio stavano producendo come conseguenza minori tassi di povertà, crescita economica sostenuta e minori diseguaglianze – aveva deliberatamente distorto i dati o rilasciato dichiarazioni infondate. È vero, quella neoliberista continua a essere la narrazione predefinita tra molti economisti e tecnocrati. Ma persino prima del recente collasso finanziario globale, questa narrazione aveva perso tanta parte della sua credibilità e legittimità. Che cosa ha fatto la differenza? Non tanto la ricerca o il dibattito, ma l’azione. Ci sono volute le azioni di massa delle persone nelle strade di Seattle, che interagivano in maniera sinergica con la resistenza dei rappresentanti dei Paesi in via di sviluppo allo Sheraton Convention Center, e una rivolta domata dalla polizia antisommossa, per arrivare al clamoroso fallimento di un meeting ministeriale del WTO e tradurre quei “fatti presunti” in verità di fatto. E la sconfitta intellettuale inflitta da Seattle alla globalizzazione ha avuto delle conseguenze tangibili. Oggi, l’Economist, la più importante incarnazione della globalizzazione neoliberista, ammette che “l’integrazione dell’economia mondiale è in ritirata su quasi tutti i fronti” e che va realizzandosi un processo di “deglobalizzazione” una volta considerato impensabile.
Seattle è stato ciò che Hegel definiva come un “evento storico-universale”. La sua duratura lezione è che la verità non è lì fuori, oggettiva ed eterna. La verità è completata, resa reale e convalidata dall’azione. A Seattle, donne e uomini normali hanno reso reale la verità attraverso l’azione collettiva che ha gettato discredito su un paradigma intellettuale che era servito da guardiano ideologico del potere delle multinazionali. Non direi che il neoliberismo è stato sconfitto a Seattle. Ma, per usare una metafora bellica, Seattle è stata sicuramente la Stalingrado del neoliberismo. Ci vorrà un altro decennio prima che esso sia respinto definitivamente, ed è servita la crisi finanziaria globale per fare questo, con il suo colpo di grazia alla teoria della scelta razionale e all’ipotesi del mercato efficiente, le avanguardie della globalizzazione della finanza.
Il tenace potere strutturale del capitale finanziario Ma la ritirata della narrazione neoliberista è solo metà della storia. Anche con questa crisi ideologica, le forze del capitale globale hanno intrapreso una feroce battaglia di retroguardia. Per esempio, prendete il caso dello sforzo (andato a buon fine) del capitale finanziario di resistere ad ogni cambiamento di fronte alla palese necessità e al consenso sociale per una riforma complessiva. Quando il terreno franò sotto i piedi di Wall Street nell’autunno del 2008, si parlò molto di lasciare che le banche ricevessero la punizione che meritavano, di mandare i prigioni i “banchier criminali” e di imporre regolamentazioni draconiane. Il presidente Barack Obama, appena eletto, arrivò al potere promettendo una riforma bancaria, avvertendo Wall Street: “La mia amministrazione è l’unica cosa che si pone tra voi e i forconi”. Eppure, dopo più di otto anni dallo scoppio della crisi finanziaria globale, è evidente che i responsabili che l’hanno provocata sono riusciti a farla franca. Non solo, sono riusciti a convincere i governi a scaricare i costi della crisi e il fardello della ripresa sulle loro vittime. Come ci sono riusciti? La prima linea di difesa delle banche è consistita nell’indurre i governi a salvarle dal disordine finanziario che loro stesse avevano creato. Le banche hanno respinto totalmente le pressioni di Washington volte a convincerle a creare una difesa collettiva con le loro risorse. Utilizzando l’enorme collasso dei titoli azionari innescato dalla bancarotta di Lehman Brothers, i rappresentanti del capitale finanziario sono riusciti a ricattare sia i liberal sia l’estrema destra nel Congresso affinché approvassero i 700 miliardi del Troubled Asset Relief Program (TRAP). La nazionalizzazione delle banche è stata liquidata come incompatibile con i “valori” americani. Poi, dedicandosi alla guerra difensiva e anti-regolatoria che avevano diretto nel Congresso per anni, le banche riuscirono, nel 2009 e nel 2010, a privare la legge proposta da Dodd e