13 ottobre 2016
Contro il premierato assoluto Duccio Facchini intervista Luigi Ferrajoli
L'intervista al giurista Luigi Ferrajoli, professore emerito di filosofia del diritto presso l’Università degli Studi Roma Tre.
Il referendum costituzionale si avvicina. Gli elettori saranno chiamati ad approvare o respingere la proposta governativa che modifica 47 articoli della Carta del 1948. E che non si limita alla presunta cancellazione del Senato ma —in combinazione con la legge elettorale “Italicum”— cambia la forma di governo e l'architettura della nostra Repubblica parlamentare. Ad un certo punto Ferrajoli [nella foto sopra] dice cosa lui cambierebbe della Costituzione del 1948. Non è un caso (egli è un convinto sostenitore del superamento delle sovranità nazionali) che non accenni ad un cambiamento essenziale, quello di potere sottoporre a referendum anche i trattati internazionali come quelli sulla Nato e sulla Ue. E che non proponga la soppressione dell'Art. 7, che costituzionalizza i Patti lateranensi tra Chiesa e regime fascista.
D. Professor Ferrajoli, lei ha sostenuto che dalla “riforma” uscirebbe un “monocameralismo sommamente imperfetto”, che cosa intende?
LF. Il monocameralismo implica il sistema elettorale proporzionale, esattamente rappresentativo dell’intero elettorato, grazie al quale i governi e le maggioranze si formano in Parlamento mediante il confronto pubblico e trasparente e restano poi subordinati alla volontà dell’unica Camera. Con un sistema maggioritario come quello introdotto dal cosiddetto Italicum, che è sostanzialmente una riedizione del vecchio Porcellum, la sera delle elezioni non si saprà soltanto chi ha vinto, come vantano i suoi sostenitori, ma anche che per cinque anni saremo governati da un capo, espressione di una minoranza trasformata automaticamente in una maggioranza assoluta, che ben difficilmente sarà in grado di sfiduciarlo. Avremo così la trasformazione della nostra democrazia parlamentare in quello che Leopoldo Elia chiamò un “premierato assoluto”. Inoltre il Senato non è affatto abolito, ma è sostituito da un Senato eletto non dai cittadini, come vorrebbe il principio della sovranità popolare, ma dai Consigli regionali “in conformità” -non è chiaro in quali forme e grado- “alle scelte espresse dagli elettori”, e tuttavia dotato di molteplici competenze legislative. Resterà dunque un bicameralismo perfetto per una serie di leggi importantissime, come le leggi costituzionali, le leggi di revisione costituzionale, le leggi elettorali e altre leggi di rilevanza istituzionale, in ordine alle quali sarà richiesto come oggi l’approvazione di entrambe le Camere. Per altri tipi di legge si richiederanno gradi diversi di partecipazione del Senato.
D. Quali sono i punti e i passaggi più problematici tra Ddl costituzionale e legge elettorale? Qual è il “rischio” più grande?
LF. La Costituzione italiana non sarà più la stessa. Per il clima di scontro nel quale è stata approvata la sua “riforma”, sarà percepita come il frutto di un colpo di mano, di un atto di prepotenza e prevaricazione sul Parlamento e sulla società italiana. Sarà la costituzione non della concordia ma della discordia; non del patto pre-politico, ma della rottura del patto implicito in ogni momento costituente: una costituzione, in breve, che divide e non che unisce come dovrebbero invece fare tutti i patti costituzionali.
D. Come giudica il comportamento dell’esecutivo a proposito della “revisione”, fin dalla sua proposta originaria?
LF. Piero Calamandrei diceva che in occasione del dibattito parlamentare su qualunque revisione della Costituzione i banchi del governo dovrebbero restare vuoti. Questa invece è una riforma promossa e interamente gestita dal governo, al punto che su di essa il presidente del Consiglio è giunto al punto di mettere la fiducia da parte dell’elettorato.
D. Perché, a suo giudizio, le Costituzioni sono “scomparse dall’orizzonte della politica”? LF. Perché la subalternità dei governi ai mercati impedisce loro di attuare il progetto costituzionale disegnato dalle Costituzioni, come invece in gran parte fu fatto nei primi trenta anni della nostra Repubblica. Aggressioni al lavoro, alla sanità e alla scuola pubblica sarebbero state inconcepibili fino a tutti gli anni Settanta, allorquando era ancora vivo il ricordo della mancanza di limiti al potere esecutivo. Oggi il crollo dei partiti e il credo liberista rendono del tutto inattuale la Costituzione e l’insieme dei suoi valori, dall’uguaglianza al diritto al lavoro, fino ai diritti sociali.
D. Al di là del merito del Ddl costituzionale e del contesto circostante, Lei ritiene che la Costituzione vigente necessiti di interventi di modifica? Se sì, in quale direzione?
LF. La prima e più importante modifica dovrebbe essere l’aggravamento della procedura di revisione, quanto meno elevando ai due terzi dei membri del Parlamento la maggioranza qualificata per la sua approvazione. Occorrerebbe poi quanto meno dimezzare o ridurre ad un terzo gli attuali parlamentari (duecento o al massimo trecento deputati e cento senatori sarebbero sufficienti). Si potrebbe anche riservare la fiducia alla sola Camera dei deputati, lasciando al Senato le attuali funzioni legislative, attribuendogli in materia di inchieste poteri esclusivi, che certamente risulterebbero rafforzati dalla mancanza del rapporto di fiducia con il governo e, ovviamente, garantendo il carattere elettivo dei senatori. Da anni propongo inoltre di porre fine all’inflazione legislativa introducendo, in una serie di materie – innanzitutto in materia penale, ma anche in tema di lavoro, di urbanistica, di sanità, di ambiente e simili – il principio della riserva di codice o di legge organica, che imponga al parlamento di inserire ogni nuova norma di legge all’interno del relativo codice o della relativa legge organica. Ne verrebbero accresciute la certezza, la coerenza e la conoscibilità del diritto, la soggezione dei giudici alla legge, l’efficienza della pubblica amministrazione e le garanzie dei cittadini contro l’arbitrio. Ma rispetto a simili riforme non è lecito nessun ottimismo. È la volontà politica che manca, anche per il crollo della rappresentanza avvenuto in questi anni. Per questo, o si rifondano i partiti separandoli dallo Stato e restituendoli alla società – imponendo loro statuti democratici e, soprattutto, l’incompatibilità tra cariche di partito e funzioni pubbliche di governo – oppure la crisi della nostra democrazia è destinata ad essere irreversibile. |