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6 giugno 2016

 

Salvare il capitalismo?

di Franco Berardi Bifo

Foto di Francis Azevedo

 

Pur di imporre la regola del mercato François Hollande è pronto a tutto. Mentre la prospettiva di una ripresa economica si dissolve, la sinistra si è assunta il compito di sferrare l’assalto finale contro i lavoratori. È difficile credere che costoro non si rendano conto della devastazione che producono, è difficile credere che i dirigenti di questa sinistra la cui dote principale è il servilismo non si rendano conto che stanno preparando il peggio. L’applicazione europea del neoliberismo sotto il pugno di ferro teutonico ha prodotto tali catastrofi che una sezione crescente dell’opinione pubblica occidentale si sta convertendo all’antiglobalismo di destra, al nazionalismo razzista.

 

I prossimi anni saranno segnati da una triplice guerra i cui fronti rimangono confusi.

Il fronte globalista finanziario avrà forse in Clinton il suo leader, sempre che riesca a superare l’odio popolare e il trionfante Trump, al quale perfettamente si attaglia il ruolo di rappresentante dell’ignoranza razzista. Il fronte anti-globalista guidato da Trump e Putin tiene insieme un coacervo di nazionalismi in conflitto tra loro ma uniti nel tentativo di riaffermare il dominio bianco sul pianeta. E per finire il fronte terrorista raggruppa fondamentalismo islamico e necro-imprese della Gomorra globale.

 

Non c’è spazio politico dunque per la ragione progressiva? Il voto per Sanders della generazione digitale non indica a mio parere una riscossa politica imminente, ma delinea sul lungo periodo un’evoluzione possibile in senso post-capitalista, e dove si continua a produrre pensiero (essenzialmente nel mondo anglofono, poiché la cultura europea sembra spenta), alcuni teorizzano che quella attuale sia in effetti la crisi finale, altri che sia un momento di ridefinizione radicale del capitalismo.

 

Robert Reich fu ministro del lavoro nella prima amministrazione Clinton e abbandonò l’incarico quando il suo presidente impresse una svolta liberista alla sua politica. Nel 1991 Reich pubblicò The Work of Nations, in cui si anticipavano gli effetti della globalizzazione sul lavoro e si segnalava l’emergenza della categoria dei «symbolic analysts», quegli operatori la cui funzione consiste nell’elaborare e decifrare simboli, segni, informazioni. Questa definizione permetteva di ridurre le forme emergenti di lavoro all’attività che consiste nel produrre, analizzare e ricombinare flussi di informazione, che si concretizzano poi in prodotti materiali attraverso l’azione delle macchine.

 

Lo stesso Reich pubblica oggi, venticinque anni dopo, un saggio che sembra lanciare un SOS. Il titolo è Saving Capitalism. Il libro inizia con un ricordo dei bei tempi in cui il capitalismo garantiva una vita tranquilla ai cittadini statunitensi. «Ricordate quando il reddito di un insegnante elementare o di un fornaio o di un meccanico bastavano per comprare una casa, avere due auto e tirar su famiglia? Io lo ricordo, mio padre aveva un negozio nella strada principale di una piccola città in cui vendeva vestiti da donna alle mogli dei lavoratori della fabbrica. Guadagnava abbastanza per farci crescere confortevolmente. Non eravamo ricchi ma non ci sentivamo poveri».

 

Cinquant’anni dopo, la grande maggioranza dei lavoratori si sentono, e sono, sempre più poveri. Mandare un figlio all’università è diventato impossibile senza indebitarsi paurosamente. E se ti compri la casa attento: che forse te la requisisce la banca che ti ha intrappolato in un mutuo a tassi variabili.

 

Allora, dice Reich, l’amministratore delegato guadagnava venti volte di più dell’operaio, oggi guadagna almeno duecento volte in più. Il mercato, lungi dall’essere de-regolato, è semplicemente regolato secondo gli interessi di una minoranza che ha accentrato il potere politico e le risorse nelle sue mani: le grandi corporation hanno scritto le regole dell’economia e le spacciano per legge naturale. Da questo punto di vista l’analisi di Reich è spietata, e incontestabile. La conseguenza, nota Reich, è che oggi «la minaccia al capitalismo non viene più dal comunismo o dal fascismo ma dal crollo della fiducia di cui le società moderne hanno bisogno».

 

Il ragionamento di Reich si fonda sulla premessa che quello che sta sgretolando la società non è il capitalismo in quanto tale, ma una sua versione degradata, e la sua prospettiva consiste nel riaffermare regole capaci di restituire al capitalismo una funzione progressiva, attenuando prima di tutto le diseguaglianze. Ma è possibile una simile prospettiva di riforma del capitalismo? Non è forse legittimo pensare che il problema è liberarsi del capitalismo?