Frank sulla riforma di Wall Street e la protezione dei consumatori di tre strumenti chiave considerati necessari per un’autentica riforma: la riduzione delle dimensioni delle banche, la separazione istituzionale tra banche commerciali e banche d’investimento, la messa al bando della maggior parte dei derivati e la regolamentazione effettiva del cosiddetto “sistema bancario ombra”, che aveva dato origine alla crisi. Fecero questo impiegando quello che Cornelia Wall ha definito il “potere strutturale” del capitale finanziario. Un’unità di misura di questo potere sono stati i 344 milioni di dollari che il settore ha speso per fare pressione sul Congresso nei primi nove mesi del 2009, mentre i legislatori si stavano occupando della riforma finanziaria. Solo il senatore Chris Dodd, il presidente della commissione del Senato sulle banche, ha ricevuto 2,8 milioni di dollari di contributi da Wall Street nel periodo 2007-2008. Ma forse potenti quanto la lobby di Wall Street trincerata in Congresso sono state le voci influenti nella nuova amministrazione Obama sensibili alle istanze dei banchieri, in particolare il segretario del Tesoro Tim Geithner e il capo del Consiglio dei Consulenti economici Larry Summers, che avevano lavorato entrambi come stretti collaboratori di Robert Rubin, il quale durante la sua carriera è stato co-presidente di Goldman Sachs, il segretario del Tesoro di Bill Clinton e presidente e consigliere di lunga data di Citigroup. Infine, il settore finanziario è riuscito ad agganciare la difesa dei suoi interessi a una delle ultime riecheggianti supposizioni di un’altrimenti pericolante ideologia neoliberista: quella secondo cui lo Stato è la causa di tutto ciò che di negativo accade in economia. Mentre beneficiava del bailout del governo, la borsa di Wall Street è riuscita a cambiare la narrazione attorno alle cause della crisi finanziaria, attribuendo tutta la colpa allo Stato. Ciò è particolarmente evidente nel caso dell’Europa. Come negli Stati Uniti, in Europa la crisi finanziaria in Europa è stata una crisi alimentata dai profitti, perché le banche europee cercavano profitti elevati, un sostituto che fornisse rapidi guadagni per compensare gli scarsi proventi provenienti dagli investimenti nell’industria e nell’agricoltura, per esempio da attività creditizie sui beni immobiliari e dalla speculazione sui derivati finanziari, oppure collocavano i loro risparmi in eccesso su titoli di Stato ad alto rendimento venduti dai governi. In effetti, nella loro corsa all’accantonamento di sempre maggiori profitti dai prestiti ai governi, dalle banche locali e dagli agenti immobiliari, le banche europee hanno investito 2,5 trilioni di dollari in Irlanda, Grecia, Portogallo e Spagna. Il risultato è consistito nell’aumento del rapporto debito/PIL della Grecia fino al 148% nel 2010, che ha portato il Paese sull’orlo di una crisi del debito sovrano. Incentrato sulla protezione delle banche, l’approccio delle autorità europee per stabilizzare le finanze greche non è consistito nel punire i creditori per i loro prestiti irresponsabili, ma nell’accollare ai cittadini la totalità dei costi del risanamento. La nuova narrazione, che vedeva la causa della crisi nello “Stato spendaccione” anziché nella finanza privata priva di regole, si fece rapidamente strada negli Stati Uniti, dove fu impiegata non solo per far deragliare la riforma bancaria ma anche per impedire l’attuazione di un’efficace programma di stimolo dell’economia nel 2010. Christina Romer, l’ex capo del Consiglio dei Consulenti Economici di Barack Obama, ha stimato che ci vorrebbero 1,8 trilioni di dollari per invertire la tendenza recessiva dell’economia. Obama ha approvato soltanto meno della metà, o 787 miliardi, il che ha calmato l’opposizione repubblicana ma ha impedito una pronta ripresa economica. Così, il costo delle follie di Wall Street non è ricaduto sulle banche, ma sui comuni cittadini americani, tra i quali la disoccupazione ha raggiunto un tasso pari al 10% della forza lavoro nel 2011 e la disoccupazione giovanile ha superato il 20%. La vittoria di Wall Street nel placare l’ondata di indignazione popolare che gli si stava rivoltando contro in seguito allo