http://contropiano.org/ 14 aprile 2016
Banche tedesche, tumore d’Europa di Claudio Conti
C’è da anni un sentiment antitedesco nella più avvertita classe dirigente di questo paese. Non è originato da idelogia, ma da puri interessi economici e finanziari, com’è giusto che sia in certi ambienti. È un sentiment che è cresciuto in questi anni di crisi a causa della gestione “europea” della crisi esplosa tra il 2007 e il 2008. Gestione condotta dalla Troika (Bce, Unione Europea e Fmi), sul piano formale e operativo, ma la cui ideazione sconta il diverso peso economico e politico dei partner che contribuiscono a decidere una linea di gestione.
In altre parole: il più forte detta le regole, o almeno le condiziona pesantemente, di modo che quel che formalmente è “uguale per tutti” in realtà favorisce alcuni (i più forti, ça và sans dire) e devasta i più deboli. Se qualcuno vuol capir qualcosa di come funziona l’Unione Europea, senza smarrirsi troppo negli innumerevoli trattati di centinaia di pagine ognuno – con regole spesso bellamente ignorate fin quando qualcuno (il più interessato, nello specifico) non le riesuma dal sacrario – può leggere l’articolo che qui sotto riprendiamo da IlSole24Ore di oggi. Si parla di un argomento particolarmente scottante: le banche. E di come vengono disegnate le regole uguali per tutti stabilite dai regolatori internazionali. Con risultati non sorprendenti ma tecnicamente chiarissimi: la Germania fa e disfa le regole europee per difendere le sue banche, mentre è inflessibile con quelle altrui. Questo concetto di banche “nazionali” può sembrare desueto, una volta che si sia in un mondo pienamente globalizzato (soprattutto per i mercati finanziari) e in un ambito istituzionale sovranazionale come l’eurozona o l’Europa a 28. Ma è quasi ovvio che i sistemi produttivi si sono sviluppati per secoli in ambiti nazionali e non basta dunque cambiare qualche istituzione perché, improvvisamente, alcune strutturre portanti – come le banche, appunto – diventino “insignificanti” agli occhi di un governo nazionale. Se crollano oppure no queste strutture, per il paese di appartenenza cambia moltissimo. Da questo punto di vista si può apprezzare megli l’assoluta inconsistenza della classe dirigente italica, che in 25 anni (dagli accordi di Maastricht in poi) ha velocemente svenduto o distrutto buona parte della struttura portante di questo paese, privatizzando, chiudendo o regalando quasi tutte le imprese pubbliche (Telecom, Alitalia, Iri, Ilva, ecc, fino alle “banche di nteresse nazionale”), e dando quindi un contributo irresistibile all’impossibilità di affrontare la crisi quando questa si è presentata. Senza strumenti operativi, infatti, industrie o banche che siano, uno Stato non può che sperare nella buona sorte (“il mercato”, nella retorica quotidiana) e nella compressione dei salari, dei diritti del lavoro, del welfare. La Germania – come in parte la Francia – si è ben guardata dal seguire questa linea, anzi pretende che diventi “legge europea” ogni regola che favorisce le sue imprese. Banche in testa. Proprio le banche tedesche, come spiega ottimamente Alessandro Plateroti, sono una bomba pronta ad esplodere, a partire dalla più grande di tutti, Deutsche Bank. La quale, apprendiamo, ha emesso prodotti derivati (carta con su scitto un numero) per 75mila miliardi di euro, 20 volte il Pil tedesco. Come i fantastiliardi di Paperon de’ Paperoni, che però erano del tutto “veri” e difesi militarmente nel “deposito”. Qui, invece, sono fuffa che pretende una “valorizzazione”, che non la trova e non la può trovare in una situazione di tassi zero o addirittura negativi, e dunque si ritorce contro chi l’ha creata. Per il buon motivo che, sul mitico mercato, se qualcuno ha comprato con soldi veri quella fuffa – e l’hanno comprata in tanti, perché “è roba tedesca” – quel qualcuno rivorrà indietro i suoi soldi veri. Le misure tecnico-regolamentari per difendere queste situazioni indifendibili sono semplici, come avevamo denunciato anni fa ai tempi degli stress test con le regole di Basilea 3, e consistono nel considerare “buoni” i derivati e “cattivi” i prestiti a famiglie e imprese. Così, arbitrariamente (non c’è alcun motivo tecnico-finanziario per trattare in modo opposto due “esposizioni al rischio”), le banche tedesche vengono considerate solide e quelle italiane affidate alla tagliola del bail in, che prevede l’esproprio di azionisti e obbligazionisti, indipendentemente dal loro grado di “cultura finanziaria”, come si è visto con Banca Etruria e simili. Lungi da noi, naturalmente, identificarci nazionalisticamente con “le nostre banche” (basti ricordare che è stato a lungo presidente dell’Abi, il “sindacato” delle banche, quel Giuseppe Mussari che ha portato Monte Paschi al quasi fallimento, tra misteri e morti sospette). Il problema che vogliamo porre è assai più importante: ma se questa è “l’Unione Europea”, se questi sono le sue modalità di funzionamento concreto, non vi sembra che la cosa sia semplicemente suicida? Di conseguenza, non vi sembra che “rompere questa gabbia” sia non solo la cosa più rivoluzionaria da fare, ma anche la più saggia? Riprendendo il controllo pubblico delle banche, naturalmente… Deve essere per questo che sia la Le Pen che Salvini non parlano più – e da tempo – di tornare alle monete nazionali.
