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17 ottobre 2016
Referendum costituzionale
di Giuseppe Volpe
Nota preliminare: il presente testo è unicamente responsabilità dell’autore e non implica condivisione da parte del collettivo Znetitaly.
Dal dibattito variamente acceso e motivato sulla riforma della Costituzione da approvarsi o respingere nel referendum del 4 dicembre (a meno che il ricorso del presidente emerito della Corte Costituzionale, Valerio Onida, e di altri non sposti la data) pare assente, o almeno non affermato con il vigore che gli competerebbe, quello che a me pare un motivo fondamentale per votare No al referendum e che rimarrebbe tale anche se la riforma costituzionale sottoposta al voto fosse, come non è affatto, la “migliore del mondo”.
Il fuoco di sbarramento dei sostenitori della riforma e dei suoi avversari richiede all’elettore medio tempo e competenze che normalmente non ha, per non parlare del fatto che, come diversi sondaggi dimostrano, ben diverse sono le priorità della maggior parte degli italiani. Concentrarsi sull’argomento, a mio parere, chiave semplificherebbe moltissimo le valutazioni evitando ai cittadini di doversi concentrare sulle oscurità delle riformulazioni di 47 articoli della Costituzione, delle loro implicazioni e della famosa questione del “combinato disposto” legge elettorale- riforma costituzionale.
Di cosa si tratta?
Nulla di particolarmente originale: l’attuale parlamento non è legittimato a legiferare in materia costituzionale.
Il che, tanto per sgombrare il campo da malintesi, non significa che l’attuale parlamento non sia legittimo. Lo è, ma solo grazie al principio di “continuità dello Stato” e nei limiti che l’applicazione di tale principio logicamente comporta.
Volendo, e una parte dei politici, PD renziano in testa, l’ha voluto pervicacemente, sul “principio di continuità dello Stato” si può molto discutere e arrivare alle conclusioni che a ciascuno fanno più comodo. Tuttavia affrontando il problema con comune buonsenso a me parrebbe che non possano esserci molti dubbi.
Provo a semplificare.
La Corte Costituzionale, con sentenza 1/2014 del 4/12/2013, ha giudicato incostituzionale la legge con la quale l’attuale Parlamento è stato eletto. Questo ha creato una classica situazione da Comma 22: il Parlamento avrebbe dovuto, logicamente, decadere e si sarebbero dovute indire nuove elezioni. Ma per indire nuove elezioni era necessario che un Parlamento promulgasse una nuova legge elettorale. Ma come poteva farlo un Parlamento decaduto? (Le cose non stanno esattamente così: le elezioni si sarebbero potute tenere con la legge esistente così come emendata dalla sentenza, ma a fini di chiarezza trascuriamo questa possibilità). La Corte Costituzionale ha tagliato il nodo di Gordio stabilendo:
“Le elezioni che si sono svolte in applicazione anche delle norme elettorali dichiarate costituzionalmente illegittime costituiscono, in definitiva, e con ogni evidenza, un fatto concluso, posto che il processo di composizione delle Camere si compie con la proclamazione degli eletti.
Del pari, non sono riguardati gli atti che le Camere adotteranno prima che si svolgano nuove consultazioni elettorali.
Rileva nella specie il principio fondamentale della continuità dello Stato, che non è un’astrazione e dunque si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare dei suoi organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento. È pertanto fuori di ogni ragionevole dubbio – è appena il caso di ribadirlo – che nessuna incidenza è in grado di spiegare la presente decisione neppure con riferimento agli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali: le Camere sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare. Tanto ciò è vero che, proprio al fine di assicurare la continuità dello Stato, è la stessa Costituzione a prevedere, ad esempio, a seguito delle elezioni, la prorogatio dei poteri delle Camere precedenti «finchè non siano riunite le nuove Camere» (art. 61 Cost.), come anche a prescrivere che le Camere, «anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni» per la conversione in legge di decreti-legge adottati dal Governo (art. 77, secondo comma, Cost.).”
Diciamolo in parole povere: le elezioni tenutesi con una legge dichiarata successivamente illegittima erano un fatto compiuto. La sentenza non poteva essere applicata retroattivamente se non con il rischio di finire in un’impasse irrisolvibile (ad esempio, con l’annullamento di tutti gli atti compiuti dal Parlamento “illegittimo”). Per forza di cose occorreva prendere atto che chiudere la stalla una volta scappati i buoi era inutile e forse anche dannoso, perché non sarebbe stato possibile farveli rientrare. La “continuità dello Stato” esigeva una “sanatoria” dell’illecito compiuto ma nella prospettiva di correggerlo quanto prima e di non aggravarlo.
Occorreva, cioè, passare all’elezione di nuove Camere consentendo a quelle esistenti di portare a termine l’ordinaria amministrazione e, per uscire dal citato Comma 22, di promulgare una nuova legge elettorale. NON di fare altro. In particolare se mai esiste una materia di “straordinaria amministrazione” si tratta della riforma della Costituzione. Una simile iniziativa, a semplice buonsenso, doveva essere interdetta al Parlamento “sanato”. Il guaio è che, come in tutte le faccende umane, il perdono ha due conseguenze totalmente opposte: può indurre il colpevole a ravvedersi oppure confermarlo, grazie all’impunità così ottenuta, nei suoi comportamenti riprovevoli; anzi può spingerlo ad accentuarli. Cosa che è regolarmente avvenuta in quella che pare davvero un’orgia di strapotere estorto. Ripeto: questo Parlamento non aveva titolo a modificare la Costituzione e sarebbe dovuto restare in carica per il disbrigo degli affari correnti e, già come un di più utile ma non indispensabile, per la riformulazione della legge elettorale. Tutto ciò che supera questi compiti è un’”appropriazione indebita”. E va sanzionato con un No al referendum, addirittura ignorando il merito della riforma costituzionale. Diversamente non potremo opporci a chi, affermando di perseguire un bene comune superiore alle regole della comunità, si proporrà come novello salvatore della patria. Ne abbiamo già avuti troppi.
C’è un’infinità di tesi che possono essere proposte a sostegno dell’uno o dell’altro schieramento. Intorbidano le acque. Oggi vanno accantonate. Domani potranno essere riproposte quando la modifica della Costituzione sarà sottoposta a un Parlamento finalmente legittimato da un voto del popolo, bue o illuminato, con procedure costituzionalmente ineccepibili, senza abnormi premi di maggioranza e senza le forzature di voti di fiducia, tagliole, canguri e super-canguri.
Si perde tempo? Il tempo speso a fare le cose come Dio comanda non è mai perso. Alla faccia dell’urgenza dei decisionisti autoinvestiti di un sapere superiore che costruiscono edifici destinati a crollare su vittime innocenti al fine di lucrare pure, e soprattutto, sulle macerie.
Questa non è una legislatura normale. E’ una legislatura in libertà condizionata. Ne prenda atto il “sindaco d’Italia”, la sua corte e i suoi opportunistici sostenitori.
Nella mia umile, ma appassionata, opinione.
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