scoppio della crisi finanziaria è evidente nel periodo precedente alle elezioni presidenziali del 2016. Le statistiche relative agli Stati Uniti sono chiare: il 95% degli aumenti reddituali del periodo 2009-2012 è andato all’1% più ricco; il reddito mediano nel 2014 era di 4000 dollari più basso rispetto al 2000; la concentrazione degli asset finanziari dopo il 2009 è aumentata, con le quattro maggiori banche che possedevano asset che arrivavano a rappresentare quasi il 50% del PIL. Eppure la regolamentazione delle attività di Wall Street non è stata una tematica di dibattito durante le primarie repubblicane, mentre durante i dibattiti dei democratici è stata una tematica marginale, nonostante gli audaci sforzi di Bernie Sanders per renderla invece centrale. Le istituzioni politiche di una delle democrazie liberali più avanzate del mondo non sono state un osso duro per il radicato poterestrutturaledell’establishment finanziario. Come scrive Cornelia Woll: “Per l’amministrazione e il Congresso, la principale lezione data dalla crisi del 2008-2009 è consistita nella consapevolezza di avere mezzi molto limitati per spingere l’industria finanziaria ad assumere comportamenti che sembravano urgentemente necessari per la sopravvivenza dell’intero settore e, nel complesso, dell’economia.” In Grecia, le politiche di austerità hanno provocato una rivolta popolare – espressa nel referendum del giugno 2015 sul piano di aiuti in cui più del 60% dei greci ha rifiutato l’accordo – ma alla fine la volontà popolare è stata calpestata in quanto il governo tedesco ha costretto Tsipras a una resa umiliante. È evidente che gli obiettivi fossero quelli di salvare l’élite finanziaria europea dalle sue politiche irresponsabili, rafforzare la regola aurea del totale pagamento dei debiti e crocifiggere la Grecia per dissuadere altri, come gli spagnoli, gli irlandesi e i portoghesi, dal ribellarsi contro la schiavitù del debito. Come ha ammesso qualche tempo fa Karl Otto Pöhl, ex capo della Bundesbank, le misure draconiane imposte alla Grecia servivano a “proteggere le banche tedesche, ma soprattutto quelle francesi, dall’azzeramento del debito.” Ciononostante, la vittoria delle banche probabilmente sarà, alla fine, una vittoria di Pirro. La combinazione tra la recessione o stagnazione derivante da drastiche misure di austerità che stringe nella sua morsa l’Europa e gli Stati Uniti e l’assenza di una riforma finanziaria è mortale. La prolungata stagnazione che ne è risultata e la prospettiva della deflazione hanno scoraggiato gli investimenti nell’economia reale volti all’espansione di beni e servizi. Una volta fermato lo slancio tendente alla ri-regolazione della finanza, le istituzioni finanziarie hanno ancora più ragione di fare quel che hanno fatto prima del 2009 e che ha innescato l’attuale crisi: intraprendere intense operazioni speculative volte a creare super-profitti a partire dalla differenza tra il prezzo gonfiato degli asset o dei derivati di un asset e il reale valore di questi asset prima che la legge di gravità causi l’inevitabile crollo. Ad oggi si stima che il mercato opaco dei derivati ammonti a 707 trilioni di dollari, molti di più rispetto ai 548 miliardi del 2008. Secondo un analista: “questo mercato è diventato così insondabilmente vasto che l’economia globale rischierebbe un danno enorme se anche soltanto una piccola percentuale di contratti andasse in fumo. Le sue dimensioni e la sua potenziale influenza sono difficili anche solo da cogliere, figurarsi da stimare.” L’ex presidente della Commissione per i Titoli e gli Scambi degli Stati Uniti, Arthur Levitt, si è detto d’accordo, dicendo a uno scrittore che nessuna delle riforme attuate dopo il 2008 ha “significativamente diminuito la probabilità di crisi finanziarie”. La domanda non è se un’altra bolla scoppierà, ma quando. E per noi qui, la lezione fondamentale è che nonostante il discredito ideologico del neoliberismo e la rabbia popolare di fronte alle razzie delle banche, il potere strutturale del capitale resta immenso e ha impedito a qualunque rappresentante importante del mondo finanziario di essere mandato in prigione e ancora meno ha permesso una significativa riforma.