IlSole24Ore 14 aprile 2016
La «guerra lampo» di Deutsche sui derivati di Alessandro Plateroti
Da che cosa si misura la forza politica e finanziaria di un sistema-Paese nell’Eurozona? La risposta, visti i tempi e gli eventi più recenti, è abbastanza intuitiva: dalla capacità di sfondare i limiti imposti alle finanze pubbliche senza essere travolti da polemiche; dalla capacità di condizionare raggio d’azione ed efficacia di regole bancarie e finanziarie che dovrebbero essere condivise e valide per tutti. Prendiamo ad esempio il nodo della leva e dei derivati nei bilanci delle banche. Dal fallimento di Lehman Brothers, l’impegno dei regolatori e dei governi è stato subito quello di diminuire la rischiosità sistemica delle grandi banche e soprattutto i pericoli generati dall’abuso dei derivati. In Usa e in Europa, i regolatori hanno imposto norme e sistemi di calcolo più restrittivi, rinviando poi alle decisioni del Comitato di Basilea, l’organo internazionale per la regolazione del credito, la stesura di un quadro definitivo di regole prudenziali. Una parte del mosaico, come ad esempio il bail-in, è già entrato in vigore, con risultati che in Italia si sono rivelati devastanti. Ma a nulla sono valse le nostre richieste di moratorie, di deroghe o di revisione delle norme. «Le regole valide per tutti – disse per tutti il ministro tedesco Schauble – e non si cambiano per i bisogni di un Paese». Mercato unico, regole uniche. La crisi di Deutsche Bank a inizio febbraio, ha ricordato a tutti dove si annidano i veri rischi sistemici. L’annuncio delle perdite e delle svalutazioni lanciato dalla banca ha terrorizzato i mercati, portando alla luce una realtà ben diversa da quella raccontata da Schauble. Deutsche, come un super-hedge fund, ha emesso derivati per 75mila miliardi di euro, 20 volte il Pil tedesco, e nel suo bilancio attuale pesano 32 miliardi di euro di derivati ad alto rischio e un’altissima leva finanziaria: fatti due conti, anche un calo del 4% del valore degli attivi potrebbe azzerare il capitale del colosso tedesco. Da anni tiene a bilancio ingenti quantità di titoli tossici classificati di livello 3. Ossia strumenti finanziari a cui non si riesce a dare un prezzo perché non trattati sui mercati e non equiparabili ad altri prodotti simili che invece lo sono. A quel punto è la stessa banca a decidere, attraverso dei modelli interni e con ampio margine di discrezionalità, quale valore attribuire a questi titoli. Davanti a queste cifre, gli investitori hanno quasi dimezzato il valore di Deutsche Bank, mentre il Governo tedesco ha lanciato un’imponente guerra lampo per difendere il simbolo della potenza finanziaria nazionale. Non tanto dagli attacchi speculativi, quanto piuttosto dal rischio regolatorio: mentre i mercati si preoccupavano dell’Italia, Berlino stava già segretamente lanciando la sua offensiva “diplomatica” per bloccare il varo delle nuove regole sui derivati e sulla leva finanziaria il cui debutto è fissato per il primo gennaio 2018. Dopo lo shock di febbraio, infatti, Deutsche Bank ha subito fatto presente al governo che senza cambiamenti radicali alle nuove regole internazionali sulla riduzione della leva e sul calcolo di valore dei derivati in bilancio, Deutsche Bank rischiava di diventare seriamente una banca ad alto rischio di crisi, come del resto già indicava il valore altissimo dei suoi credit default swap. Il nodo, in sintesi, era questo: bloccare il tentativo dei regolatori di imporre alle banche la copertura totale dei derivati in bilancio, così da consentire alle banche tedesche – le più esposte ai derivati – di proseguire con il proprio sistema di calcolo che include invece la quota o il margine in contanti che viene versato dai clienti a copertura parziale del rischio. Se il margine viene messo nel calcolo – come fanno attualmente in Germania le banche tedesche – l’assorbimento di capitale e soprattutto il calcolo della leva finanziaria è chiaramente vantaggioso o meno penalizzante. Il contrario avviene ovviamente se la quota di margine non è calcolata affatto: per banche come Deutsche – strapiene di derivati – l’impatto di costo sarebbe devastante. L’esito della moral suasion tedesca sui regulator internazionali è stato veloce e straordinario: dopo due anni di discussioni che avevano portato alla decisione di imporre nel 2018 a tutte le banche europee lo stesso sistema di calcolo dei derivati (senza cioè l’aiuto della quota di copertura), il Comitato di Basilea ha annunciato lunedì scorso il dietro-front. Ora l’orientamento è quello di permettere a tutti di fare come Deutsche Bank, scalando i margini dal bilancio e adottando persino il suo sistema di calcolo della leva. L’annuncio formale della svolta avverrà a breve, ma la non c’è dubbio che l’offensiva tedesca abbia cambiato in corsa le regole del gioco. Che dire? Mercato Unico, regole uniche: quello che fa bene a Berlino fa bene all’Europa. Rischi sistemici compresi. |