Libération 25/08/2016
Il burkini diventa simbolo della rivoluzione Dounia Hadni intervista Joumana Haddad Traduzione e sintesi di Giusy Regina
Joumana Haddad, scrittrice, poetessa e giornalista libanese, si è da sempre battuta attraverso i suoi scritti affinché la donna araba potesse esprimere la propria femminilità e sessualità liberamente. È del 2014 il romanzo tragicomico Kafas (Cage – Gabbia), in cui l’autrice racconta di una donna che indossa il burqa e della sua vita vissuta in una bara. Dal 4 settembre prossimo Kafas sarà rappresentato a teatro a Beirut. – Cosa ne pensa della polemica sul burkini in Francia e sul suo divieto? – Questo divieto mi rende perplessa per diversi motivi. In primo luogo perché punisce la donna, o meglio la vittima, invece di punire l’autorità patriarcale che la costringe, direttamente o indirettamente, ad indossare il burqa o il burkini. In secondo luogo, perché non risolve il problema: nessun uomo direbbe a sua moglie “Mia cara non essere triste per il divieto del burkini, ora puoi indossare un costume da bagno”. Il divieto mi preoccupa ulteriormente perché si tratta di una reazione che non fa che rafforzare l’islamofobia. – In che senso il divieto del burkini è controproducente? – Nel senso che, a livello di opinione pubblica, potrebbe generare al contrario simpatia per le donne che indossano il burqa o il burkini, in quanto considerate maltrattate. – In sostanza lei teme che questo porti alla banalizzazione di questi abiti nei luoghi pubblici in Francia… – Esatto! Le racconto una storia. Un giorno ero al mare a Beirut, ci saranno stati 40°. Ho visto un uomo arrivare in costume da bagno con i suoi due ragazzi e dietro di loro, la moglie velata dalla testa ai piedi. Lei sotto un sole cocente ha trascorso il suo tempo a servirli, mentre loro facevano il bagno e si divertivano. In quel momento ho provato una rabbia immensa. Come possiamo definire uno scenario del genere se non un’ingiustizia? – Non pensa che questa donna avesse possibilità di scelta? – No, assolutamente no. Questa donna non può aver scelto di indossare questo tipo di abbigliamento. Non si può usare la parola “scelta” quando si cresce in una comunità in cui il burqa è obbligatorio o è il risultato di un lavaggio del cervello dal punto di vista religioso: la prima cosa da fare dunque è proprio dubitare. Fare una scelta invece significa avere una valida alternativa, senza per questo essere minacciati o ostracizzati. – Secondo lei, qual è il modo migliore per combattere il desiderio stesso di indossare il burqa o il burkini nei luoghi pubblici? – La libertà non può essere imposta ma deve essere acquisita dalla donna stessa. Quindi, invece di cercare invano di imporre cose attraverso divieti, bisognerebbe dare a queste donne i mezzi per emancipare sia il loro corpo che la loro mente. In caso contrario, esse svilupperanno molto probabilmente risentimento e si concentreranno sempre più su questo strumento di oppressione, diventato ora un simbolo della rivoluzione. Perché adesso, a causa del divieto, il burkini è diventato proprio un simbolo della rivoluzione.
Dounia Hadni è giornalista di Libération, Huffpost Maghreb, L’Orient Le Jour
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