http://comune-info.net/ 3 marzo 2016
L’illusione del progresso è finita di Antonio Castronovi
In nome dell'occupazione abbiamo devastato territori e legami sociali. Politica e sindacato hanno responsabilità enormi. La critica allo sviluppo vista da un paesino della provincia di Taranto, amato da Pasolini
Vivo a Roma da tanto tempo ormai, Massafra è il mio paese d’origine, dove sono nato ed ho trascorso gli anni giovanili della mia esistenza e dove è iniziata la mia formazione politica e sindacale. Mi capita raramente di scrivere della sua gente, del suo territorio, delle sue bellezze e delle sue bruttezze. Di com’era e di com’è diventata o di come sarebbe potuta diventare con l’azione e l’intervento consapevole dell’uomo e della buona politica. È collocata alle porte di Taranto venendo da Bari, e confina ad est con l’area industriale dove è collocato il “mostro” Ilva. Pier Paolo Pasolini pubblicò il 18 marzo del 1951 su “Il Quotidiano” dal titolo “I trulli di Alberobello” un articolo dove a proposito di Massafra, con lo pseudonimo di Paolo Amari, scriveva tra l’altro: “.. Massafra sorge su un colle spaccato a metà da un torrente… Un breve ponte di pietra è sospeso sul canyon grandioso, aperto, in fondo, verso la pianura salentina, inazzurrata da foschie sempre più stagnanti e incantate man mano che si avvicinano al mare… Al di là del ponte si trova il centro della città, una piazza affollata, verso sera, come in un giorno di festa. E’ una calca di uomini vestiti di nero e ragazzi disegnati col diamante e il carbone. Attorno a questa piazza si aggrovigliano, come visceri, i vicoli e le stradine scoscese, attraverso cui si regrediscono fino nel cuore del tempo. Il puro medioevo, intorno…” . Pasolini descriveva un paese arcaico e povero, di braccianti e contadini, che conobbe fin dai primi del ‘900 episodi eroici di lotta di popolo contro gli agrari prima e contro il fascismo nascente subito dopo. Un paese arrampicato con le sue umili e misere case-grotte sui fianchi delle sue gravine, un paese dove si mangiava il pane nero, il pane dei poveri. Così la raccontava Rocco Scotellaro, il sindaco-poeta di Tricarico, in una sua poesia del 1947 : “Assediato com’è questo piano d’ulivi azzurri in fondo al mare, il dirupo separa Massafra sorta sulla grotta di tufo, c’è un silenzio di novembre sotto i pini di stazione. Siamo in due a domandarci, semmai tutti gli uomini a quest’ora hanno preso tra ai denti un pane nero”. A distanza di anni il suo paesaggio è cambiato. I selvatici paesaggi rupestri che la circondavano sono stati in gran parte cancellati dallo sviluppo edilizio, urbano e industriale. I suoi contadini e braccianti sono diventati metal-mezzadri, non si mangia più il pane nero, e oggi vive la decadenza della fine del miraggio dell’industrialismo e le conseguenze anche sul suo territorio dell’inquinamento ambientale. Certo è che un senso di profondo sgomento mi afferra ogni volta che mi capita di visitare questa terra e di scoprire che la sua natura, con i suoi profumi e i suoi colori, è stata devastata e oltraggiata dall’ intervento umano e che luoghi e spazi aperti della mia giovinezza sono ormai scomparsi, sommersi dal cemento, dalle discariche, dall’inquinamento ambientale dell’Ilva e non solo. Quando ci ritorno, tra le altre cose, amo andare al mercato per riscoprire e riassaporare odori e sapori antichi, e mi ritrovo spesso a domandarmi dell’origine e della provenienza dei prodotti esposti, evitando di acquistarli nel caso in cui la loro provenienza risulti essere troppo prossima alle zone inquinate. Eppure l’apparenza dice che questa città, con i suoi abitanti, è molto più ricca di quella della mia infanzia e giovinezza e che quindi un certo grado di sviluppo e di benessere deve per forza averla attraversata in questi decenni. Non è più la Massafra povera che affascinò Pasolini e che fece da sfondo con i suoi stretti vicoli ad alcuni episodi, ambientati a Cafarnao, del suo Vangelo secondo Matteo, una Massafra in cui, disse “il tempo in un dato anno, o secolo, si è fermato, e la città si è serbata fuori di esso, fossile e incorrotta“. Oggi sono invece ben visibili sulla sua pelle i segni del benessere insieme ai frutti avvelenati dello sviluppo. Allora mi viene in mente l’articolo delle lucciole di un profetico Pasolini sul Corriere della sera del 1° febbraio 1975 ( Scritti Corsari): “nei primi anni ’60 a causa dell’inquinamento dell’aria e dell’acqua sono cominciate a scomparire le lucciole”… “Sia il grande paese che si stava formando dentro il paese – cioè la massa operaia e contadina organizzata