 

In Postcapitalism, un libro uscito nel 2015 e ora pubblicato nella versione italiana, Paul Mason dà per scontato il fatto che il modello dominante abbia provocato una polarizzazione della ricchezza e stia devastando la società; ma questo lo dicono ormai quasi tutti gli studiosi che non siano sul libro paga di un’azienda. Di conseguenza Mason cerca una strada che ci porti oltre i limiti del capitalismo. Il capitalismo, dice Mason, non può sopravvivere: le sue risorse primarie sono disponibili a prezzi decrescenti e hanno una durata virtualmente illimitata. La tecnologia ha effettivamente provocato questo effetto: l’information technology fa esplodere la contraddizione tra valore d’uso e valore di scambio. Il tempo di lavoro umano necessario per la produzione del necessario diminuisce, ma il modello economico entro cui lo scambio si verifica trasforma l’abbondanza in scarsità. La tensione tra conoscenza e proprietà diviene una contraddizione insormontabile, e la rivoluzione digitale crea le condizioni per uno svuotamento del modello fondato sull’accumulazione.

 

Il contesto in cui questa discussione si svolge è analizzato da una rivista autorevole vicina all’Amministrazione Usa. Mentre i cretinetti renziani ci ripetono che la ripresa sta per arrivare, anche se il jobs act è un fallimento e gli indici di produzione precipitano, la rivista Foreign Affairs nel numero di marzo 2016 mette in prima pagina un mappamondo di plastica sgonfio e titola How to Survive Low Growth. Lawrence Summers analizza la stag-deflation spiegandola con tendenze molto profonde e di lungo periodo. In questa situazione a suo parere le politiche keynesiane non bastano perché la diminuzione della domanda non è causata solo dalla riduzione del monte salariale, ma anche da un eccesso di lavoro che si manifesta come sovra-produzione.

 

Nella stessa rivista Zachari Karabell in Learning to love stagnation scrive: «La tecnologia ha un ruolo decisivo in questa tendenza alla stagnazione. L’automazione può erodere i salari e minacciare molti impieghi: il McKinsey Global Institute ha recentemente fatto una stima: i robot potrebbero svolgere il 45 per cento di tutti gli impieghi che attualmente sono svolti da umani, il che significa due trilioni di salario annuale. Al tempo stesso la tecnologia, rendendo più efficiente la produzione, abbassa il costo di quasi tutte le merci del mondo, dagli hamburger alle automobili. Le innovazioni tecniche hanno anche prodotto la riduzione dei costi energetici».

 

La tecnologia aumenta la nostra potenza produttiva, mette a disposizione una ricchezza utile crescente – ma se traduciamo questo arricchimento reale nei termini dell’economia di accumulazione, l’effetto è negativo: il potenziamento ci debilita e l’arricchimento ci impoverisce. Per esempio, è chiaro che Internet e la diffusione degli smartphone hanno prodotto nell’arco di pochi anni una rivoluzione straordinaria delle forme di vita, delle possibilità di comunicazione e produzione. Ma questa immensa espansione della sfera utile non si traduce in incrementi di valore significativi o comparabili a quelli che nel Novecento produssero cicli produttivi come quello dell’auto. Al contrario un effetto di svalorizzazione economica consegue all’espansione della sfera dell’utile. Nella stessa rivista Tyler Cowen scrive (Is innovation Over?): «Anche se computer e Internet hanno prodotto svolte significative, le nuove tecnologie generano solo marginali miglioramenti nei livelli di reddito». Questo non significa che l’innovazione sia finita (come suggerisce il titolo di Cowen), ma che l’innovazione tecnica e scientifica non si traduce più in aumento di valore. Ricchezza reale e valorizzazione vanno ormai in due direzioni divergenti, nell’epoca in cui il lavoro si fonde con l’informazione e l’energia produttiva è essenzialmente mentale.

Secondo Zakari Karabell «la crescita del prodotto lordo non è un criterio molto utile per misurare la salute delle economie moderne. Gli sviluppi più importanti della produzione moderna contribuiscono pochissimo all’aumento del valore monetario prodotto. Consultare Wikipedia, guardare video in youtube o cercare informazione su Google aggiunge valore utile alle vite delle persone, ma poiché queste merci digitali hanno un prezzo zero, le cifre ufficiali del Prodotto lordo non registrano il loro impatto reale».L’incremento di utilità non si trasforma in incremento di valore e di capitale: la semiotizzazione capitalistica, fondata sulla traduzione dell’utilità in valore di scambio, non funziona più. La logica del valore d’uso è diventata intraducibile in termini di valorizzazione.

 

Questo significa che il capitalismo è finito? Ovviamente no. Direi che il capitalismo è clinicamente morto, il suo cervello non è più capace di funzionare, ma l’infame politica delle sinistre di tutto il mondo è impegnata a tenerlo ibernato fin quando, chissà come, qualcuno troverà il modo per rianimarlo. Io penso che quel modo non ci sia ma, non trovando per ora una via d’uscita, la società ha imparato a vivere dentro un cadavere, e a decomporsi insieme a lui.

 

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