Il bisogno di una nuova visione complessiva La mia impressione è che la resistenza del potere strutturale del capitale sia collegata al fatto che mentre la combinazione di sviluppi oggettivi, critica intellettuale e azione collettiva ha eroso la legittimità del neoliberismo, abbiamo mostrato una significativa incapacità di esprimere un’alternativa audace in grado di rispondere alla profondità della crisi del capitalismo che stiamo affrontando. Di fronte alle molteplici crisi innescate dal capitalismo si crea un malcontento enorme e montante. Qualcuno potrebbe augurarsi che, per dirla con Mao: “C’è grande disordine sotto il cielo, la situazione è eccellente”. Purtroppo la situazione non è eccellente. Molti di coloro che sono stati investiti dalla globalizzazione provocata dalle multinazionali si stanno rivolgendo a demagoghi e ideologi di destra come Donald Trump e Marine Le Pen. O, nel mio Paese, al presidente Rodrigo Duterte, che è riuscito a convincere una larga parte della cittadinanza che il crimine e la droga sono le radici dei problemi del Paese e che la principale cura per i malati del Paese consiste nell’ucciderli tutti, spacciatori e consumatori allo stesso modo. A questo proposito, lasciatemi dire che gli Stati Uniti e l’Europa non detengono il monopolio dei pericolosi demagoghi di destra seguiti da masse eccitate e infuriate, una gran parte delle quali sono persone provenienti dal ceto medio-basso che vogliono soluzioni semplici e sono disposte a tollerare la violenza per mettere in pratica la visione del leader del paradiso in terra. A questo punto la differenza chiave consiste nel fatto che i vostri demagoghi fanno ancora da spettatori, impazienti di arrivare al potere, mentre il nostro è già arrivato al potere per via elettorale. Indubbiamente, parte del problema è costituito dal fallimento delle forze di sinistra tradizionali nell’educare le loro basi, come la classe operaia bianca. Un’altra parte è stata l’incapacità di integrare le minoranze etniche nei ranghi della sinistra, che tradizionalmente è stata la casa dei diseredati e degli emarginati, costringendo alcuni a rivolgersi a gruppi radicali e fondamentalisti come l’ISIS. Così le ferite inflitte a così tanti settori della società dalla globalizzazione guidata dalle multinazionali sono state con successo unite da un lato ai miti sulla sostituzione da parte degli immigrati e sui loro crimini, dall’altro ai reali fallimenti dell’integrazione degli immigrati. Donald Trump, Marine Le Pen e l’ISIS sono stati molto astuti nell’approfittare delle brecce aperte dalla sinistra, da quelli che a Seattle hanno portato alla debacle del neoliberismo, da quelli in prima linea del movimento anti-globalizzazione e di Occupy. Queste persone hanno mangiato il nostro pranzo. Non discuterò ulteriormente delle ragioni sociologiche del loro successo e del nostro fallimento, perché molti altri l’hanno fatto, ma vorrei sollevare una questione. Ovvero, se per noi non sia tardivo affrontare l’oltremodo ambizioso compito di creare quella visione, quel linguaggio e quel programma onnicomprensivi volti a spiegare chiaramente l’alternativa e arricchirla. Bernie Sanders ha intrapreso questa coraggiosa missione appellandosi ai principi del socialismo democratico, principi che sono risuonati nelle Filippine e nel Sud del mondo. Penso sia urgente arricchirli perché l’altra parte sta già dando corpo alla sua alternativa nella forma del trumpismo, del frontismo nazionale o del brexitismo e questo è un compito che coniuga parte della nostra critica intellettuale al capitalismo con l’attrattiva, molto carica di emotività, di un ritorno a un passato idealizzato di omogeneità bianca, purezza culturale e uniformità religiosa. Penso che sia urgente vincere la nostra paura di articolare narrazioni complesse ed esporre una visione che spieghi chiaramente il superamento del mondo di oggi rovinato dal Capitale attraverso una lotta comune che si concluderà con la costruzione di società che sfrutti il più profondo istinto degli uomini e delle donne: la cooperazione. Inutile dire che uno sforzo simile deve anche riconoscere anche i limiti, i fallimenti e le distorsioni degli sforzi compiuti in passato per costruire società post-capitaliste, soprattutto quando arriva il momento di trattare tematiche come la democrazia, il genere e l’ambiente. Non ho l’abitudine di citare spesso la Bibbia, ma c’è decisamente qualcosa di intenso in questo passo dei Proverbi, 29:18: “Quando non c’è un’idea di futuro, il popolo va in rovina”. Sarebbe una tragedia se ai popoli fossero lasciate solo le apatiche alternative poste dai socialdemocratici in Europa, ormai storicamente superati, i noiosi Clinton negli Stati Uniti e i mediocri movimenti di riforma guidati dalle élite nel Sud del mondo. Simili alternative politiche non danno filo da torcere ai movimenti controrivoluzionari che si sono messi in marcia.
Walden Bello, docente alla State University di New York a Bighamton, senior research fellow al Centro Studi sul Sudest Asiatico dell’Università di Kyoto ed ex membro della Camera dei rappresentanti della Repubblica delle Filippine. articolo originale: From the Battle of Seattle to the Financial Crisis |