dal Pci – sia gli intellettuali anche più avanzati e critici, non si erano accorti che le lucciole stavano scomparendo”, impegnati a identificare quello che allora si chiamava “benessere” con lo “sviluppo”. L’industrializzazione degli anni ’70, continua Pasolini, ha sì unificato il paese, ma omologandolo con violenza sui valori del consumismo e della civiltà industriale, distruggendo le diverse culture particolaristiche della civiltà contadina e paleoindustriale, contribuendo a una mutazione antropologica radicale del popolo italiano, dei suoi costumi, della sua coscienza, corrotta e degradata dal potere dei consumi . E allora mi sovviene la terribile domanda: che mondo abbiamo contribuito ad edificare? È una domanda rivolta innanzitutto a me stesso, dirigente sindacale e militante di sinistra per oltre quarant’anni della mia vita, ma rivolta anche a tutti quelli come me che in questi lunghi decenni sono stati in prima linea nelle istituzioni, nei movimenti, nei partiti, nel sindacato, nella grande battaglia per il progresso e lo sviluppo, per la edificazione di una società più giusta, socialista avremmo detto allora. Vedo lo scempio dell’Ilva, del territorio e dei fiumi scomparsi o inquinati e mi dico: dove abbiamo sbagliato? E qui ritorna il Pasolini moderno, il critico dello “sviluppo”: “il progresso è una nozione ideale, sociale e politica, là dove lo sviluppo è un fatto pragmatico ed economico” (“Progresso e Sviluppo” – Scritti Corsari). Se non può esserci progresso senza un qualche grado di sviluppo, nello stesso tempo non si può assimilare lo sviluppo all’industrialismo e all’espansionismo capitalistico. E quindi la nozione di progresso non va confusa con la realtà di questo tipo di sviluppo. È una contraddizione che attraversa le nostre coscienze e che pone un problema a tutti noi. In primo luogo alle organizzazione sindacali e ai lavoratori che rappresentano: ci battiamo per ”il progresso” ma nello stesso tempo viviamo e ci nutriamo dei valori dell’ideologia consumistica organici a “questo tipo di sviluppo”. Oggi osserviamo drammaticamente la fine del mito dell’industrialismo e le macerie che ci ha lasciato: povertà, fine delle grandi narrazioni del lavoro salariato, disoccupazione, precarietà, città invivibili, inquinamento, cementificazione e distruzione del territorio, spopolamento dei paesi e delle zone interne. Non sono rimaste tracce e impronte visibili di quello che sognavamo potesse e dovesse essere il progresso. Ci siamo svegliati dall’illusione del “progresso” e oggi viviamo l’incubo della realtà che si nascondeva dietro la facciata accattivante del cosiddetto “sviluppo”. Di fronte alla palese crisi del “vecchio” modello di sviluppo è di moda nel dibattito politico e sindacale l’urgenza della necessità di introdurne uno “nuovo”. Il punto è che questa richiesta, giusta in linea di principio, non si sostanzia in che cosa il “nuovo” debba differenziarsi dal “vecchio”. Per cui immancabilmente si ripresentano le vecchie ricette come fossero nuove e si accettano in nome dell’occupazione e del lavoro soluzioni e scelte che offendono e violentano l’ambiente, il territorio, la natura, l’economia dei luoghi, nonché la salute e la vita dei lavoratori e dei cittadini. Guardo con ansia la crisi di progettualità dell’ odierno sindacalismo. Mi domando cosa direbbe e farebbe oggi un sindacalista di ieri, il padre del sindacalismo pugliese e italiano Giuseppe Di Vittorio – uomo di origine contadina che amava la terra come fonte di vita – di fronte allo scempio che si fa oggi della terra e dell’acqua, dei veleni di cui vengono nutrite e di cui muoiono, delle sostanze tossiche in cui sono immersi lavoratori e cittadini. Mi piacerebbe pensarlo e immaginarlo mentre spiega ai lavoratori dell’Ilva (e non solo) che il nuovo modello di sviluppo di cui parliamo possa volere dire fare coincidere il “progresso” con il “ ben-essere”, innanzitutto con la difesa e la valorizzazione delle risorse naturali del territorio, delle materie prime vitali di cui è costituito e dei suoi beni comuni, in primis dell’aria, dell’acqua, della terra, insieme alla conservazione della storia, della cultura e dell’identità dei luoghi. Vale a dire di gran parte di quei beni vitali che abbiamo compromesso e perduto in nome dello “sviluppo”, scomparsi insieme alle “lucciole”. Forse l’unica speranza per andare avanti è tornare un po’ indietro, volgere lo sguardo al passato, come l’Angelus Novus di Paul Klee spinto dalla tempesta del progresso verso il futuro a cui volge le spalle, per redimere le rovine della storia e del progresso. |