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14 mag 2016

 

Brasile, le responsabilità del PT e il golpe da fermare

 

Restaurazione completata in Brasile. Dilma Rousseff, che aveva vinto le elezioni con oltre 54 milioni di voti, viene sostituita da un governo che non si limita a metterla in stato d’accusa per presunte violazioni, ma ribalta completamente il segno politico del paese. Quello presieduto da Michel Temer, un dinosauro della peggior politica, inquisito per corruzione e con un’aspettativa di voto che i più benevoli collocano al 2%, è un governo non eletto da nessuno, sessista e razzista, composto esclusivamente di maschi bianchi, sette ministri del quale già inquisiti per corruzione. Dopo aver coperto di letame, complici i media monopolisti, uno dei più autorevoli dirigenti politici mondiali, Lula da Silva, le destre hanno dunque fatto un passo avanti e preso il potere con un colpo di stato parlamentare destituendo una presidente, Dilma Rousseff, accusata di nulla. Quello di Temer è un governo di agroindustriali, fondamentalisti neoclassici ed evangelici (due facce della stessa medaglia), corrotti, violatori di diritti umani e narcos, che ha come ministro di giustizia un avvocato vicino al principale cartello criminale del paese.

Addirittura duecento degli uomini che hanno votato l’impeachment contro Dilma sono già inquisiti per corruzione, con l’infamia massima di uno di loro che ha votato in onore al boia che torturò la presidente durante la dittatura. Potete applaudire alla svolta di pulizia e libertà in Brasile, che si è lasciato alle spalle 13 anni di dittatura comunista, seguendo il mantra del mainstream che da anni si straccia le vesti per la corruzione vera o presunta nel PT, maquillando una piazza parafascista inneggiante ai militari, rappresentandola come democratica e progressista, ma la verità è che oggi al Palazzo di Planalto siede una destra che, per quanto lunare possa sembrare, non ha mai accettato di essere governata da una donna e avere ministri di pelle nera e non è mai stata democratica.

Tutto ciò mentre le sinistre europee sempre capaci di commuoversi per negretti e indianini, dimostrano che al dunque si immedesimano sempre e solo con le classi medie bianche e con gli studenti bene delle università private, una vera nuova destra estremista che si fa nuova classe dirigente, in nome di incoercibili valori liberaldemocratici ai quali tirare la giacca, immancabilmente da destra. Per quindici anni queste hanno spaccato il capello in quattro e storto la bocca, dal centro all’estrema sinistra, per Lula come per Néstor, Cristina o Evo o Chávez, accettando la logica delle destre sullo sterile dibattito sul “populismo” opposto al pensiero unico neoliberista, e difendendo come libertà d’espressione i monopoli mediatici privati, da Globo a Clarín, che continuano a privare di voce i più e d’informazione credibile l’intera regione. Adesso applauditeveli voi i Macri, i Temer, i Cunha, i Serra con i suoi 13 processi, neanche fosse dell’Utri, i Maggi, il re Mida dell’agroindustria, come i Leopoldo López e le Keiko Fujimori. Eletti o meno, corrotti o peggio, assassini e repressori, sono loro, non certo una rivoluzione proletaria che tanto spaventava le nostre sinistre, l’alternativa al campo progressista, social-democratico, che mille volte ha sbagliato ma aveva provato a metter mano alla terra desolata latinoamericana dopo mezzo secolo di dittature e governi fondomonetaristi.

Raccontare il ritorno al potere della peggiore destra, ovvero la conclusione di questa fase della storia, va detto senza sconti per poter riavvolgere il nastro e capire le ragioni di quella che a oggi è una nuova sconfitta esiziale per il campo popolare in Brasile, paragonabile all’avvento della dittatura nel 1964. Di nuovo senza sconti, come mio costume. Ricordiamo innanzitutto il fatto che mai in questi tredici anni il Partito dei lavoratori (PT) è stato maggioranza in un contesto politico, quello della federazione brasiliana, fatta di cerchi concentrici di potentati e oligarchie locali, alleanze d’interesse e post-ideologiche che si saldano e si rompono continuamente, e che hanno sempre obbligato il PT a trattare con la vecchia politica. Questo fu fin dall’inizio il mensalão, il comprare letteralmente il voto dell’opposizione, per far passare quei provvedimenti indispensabili ad abbozzare il cambio necessario.

E così ha governato il PT: appeseament con le banche, con la finanza, con la grande industria, con l’agroindustria madre del modello esportatore sul quale è costruito il paese, con le compagnie minerarie a cielo aperto che per guadagnare un Real inquinano per dieci, con la corruzione interna a un enorme partito come il PT tipica della nostra epoca anche in Europa, con un sistema mediatico monopolista che golpista lo è sempre stato, fin dal primo giorno. Ed è così che di appeasement in appeseament il PT ha comprato la pace sociale messa a rischio dalle destre e non certo da quelli che furono i movimenti sociali più forti al mondo, fattisi docilmente controllare e sostanzialmente smobilitare dal grande bottegone brasiliano.

Tutti questi appeseament hanno comportato molteplici abiure, a partire dalle due forse più importanti: quella di una riforma radicale di un sistema educativo primario, che ha consegnato ancora una generazione di giovani brasiliani di classe popolare, urbana e non, a un lumpenproletariato senza speranza che nel crimine o nel fanatismo di chiese evangeliche di estrema destra, e quella di una riforma agraria dura, non solo per mantenere le promesse fatte a un enorme popolo in cammino, ma come alternativa reale al modello agroindustriale di sviluppo e per salvare ambiente e biodiversità del paese. Sono due passaggi, non i soli certo, che avrebbero consentito quel percorso di cittadinanza che invece, con l’oggettivo miglioramento delle condizioni di vita di decine di milioni di brasiliani, merito indiscusso dei programmi sociali di Lula e Dilma, li ha trasformati in consumatori invece che in cittadini, unico orizzonte possibile nel mondo neoliberale. Ma se una cosa ha insegnato la storia dei governi integrazionisti latinoamericani in questi tre lustri è che diminuire la povertà non vuol dire diminuire la disuguaglianza. Sei meno povero ma resti subalterno e nel piccolo benessere raggiunto sei incapace di immaginari alternativi al modello e pertanto vuoi di più non come cittadino ma come consumatore, massa di manovra per un mercato onnivoro, consegnandoti al qualunquismo spoliticizzato. Senza diminuire la disuguaglianza non vi è democrazia possibile.

C’era alternativa? C’era alternativa a governare col nemico come in questi anni è stato fatto in Brasile? Chi scrive rivendica il diritto a non avere una tesi definita e buona per tutte le stagioni, ma non crede che, nel nostro secolo, si potessero governare i processi di cambiamento di un paese enorme come il Brasile con un governo di minoranza costretto a comprare e ricomprare i mille Temer di turno per ogni singolo provvedimento e poi comprare con alti profitti anche la non belligeranza dei mercati, e poi quella delle banche, e poi dell’agroindustria, delle miniere a cielo aperto, delle multinazionali eccetera. In questo senso è una caduta annunciata quella del PT, con una base sfiduciata, come si è visto nella rabbia delle grandi manifestazioni operaie e dei lavoratori dei servizi a basso valore aggiunto a partire dal 2013, e spesso sacrificata in omaggio alla governabilità, e una destra sempre più aggressiva. Già, ma l’alternativa nel Brasile reale?

Chi scrive pensa anche, come Chávez del resto, che al rimanere in un alveo di democrazia parlamentare non ci fosse alternativa, pena l’offrire il fianco a una guerra contro il continente ribelle da parte di chi ha ancora in mano sia i cordoni della borsa, che quelli dell’informazione ed è disposto ad usare la menzogna, l’ipocrisia e la violenza per difendere i propri privilegi. Sono gli stessi, non ingannatevi, che come l’11 settembre 1973, nelle parole del martire latinoamericano Salvador Allende, altrettanto calunniato dalle destre e isolato dalle sinistre, “ha la forza ma non la ragione”.  D’altra parte tale percorso democratico parlamentare non ha affatto garantito alle migliori intenzioni del governo del PT un percorso di uguaglianza e giustizia, che potremmo al massimo definire octroyée. E qui viene il punto più oscuro. Non è detto che il ben più fragile Venezuela abbia alternativa alla monocoltura da petrolio, ma il Brasile potenza industriale e globale, e in questo plaudo ancora alla tela integrazionista tessuta nella regione e nel mondo da Lula con Néstor e Hugo Chávez, capace di respingere l’ALCA di Bush, avrebbe e ha mille alternative alla subalternità e alla dipendenza di lungo periodo alla quale la riconsegna il colpo di Stato.

I movimenti sociali, a partire da quello che resta il più forte al mondo, il Movimento dei braccianti agricoli senza terra, l’MST, il Fronte Brasile Popolare e le Pastorali sociali della Chiesa cattolica, pur indotti a lungo alla smobilitazione da un partito col quale non hanno mai interrotto una dialettica complessa, si sono immediatamente stretti intorno a Dilma nel denunciare l’illegittimità del golpe e il suo disegno regressivo affatto improvvisato del paese bianco e razzista che non accetta di condividere la torta con le grandi maggioranze meticce e nere. Saranno loro, come sempre, a mettere i morti, non appena sarà chiaro a tutti che il governo illegittimo di Michel Temer non ha alcuna ricetta per la recessione economica, la crisi politica, sociale e ambientale del paese, e che vorrà solo mantenere il potere raggiunto con il golpe e difendere i privilegi dell’1% e delle multinazionali. Quello che c’è da salvare ora è la democrazia stessa di fronte a un governo illegittimo teso a ristabilire il sistema schiavista nel paese.

 

No al golpe in Brasile, Via Temer.

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